top of page

Ricognizioni sulla crisi della ragion cartografica







Le mappe ai tempi di googlemaps assumono una dimensione nuova, rivelandosi per quello che sono sempre state: strumenti dell’immaginario per inventare altri mondi, per dare una direzione al pensiero.


* * *


L’atto cartografico, disponendo di luoghi disparati come fossero siti della memoria sepolti, è un atto di archeologia, perché i luoghi sono lo stratificarsi delle memorie e le memorie stesse sono affettivamente estrinsecate come dei territori geografici. Lo spazio della mappa, descrivendo un itinerario, è luogo di una narrazione possibile e delle infinite storie possibili inscritte nel suo tragitto.

«Lo spazio della mappa è […] la pagina vuota» e «prende forma via via che leggiamo tra gli strati di molteplici voci», è lo spazio del cieco, come lo vedremo nel secondo capitolo. La mappa non è una totalità, ma un frammento composto di tracce anteriori, che potrebbe rivelare la memoria di molti luoghi percorsi. Se la mappa è un frammento, l’atlante, come quello di G. Bruno, è una raccolta di frammenti, un archivio, un archivio di memorie che hanno luogo. E i frammenti di cui la mappa è traduzione sono frammenti di spazio vissuto.

Come ha osservato Christian Jacob in L’Empire des Carts, uno studio teorico della cartografia:


«leggere la toponomastica di una mappa equivale a viaggiare nello spazio e a risalire nel tempo […] La lettura sollecita una genealogia, addirittura un’archeologia.

Il mappamondo è un palinsesto, un cimitero della toponimia».


Prima di addentrarci nella storia della cartografia, spieghiamo perché ci prendiamo tale disturbo e l’ansia di farlo: cartographix anxiety è il titolo di un capitolo del libro del 1994 di Derek Gregory, Geographic Imaginations, come ci segnala Giorgio Avezzù in un paper intitolato proprio Film History and Cartographic Anxiety.

L’ansia cartografica segue all’espressione «ansia cartesiana», che denoterebbe ansia epistemologica riguardo qualcosa che le profonde strutture della ragione sono incapaci di illuminare, di diradare, come con la mappa di Austerlitz. L’ansia cartografica denoterebbe un simile imbarazzo della moderna geografia di rappresentare il mondo geograficamente, riguardo i regimi di verità della geografia e l’effettività della sua configurazione di conoscenza e potere. Quello di cui si argomenta è ciò che Franco Farinelli ha descritto, individuando come il movimento di cose invisibili nel mappamondo contemporaneo corrisponda alle cose che hanno più valore e che tale fenomeno forzerebbe il mondo a disegnarsi in uno spazio aldilà della rappresentazione – uno spazio che è aldilà della tradizionale logica spaziale. Quello che coerentemente Avezzù sottolinea è che la recente cartographic anxiety che perseguita la teoria filmica sia un tentativo di reimporre strategicamente un ordine in qualcosa che sfugge al controllo. Esaminando alcuni autori che si sono interessati alla relazione che abbiamo indicato, come Dudley Andrei, Tiago de Luca o a testi come Exploration in New Cinema History e Locating the moving images, Avezzù evidenzia come il ricorrere di alcune espressione sia indicativo di tale impostazione: il richiamo a un presunto problema di referenzialità nel cinema che nasconderebbe un più vasto «problema di indicabilità del mondo»; l’invito a ricorrere a studi sulla presenza nei cinema, la circolazione e il consumo, con un approccio altrettanto micro e macrostorico, perché «ogni storia locale», dice Maltby, «contribuisce a un più largo disegno», un approccio che «descrive patterns, rithms, movements, rilevandoli in un database, con ricerche quantitative, dati empirici e analisi spaziali, geovisualizzazioni e gis, grafici, plot e tavolo: cioè geografia».

