
Sergio Bianchi, Linea, 2018
Arrivato alla panca, la serata era già nel vivo. Si discuteva se quest’anno la Juventus ce l’avrebbe fatta o meno a vincere la Champions. Alcuni sguardi erano illuminati dalla prospettiva che Pirlo avrebbe fatto la magia, come quelle che sillabava quando ancora calcava i campi di calcio: la punizione contro l’Inter nel derby poi perso 2 a 1 dal Milan, il primo gol della cavalcata che portò l’Italia a vincere il mondiale nel 2006, il cucchiaio per far abbassare la cresta agli inglesi e ad Hart ad Euro 2012; altri, persi nei loro pensieri, dato che del destino della Juventus, del Milan, dell’Inter o del Tozzona Pedagna non gliene poteva interessare di meno. Decisi che la bomba l’avrei fumata insieme agli sguardi perduti nel vuoto piuttosto che con quelli fissati sui giorni che si ripetono. In più, la mia tesi l’avrei sparata alla fine della serata con i superstiti che di solito ti accompagnano a casa. Avrei sentenziato che «in Europa la musica è altra rispetto all’Italia; lì ti serve un mix perfetto tra giocatori o allenatori che l’hanno già vinta e giovani che non vedono l’ora di alzarla, ma che, comunque, Andrea è pur sempre Andrea, e uno così ti può far fare il salto di qualità», e avrei salutato con uno sguardo tra l’ammiccante e il sicuro di sé.
La passai a Lara, che, felice di salutarmi, sbuffando fumo, introdusse un discorso troppo interessante.
«Allora rega, mio padre mi ha sganciato un po’ di cash per trasferirmi a Torino per fare la specialistica». Un sonoro «e questo è buono!» la interruppe per qualche secondo. Mentre Lara se la rideva, ricominciò: «E certo che è buono! Allora, io di sicuro andrò, perché sta città mi ha spaccato la minchia. Non succede niente di interessante, non si incontrano altro che uomini troppo deboli per affrontare la decadenza della loro condizione di uomo che o si rivelano completamente impotenti e insicuri che poi finisci per diventare o la loro mammina oppure un’amica asessuata, oppure – si girò verso di me, ometto, che alle spalle aveva il resto della comitiva dei ragazzi, ancora raggruppati a discutere di calcio – altri uomini, persi nella cocaina e nelle droghe a cercare la sensibilità che potrebbero godersi al di fuori delle droghe stesse, se riuscissero a tenere naso e bocca liberi per qualche mese. Oppure – e stavolta guardava Sara – lesbodrammi, o, peggio, gente come me, eh eh, che preferisce autodistruggersi piuttosto che affrontare l’insensatezza della vita e delle proprie azioni. Maaaaa questo è un altro discorso».
Azz. Come al solito, Lara aveva lanciato una megabomba. Seppur Gianlu restava stabilmente ancorato nel gruppo dei maschietti, avevo notato che aveva appizzato le orecchie verso di noi, e ogni tanto, ci toccava pure con lo sguardo. Lara riprese. «Comunque, dopo aver concluso l’accordo mi è subito venuto in mente quello che diceva Paolo l'altra sera sul rapporto giovani e vecchi, padre e figlio. Mi ha turbato. Cioè Paolo mi turba sempre, però...».
Sara s’intromise. «Scusa Lara, cos’ha detto Paolo l’altra sera? Cioè se ricordo bene è quel tuo amico vecchiotto». Fuori campo arrivò coi tempi giusti la voce di Gian, «ma chi il comunista?!?», seguita dalle risate e dal borbottio di Emanuele, «E basta co’ ‘sti comunisti, ma i tempi so’ cambiati. Qua stiamo nel 2020 e ancora parliamo di comunisti e fascisti. E che palle. Ci vogliono cose nuove, nuove avanguardie. E qui si rispolverano ‘sti fossili che con la bandiera rossa a brandelli ci spaccano i coglioni col comunismo. Va beeeeh». Mentre Emanuele finiva la frase gli toccai il braccio in cerca di un’altra boccata, e con la scusa lo interruppi: «Eddai aspetta, sentiamo che diceva Paolo, facciamoci due risate: vai Lara».