In un altro saggio sulle vedute aeree dedicate all’opera documentaria di Folco Quilici L’italia vista dal cielo, Avezzù nota come nella serie si realizzi un tentativo di semiotizzazione del paesaggio italiano, che consisterebbe in un «esercizio di correlazione tra caratteristiche superficiali, geometrie del territorio, e caratteristiche profonde, socio-economiche, culturali, identitarie di quello stesso territorio», che la visione dall’alto renderebbe possibile, perché, dall’alto, il paesaggio, come in geografia, è al servizio «della regionalizzazione, cioè della distinzione di tratti caratterizzanti di un territorio». Come si vede, per esempio, nell’episodio sulla Puglia, la visione aerea permette di distinguere Castel del Monte isolato nello spazio pianeggiante, «perfetta corona sfaccettata simmetricamente come una gemma», o la conformazione dei paesi del salento, «paesi bianchi nel sole, sui colli, sulla costa», o l’immagine netta di Polignano,« immagine archetipa delle città del sud: le case calde, il cielo azzurro, il mare blu», o i trulli di Martinafranca che dall’alto sono come «piccoli San Marco imitati da un bimbo con delle sabbie calde come quelle di Santos» (le citazioni sono tratte dalle voci illustri che commentano il documentario: Cesare Brandi, Mario Praz…).

Come ascoltiamo dire dal commentatore guardando un’antica stampa di Capo vaticano, nell’apertura dell’episodio sulla Calabria, «il Capo Vaticano: l’autore dell’antica stampa ha voluto mostrarci questo luogo come visto dal cielo: è questa un’antica aspirazione dell’uomo, vedere nel suo insieme, dall’alto, il mondo in cui vive». Dall’alto, vediamo le distese desertificate della Basilicata, dove «l’assenza dell’uomo significa impoverimento», o il posizionamento di paesi in zone sopraelevate, per proteggersi dagli attacchi dei saraceni che venivano dal mare, «paesi in cui gli uomini hanno potuto sopravvivere, pagando con la dura fatica del lavoro agricolo in montagna quel senso di sicurezza che gli veniva dal sentirsi arroccato su cime difficilmente espugnabili», «paesi che si sono nascosti nelle rude delle valli: oggi, quelli più isolati, sono in genere abbandonati».

Quello che ci interessa qui, però, del discorso di Avezzù, è che una tale operazione di

semiotizzazione sembrerebbe mossa da «una minaccia all’esistenza di un paesaggio leggibile».

Chiamando in causa la Semiologia del paesaggio italiano, di Eugenio Turri, Avezzù

evidenzierebbe in tale interesse cartografico, una parallela «pervasiva perdita di leggibilità», una perdita della «funzionalità distributiva degli oggetti nello spazio», di una perdita della funzione del paesaggio come «insieme organizzato di segni che rimandano a elementi funzionali». E a tale modificazione nel paesaggio corrisponderebbe una «geoscopia» difficile, che Lucio Gambi discute nel suo Critica ai concetti geografici di paesaggio umano, che evidenzia «la difficoltà di decifrazione del paesaggio, e quindi sulla sua inadeguatezza come strumento conoscitivo».

Gambi identifica questo problema nel fatto che molti fenomeni umani «non lasciano riflessi nella topografia», a cui conseguirebbe una «perdita di una corrispondenza tra fenomeni umani e la loro traccia materiale, sensibile (visibile) sul territorio». Oltre a Gambi e Turri, Avezzù fa riferimento anche a Farinelli, che individua la ragione cartografica nella convinzione che la registrazione dall’alto delle forme visibili permetta la descrizione del suo funzionamento profondo.

Convinzione che viene messa in dubbio proprio dal suo intento di inquadrare complessivamente una realtà territoriale come quella italiana, l’Italia «sparita e sparente» del Viaggio in Italia di Cernetti.