«Ecco, grazie Bleiz» disse Lara. Mentre pensava al modo giusto di mettere giù le parole, puntuale arrivò la battuta da Marco: «Oh rega, e che cazzo, un po’ di distanziamento sociale! Fateme spazio pure a me. E fatemi fumare!».
Ora che eravamo un unico assembramento affiatato e pronto a scannarsi come ogni sera, Lara cominciò. «Allora, sì, Paolo è quel vecchiaccio che ogni tanto passa al bar a cazzeggiare con noi, e, Gian, se gli dai del comunista non so se lui ne rimane contento. Detto questo, l’altra sera mi fa: “Senti Lara, io non capisco come voi giovani d’oggi non abbiate colto l’occasione del Covid per sterminare tutti i vecchi come me, che a causa delle condizioni economiche attuali sono il più grande peso per il vostro futuro. Io, devo dirlo con sincerità, a volte vi apprezzo, perché sapete resistere con alcune forme di ironia a questo sovraccarico d’informazione che porta ad un non senso continuo, ad un’incapacità di saper scindere il vero, sempre se il vero esiste, dal falso; ma, a volte, non vi capisco. Penso che se ci fossimo stati noi del ‘68 al vostro posto avremmo rotto i divieti, ma non quelli di Giuseppì o di quell’altro demente di Di Maio, ma avremmo conflitto con tutto il sistema sociale. Saremmo scappati di casa, mettendo a rischio la vita dei nonnetti come me, prendendoci anche la responsabilità di steccarne qualcuno e di deludere i nostri genitori. Avremmo creato comuni tese a uno stile di vita comunitario. Perché vedi Lara, bisogna rompere con i padri, per acchiappare il futuro con le mani”. Boom, la solita bomba di Paolo. Allora io ieri, dopo che mio padre mi ha assicurato che avrebbe sganciato, ho pensato: ma forse che sto ripetendo senza accorgermene dei gesti che non sono miei? Cioè, è davvero una mia scelta quella di seguire questa strada? E quindi sti soldi, li devo prendere o no?».
Gian fremeva, non ce la faceva più. Prese parola. «Senti Lara, tu lo sai che io ti apprezzo, che mi stai simpatica e tutto. Quindi sai che quello che sto per dire non è contro di te, perciò scusami se la mia schiettezza ti ferirà, però in tutto sto discorso mi paiono chiare due cose: la prima è che tu hai il culo parato. Nel senso che tuo babbo tira su quattromila al mese, ha la casa di proprietà, e in più ti passa una bella mesata che ti consente di studiare e uscire tutte le sere senza dover lavorare. E non c’è niente di male, eh. Lo dico con una punta d’invidia perché io devo andare a lavorare tutte le mattine alle cinque, ma comunque, lo sai, la mia vita mi piace. A studiare non volevo studiare, a disegnare continuo a disegnare per i fatti miei. Insomma, non mi posso lamentare. La seconda: ma perché dovresti uccidere tuo padre che, sacrificandosi, ti dà tutto sto ben di Dio? E perché avremmo dovuto creare una comune con gente che non conosco e che magari mi fa schifo, rischiare di far ammalare i nostri genitori e nonni? Per distruggere la società? Ma va là, per favore... Io capisco bene che da ragazzini, quante ne abbiamo fatte regaz, bisogna guardare anche alla propria autonomia e ribellarsi all’autorità dei genitori, e mi pare che tutti l’abbiamo fatto senza risparmiarci. Però quand’arrivi a trent’anni devi anche scegliere chi sono i nemici giusti. Bleiz, raccontagli di quando tuo padre voleva suicidarsi perché aveva perso il lavoro nel 2008, lì cosa dovevamo fare? Dirgli che era uno sfigato, e in cuor nostro, avremmo dovuto ucciderlo?»
Gianlu aveva parlato tutto d’un fiato, lasciandoci tutti senza. Dato che ero stato interpellato, dissi la mia:
«Boh rega, che dire. Qua la questione – mentre parlavo, per stemperare, intonai la risposta con la voce di un intellettuale napoletano dalla erre moscia – è di difficile risoluzione. È certo che Lara pone un problema importante, e che Gianlu, pur sembrando in contraddizione, altro non fa che approfondirne il solco. Penso che tutto possa essere detto con una sola frase: che senso ha oggi il vecchio problema del complesso di Edipo? O meglio: che senso ha uccidere il padre, se il padre, nella nostra epoca, è depresso?».
Per fortuna tutti scoppiarono a ridere. Allora con la solita voce, ritornai a dire le mie cagate.
«Riassumo, per gli ignoranti, la storia di Edipo. Il giovane Edipo, futuro re di Tebe, viene abbandonato dalla madre Giocasta e dal padre Laio, a causa di oracolo proveniente dal tempio di Delfi: Edipo, infatti, una volta nato, sarebbe stato la rovina per suo padre. Secondo la profezia, non solo lo avrebbe ucciso, ma avrebbe anche sposato sua madre Giocasta. Perciò Laio e Giocasta lo faranno abbandonare da un servo fedele su di un monte. La storia andrà come andrà: Edipo, raccolto e allevato dalla casata del re Polibio, venuto a conoscenza dell’oracolo, scapperà per evitare la triste sorte all’amato falso padre, e sulla strada, in seguito ad an alterco, ucciderà, senza essere a conoscenza della sua identità, il suo padre vero. Morale della favola, la profezia si realizzerà. Nella storia sarà quel bullo di Tiresia a svelare ad Edipo l’inganno. Giocasta s’impiccherà; Edipo si caverà gli occhi, scapperà sui monti a cercare una morte non naturale.
‘Sta storia è importante perché Freud successivamente c’ha ricamato sopra la sua teoria della sessualità infantile nella quale afferma, fondamentalmente, due cose. La prima: anche i bambini hanno pulsioni sessuali. La seconda: dentro di loro si produce un rifiuto incosciente del genitore del proprio sesso, dovuto a una proiezione amorosa nei confronti del genitore del sesso opposto. Questa fase si risolve da sola, con l’identificazione progressiva con il genitore del proprio sesso. Se posso dire la mia, legando Paolo e Freud, hanno entrambi in parte ragione ed in parte torto. In qualche maniera c’hanno beccato, nel senso che, come dice Marracash, bisogna uccidere gli idoli per poter pensare con la propria testa. Significa che, anche secondo me, fino ad un certo punto si è figli del proprio padre o della propria madre: sono loro ad indirizzare le nostre scelte, l’abbigliamento, l’educazione. A una certa ci si scontra con la propria famiglia, e in qualche modo si “uccidono” metaforicamente Laio o Giocasta. E questa è la parte in cui concordo. È necessario liberarsi delle loro influenze per sviluppare una propria visione sulle cose. Penso però che ‘sta roba di rompere coi nostri genitori, quindi del rapporto giovani contro vecchi, sia diventata una sorta di ossessione da riprodurre ogni volta che ci troviamo di fronte un problema. Non voglio banalizzare, però quante volte abbiamo sentito gente di 35 anni sfondarci le palle con traumi che risalgono alla loro età infantile. Cazzo, vecchio, hai 35 anni, o la questione l’hai risolta oppure hai speso un botto di soldi dallo psicologo senza aver fatto nemmeno un passo avanti. O hai il coraggio di mandare i tuoi a fanculo oppure resterai per sempre un bambino.
In più, penso che i traumi della nostra generazione dipendano anche dal fatto che si siano compiute azioni traumatiche mistificate da atti di libertà. Io dico che i traumi hanno anche un’altra natura, ovvero quella attiva: regaz, le cose orrende si subiscono, e questo va bene, ma si compiono pure. Ad esempio, penso alle nottate passate sotto MD presa apposta per provare empatia. È un controsenso. Vai ad una festa dove ci sono migliaia di persone e ti cali per trovare un sorriso. Sarebbe stato molto più facile dire “ciao”, che autosomministrarsi una cura chimica per risolvere i propri complessi».
Emanuele m’interruppe. «Sì, pure secondo me ha senso combattere solo le guerre giuste. E le guerre si combattono con tutte le armi che si hanno a disposizione. Ad esempio, il mio padrino era una merda sia con me che con mia madre, e io ho fatto di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote».