Avezzù poi riferisce di una pubblicazione istituzionale dell’epoca, la Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio presieduta dall’on. Franceschini. La cosa interessante che la Commissione sottolinea è proprio «l’inadeguatezza di qualunque approccio alla tutela del bene culturale ambientale che ragioni unicamente in termini geometrici, sulla base di distanze, coni, visuali, perimetri». Il vincolo tutelare certo non si esaurisce in una qualche parziale estensione visiva geometricamente determinabile, perché il bene avrebbe «una complessità che ne trascende dimensioni e attributi spaziali propri». Il resoconto di Avezzù, dunque, è di certo in linea con il nostro proposito, che emergerà più chiaramente nel secondo capitolo, in cui il concetto del cieco in Derrida, della bruciatura nel visibile di San Bernardo, della lacerazione di D. Huberman, ci consente di parlare di una cartografia che si faccia mimetica con l’invisibile piuttosto che con le cose esistenti.

Il neurologo Antonio Damasio afferma che l’aspetto distintivo dei nostri cervelli è l’abilità di creare mappe. «Il cervello umano è un cartografo nato e la cartografia iniziò con la mappatura del corpo all’interno del quale esso è collocato». La mente, a dispetto delle antiche credenze del dualismo cartesiano, ha proprietà estensive così come il corpo. Damasio ci propone un’immagine esemplare per convincerci della connessione mappa- cervello: se noi asportassimo dalla superficie della nostra corteccia cerebrale delle lamine sottili che corrispondono ai neuroni, le colorassimo con un agente e lo disponessimo su un vetrino per poi osservarlo al microscopio, ci accorgeremmo del struttura reticolare degli strati corticali presi in considerazione, una struttura che ricorda la struttura reticolare della cartina di una città. In una mappa cerebrale le linee sono il risultato dell’attività temporanea di alcuni neuroni. A differenza di una cartografia classica infatti, le mappe cerebrali sono imprevedibili e non statiche, cambiano a ogni momento per riflettere i cambiamenti che risiedono nei neuroni, che a loro volta corrispondono ai cambiamenti all’interno del nostro corpo e del mondo intorno. La cartografia mentale assomiglia sempre più a un particolare tipo di cartografia, che sarà esaminata nel secondo capitolo, la cartografia lacunosa della mappa Borghes-echiana o cartografia fasmide, ma anche alle mappe disegnate da Opicinus, che riferendosi ogni volta allo stesso territorio del mediterraneo, non smettono di imprimere modificazioni e slittamenti, così come le carte pensate da Deleuze, che non ritengono mimeticamente i luoghi visti, ma tracciano delle linee in corrispondenza dei tragitti, dei cammini. La carta dei cammini è una carta che non smette di annotare: la cartografia non andrebbe intesa infatti come la scienza delle mappe finite, ma come l’arte nomadica, vaga e proto-geometrica, che non smette di aggiungere nuove coordinate. E la mappa astronomica di Dante non sarebbe un simile cavaliere fluttuante che si mette a correre intorno al proprio cervello?

La cartografia emersa con l’intenzione precisa di raccontare luoghi fittizi, di mappare territori dell’affetto, guarderemo alla cartografia medievale stessa, cioè quella cartografia che invece intendeva descrivere oggettivamente il mondo, come una pratica piena di ambiguità: se consideriamo che le carte fornissero dei modelli di rappresentazione probabili per viaggiatori, essa, in realtà, traccia coordinate possibili, aperte all’errore e all’immaginazione, in cui spesso la definizione di confini lì dove la conoscenza geografica e l’esplorazione non si è spinta, immagina mondi finzionali, abitati da mostri ed esseri immaginari.

Italo Calvino introduce nella cartografia la proprietà quella del vagabondaggio e dello spaesamento, della prospettiva rovesciata, la carta che il nomade ha bisogno di tracciare per opporla ad uno spazio che ha già i suoi punti codificati secondo un progetto urbanistico non modificabile.