Ripresi. «Quindi, penso che sto rapporto padre/figlio, in questo momento storico, inteso come destino divino, prendendo a prestito l’interpretazione di Sofocle, cioè come un conflitto necessario tra il vecchio e il nuovo, sia una legge di sviluppo sociale che serva più al capitalismo per innovarsi che al bambino per liberarsi delle scelte compiute a suo nome dal padre».
Continuai. «Cioè, è facile per i sessantottini dire uccidiamo il padre, la madre, il nonno e il cane. Il loro conflitto familiare s’inscriveva in un contesto diverso dal nostro, in cui la battaglia padre/figlio riproduceva nel piccolo la grande battaglia sociale tra due schemi opposti e confliggenti, cioè capitalismo/comunismo. Senza contare che gli anni 50/60 sono noti come quelli del boom economico, gli anni ‘00 come quelli della crisi. La linea del conflitto era molto più articolata e profonda che vecchio contro nuovo. Cioè tuo padre diventava tuo nemico non solo in quanto padre, ma in quanto espressione di una delle due parti in battaglia. Sarà ben più facile rompere con i tuoi familiari perché sono orgogliosi di essere degli operai Fiat e ti criticano se non vuoi entrare in fabbrica a diciott’anni che dare dei falliti ai tuoi perché non riescono a portare uno stipendio decente a casa. Per chiudere: sarà ben più facile decidere di rischiare di uccidere un nonno, un padre o una madre che disprezzi piuttosto che uno che non ami, ma che nemmeno ti fa schifo?”.
Lara riprese il punto della situazione. «Allora, secondo me, qua la questione va vista in questo modo. Il complesso di Edipo vale fino ad un certo punto, poi deve prendere una nuova strada. Sono d’accordo col dire che il futuro lo prendi con le mani, quando quelle mani le muove effettivamente il tuo cervello, cioè dopo che hai abbattuto gli idoli, prendendo dalla loro distruzione ciò che ti serve e abbandonando ciò che reputi inutile. Ma questo non basta. Perché per dirla con un meme, “viviamo in una società”, che, in assenza di un conflitto strategico sul suo sviluppo rende padri, madri e figli sicuramente tutti diversi, e in conflitto personale tra loro, ma tutti schiavi. Quindi, la seconda tappa del complesso di Edipo non è più psicologica, ma sociale, forse politica. Cioè il conflitto va mosso non contro tuo padre o tua madre – tipo mia madre, a differenza di quella di Fede è una morta di fame, nel senso che vive di lavori precari ed è sempre stata fregata dagli uomini – o meglio contro la precarietà, che è ciò che ci accumuna e che ci divide».
«Brava Lara» disse Emanuele. «Sono stanco di essere un morto di fame. Pensa che quest’anno la macchina a mia madre l’ho dovuta comprare io, che in famiglia sono l’unico che lavora con uno stipendio fisso…il padre è il sistema, che io faccio fatica a chiamare capitalismo, e noi siamo i suoi figli che a lui si ribellano perché ci impoverisce. E poi scusate, ma ‘sto Sessantotto sembra che se lo siano inventati quelli del Sessantotto. Si dimenticano che l'ideale che li faceva confliggere con la realtà non era un desiderio nascosto pensato da uno solo, ma una pratica di vita di centinaia di migliaia di persone nel mondo. Cioè, diciamocelo, la Rivoluzione di ottobre c'era stata cinquant'anni prima; negli anni Sessanta quell'utopia contrapposta al capitalismo rischiava di vincere, non era un processo storico morto e sepolto come lo è oggi. È stato quell'avvenimento a sconvolgere ed influenzare tutto il Novecento, mica il conflitto giovani e vecchi. È chiaro che quel processo storico si è incarnato in tutte le linee di conflitto sociale, però da qui a pensare che le comuni di giovani abbiano creato il Sessantotto ne passa di acqua sotto ai ponti...»
«A proposito di acqua – disse Lara – me ne passi un sorso?».
«Certo» rispose Sara. «Oh, ma avete visto Joker?»
«Cazzo, spacca quel film. Quando gli fa: “Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti”. Sbam! Vaglielo a dire ai figli dei fiori!».
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