Procedimento opposto e simmetrico a quello d'un prete italiano degli inizi del Trecento, Opicinus de Canistris. Muto, col braccio destro paralizzato, semismemorato, spesso in preda a visioni mistiche e all'angoscia del peccato, Opicinus ha un'ossessione dominante: interpretare il significato delle carte geografiche. Egli non fa che disegnare la carta del Mediterraneo, la forma delle coste per dritto e per traverso, talora sovrapponendovi il disegno della stessa carta orientato diversamente, e inseriti in questi tracciati geografici fa apparire figure umane e animali, personaggi della sua vita e allegorie teologiche, compenetrazioni sessuali e apparizioni angeliche, affiancandoli con un fitto commento scritto sulla storia delle sue sventure e vaticinii sul destino del mondo. Caso straordinario di «art brut» e di follia cartografica, Opicinus non fa che proiettare «il proprio mondo interiore sulla carta delle terre e dei mari».


Opicinus si affianca alle nostre figure di ciechi e di smemorati, alle nostre memorie di cieco: perdere la memoria e così anche la familiarità con i luoghi e divenire ciechi, aprendo il mondo della visibilità ai grandi vetri dell’invisibile. Inoltre, l’atto cartografico di Opicinus è segnato, come sottolinea Calvino, da un impeto di ripetizione: al culmine del paradosso, l’arte di rappresentare un territorio si rivela segnato dall’apparire della differenza non appena essa si fissi sullo stesso.

L’identità di un luogo si scopre essere attraversata dal differire da sé, nel momento stesso in cui essa si realizza in una rappresentazione, che fissandone le proprietà, ne scopre il carattere di irriducibilità, di segreto: ogni volta Opicinus trascrive l’immagine del Mediterraneo e ogni volta in essa permane l’esperienza di un segreto che non si lascia tradurre, il segreto che egli stesso, nella sua smemoratezza, non smetteva mai di ricordare e dimenticare allo stesso tempo.



Con procedimento inverso, la società delle «preziose» del Seicento cercherà di rappresentare la psicologia secondo il codice delle carte geografiche: la «carta del tenero» ideata da M.lle de Scudéry, in cui un lago è l'Indifferenza, una roccia è l'Ambizione, e così via.


Partendo, se vogliamo, da dove si ferma Calvino, Giuliana Bruno ricostruisce la genealogia dell’apparizione delle carte geografiche delle emozioni. Nel 1654 ca. viene pubblicato nella «Gazzette de Tendre» un testo intitolato Discours gèographique in cui compare la Carte de tendre, una mappa che documentava geograficamente lo spazio dell’intimità e dava una collocazione fisica alla memoria, in cui era possibile navigare per ripercorrere i luoghi della propria immaginazione..

Fu disegnatata da Scudery ed è un «ricostruzione romanzesca di uno spazio vissuto». Nel romanzo, come riporta G. Bruno, si dice che Clèlie stessa progetta la pianta narrativa, «la disegna per indicare la via che porta alla terra di Tendre». Nello spazio normativo in cui sono convenzionalmente confinate le donne del '600, lo spazio immaginario che Scudery traccia delinea una traiettoria che moltiplica gli strati percorribili del reale e in tal modo, imprimendo una piega immaginaria nel reale, sta già tracciando una piega nello spazio reale stesso, sta cioè incrinando l’idea che lo spazio reale sia condannato a essere soltanto quello di una mappatura mimetica dello stesso. Oppure utilizzando una terminologia deleuziana già introdotta in precedenza, potremmo indicare le traiettorie segnate da Scutery nella sua Carte de Tendre come delle fughe, dei flussi di quanta, flussi di intensità che interrompono il regime segmentario del piano striato, riconducendolo al piano liscio.

Secondo Deleuze, il piano striato riferirebbe alla tecnica della tessitura e ai vimini a intreccio che operano per ordito e trama, con montanti e fili e si individuerebbe in uno spazio necessariamente delimitato, mentre lo spazio liscio si produrrebbe nel feltro, una specie di anti-tessuto, in cui non c’è nessun intreccio, un sistema di intrico non omogeneo e tuttavia liscio, aperto e illimitato in tutte le direzioni. Oppure lo spazio liscio del ricamo, con il suo motivo centrale e il patchwork, con il suo pezzo per pezzo, con le sue aggiunte di tessuto all’infinito «[…] che conteneva un’intera collezione di stoffa colorati di tutte le forme possibili. Non poteva mai decidersi a disporli secondo un modello definitivo, perciò li spostava, li ricollocava, rifletteva; li spostava e li ricollocava di nuovo come i pezzi di un gioco di pazienza mai terminato […]». In questo senso Gd segnala il sistema patchwork nei quilting party in America in relazione al ruolo di collettività femminili. La storia del quilt è indicativa, in quanto essa emerge all’interno della forma del ricamo utilizzata dai coloni europei passata a una formula patchwork durante l’emigrazione verso il nuovo mondo. «È come se uno spazio liscio si liberasse, uscisse da uno spazio striato […] Conformemente alla migrazione, al suo grado di affinità con il nomadismo, il patchwork prenderà non soltanto nomi di percorsi, ma “rappresenterà” percorsi, sarà inseparabile […] dal movimento in uno spazio aperto». Allo stesso modo, G. Bruno individua nella geografia del «tenero» di Scudery un carattere di fluidità, collocato in un «luogo abitato e privo di confini», il cui «osservatore- abitante si trasforma in un viaggiatore […] libero di vagabondare entro il suo perimetro in […] multipli itinerari relazionali». Come il piano liscio, la carte de tendre non illustra una topografia demarcata e isolata, bensì un terreno che continua a traboccare in un cartografico fuori scena. Le terre della tenerezza non sono circoscritte: in alto, a sinistra e a destra, vediamo solo una porzione del Mer Dangereuse e oltre le Terre Inconnues, i cui confini non sono visibili, ma continuano indefinitamente fuori dallo spazio della cartre.

Nel suo essere piano di linee di fuga possibili, piano dell’immaginario, la carte de tendre si fa opera aperta di geografia. G. Bruno fa notare, infatti, che le diverse zone dell’intimità sono raggiungibili in molti modi, che potenziali opzioni di percorso producono un effetto cumulativo: «si può raggiungere Tendre-sur-Inclination per via d’acqua, seguendo il corso del fiume Inclination, che porta a Le Mer Dangereuse; Tendre-sur-Estime attraverso una serie di interludi su terra ferma, che vanno dal ponte della città di Nouvelle amitiè in poi, passando al villaggio di Grand Couer».

La carte de tendre apre all’arte della mappatura immaginaria possibilità inedite, tra cui l’inscrizione di un discorso all’interno della mappa stessa, come nella Carte de la Bataille des Romans (1659), in cui le strategie e le tattiche discorsive sono comprese nello spazio, come a indicare che lo spazio sia realmente attraversato da questi ordini di discorso; o nella nouvelle allègorique, ou Histories des dernier troubles au royaume d’eloquence, di Furetiere, in cui la mappa registra allegorie e descrizioni; o ad esempio «in Relation de l’Isle Imaginaire et Histoire de la Princesse de Paphalonie, in cui Madeoiselle de Montpensier inventò un’isola immaginaria appartenente a un personaggio femminile»: mappare letterariamente uno spazio significherà trovarne collocazione nella geografia dei luoghi immaginari.

Nonostante la carte de tendre sia contrassegnata da punti notevoli che identificano le diverse zone dell’affetto, essi, come nel piano liscio deleuziano, sono subordinati al tragitto, piuttosto che subordinare questi ultimi ai primi. Nello spazio liscio la linea, il tragitto, è una direzione e non una dimensione e circoscrive «eventi ed ecceità, più che cose formate e percepite»; è, scrive Deleuze «uno spazio d’affetti, non di proprietà», come nella carta emozionale, «spazio intensivo, più che estensivo, di distanze e non di misure», «spatium intenso invece che extensio». Ora, però, il tragitto che caratterizza il viaggio che si effettua nel piano liscio, non è semplicemente quello che avviene partendo per i Mari del sud, come scrive Fitzgerald, ma quello che avviene sul posto, circolarmente: «l’essere è rotondo», scrive Jaspers. I nomadi come scrive Toynbee, non si muovono, «sono nomadi a forza di non muoversi, di tenere uno spazio liscio che rifiutano di lasciare […]. In breve quello che distingue i viaggi non è la qualità oggettiva dei luoghi né la quantità misurabile del movimento, […] ma il modo di spazializzazione, la maniera d’essere nello spazio». Abitare il verbo, vivere nell’immagine è ciò che deriva da tale movimento ricurvo che non implica un uguale movimento del pensiero, ma ne reclama piuttosto l’infinità del movimento: il movimento infinto del pensiero è il movimento di mondo deleuziano.

Essendo, come abbiamo visto, gli spazi presi in considerazione popolati di distanze e non di grandezze, le divisioni che esse ospitano sono di una natura particolare: le distanze, infatti, a differenza delle grandezze, non si dividono senza cambiare di natura ogni volta. Nelle carte del tenero, allora, le molteplicità di distanza sono inseparabili da un processo di variazione continua.

Questo carattere le avvicina ai modelli topologici e probabilitari introdotti dal matematico Bernard Rienmann, ai frammenti rienmanniani di spazio che sono l’uno in rapporto con gli altri:


Gli spazi di Rienmann sono sprovvisti di ogni specie di omogeneità.

Ognuno di essi è caratterizzato dalla forma dell’espressione che definisce il

quadrato della distanza di due punti infinitamente vicini […]. Ne risulta che

due osservatori vicini possono individuare in uno spazio di Rienmann i

punti che sono nella loro vicinanza immediata, ma non possono, senza che

si instauri una nuova convenzione, reperirsi l’uno in rapporto all’altro. Ogni

vicinanza è dunque come un piccolo pezzo di spazi euclideo, ma il

collegamento di una vicinanza alla vicinanza successiva non è definito e

può costituirsi in una infinità di maniere. Il più generale spazio di

Rienmann si presenta così come una collezione amorfa di frammenti

giustapposti senza essere collegati gli uni agli altri.


Dunque la molteplicità che caratterizza gli spazi delle cartografie immaginarie è definibile indipendentemente da una metrica, mediante condizioni di frequenza o d’accumulazione, con valori ritmici autonomi. Sempre seguendo la genealogia anacronistica di tale cartografia, Deleuze indica le operazioni in atto negli oggetti frattali di Benoit Mandelbrot: i frattali inventano una modalità nuova di rappresentare matematicamente lo spazio, attraverso delle figure di approssimazione infinita, che nella nostra esperienza quotidiana ritroviamo continuamente, come nel disegno delle coste, che si ridisegnano di continuo, come aveva già predetto Opicinus.


Sono insiemi il cui numero di dimensioni è frazionario, non intero, oppure

intero, ma con variazione continua di direzione. Per esempio, un segmento

di cui si sostituisce il terzo centrale con l’angolo di un triangolo equilatero,

ripetendo poi l’operazione su ognuno dei quattro segmenti, ecc., all’infinito,

secondo un rapporto d’omotetia, – un tale segmento costituirà una linea o

una curva infinita di dimensione superiore a 1, ma inferiore alla superficie (=2) […]. Nello stesso modo, un cubo che si buca secondo il principio di

omotetia diventa meno di un volume e più di una superficie. Sotto altre

forme ancora, il movimento browniano, la turbolenza, la volta celeste,

sono «oggetti frattali» di questo genere. Forse si potrebbe disporre così di

una nuova maniera di definire gli insiemi vaghi.



La curva di Van Koch: più di La spugna di Sierpinski: più di una superficie,

una linea, meno di una superficie. meno di un volume.




Immagine: Chinese Shan-Shui Tatoo, 1999.


* * *


Danilo Paris è uno scrittore e regista teatrale, laureato in cinema e teatro. Vive a

Ferentino. Ha scritto il saggio Cinema Biologale. Ha creato il festival dell’arte nomadica,

ora alla II edizione. Ha scritto il romanzo Qiâokëlį ecolalie dai mondi perduti , di cui ha diretto due adattamenti teatrali.

bottom of page