In questo testo Lanfranco Caminiti prende a pretesto l’onnipresenza mediatica del momento di Zerocalcare (al quale va tutta la nostra simpatia e stima) per sollevare la domanda su quale destino politico, professionale, esistenziale ha avuto la «generazione di Genova 2001», quell’area tra il militante e il simpatizzante che ha affollato i Centri sociali dal ’90 della «Pantera» in su.
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«Zerocalcare verrà convocato da Roberto Mancini per rafforzare l’attacco in vista dei play-off per le qualificazioni al mondiale».
Non mi stupirei affatto di trovare un titolo così (sto celiando), nelle prossime settimane: Zerocalcare è ovunque – su carta, su serie, in teatro, in persona, a ogni festival, a ogni salone, sull’adesivo antifa del Centro sociale, sul manifesto di convocazione per un qualche sciopero, sulla locandina di un evento – e ovunque garantisce fortuna, perché non dovrebbe portare fortuna alla nazionale di calcio?
La capacità di produzione di Zerocalcare – qui non si discute sulla sua qualità artistica e politica (non ne ho i titoli) – ricorda quella di Carlo Lucarelli, giornalista, scrittore, conduttore televisivo, sceneggiatore, una vera macchina da guerra impressionante che a un certo punto divenne quasi un meme – per quel suo modo di parlare, staccando brevi frasi una dall’altra e enfatizzando la sospensione.
La differenza, lo scarto tra Zerocalcare e Lucarelli è che Lucarelli rimase un fenomeno giornalistico mentre Zerocalcare è un «fenomeno sociale»: a nessuno mai sarebbe venuto in mente di promuovere come «l’ultimo intellettuale» Carlo Lucarelli, invece è venuto a Marco Damilano direttore de «L’Espresso», che così ha nominato Zerocalcare sulla copertina del suo settimanale. Una cosa che sarebbe piaciuta tanto a Nanni Moretti (un mondo di tempo fa), gli venisse detta quando apostrofava i dirigenti di sinistra e organizzava girotondi «de sinistra» – si sfiancò presto.
Un fenomeno sociale così – beh, per la verità anche più in grande, ma chissà – cioè in cui le qualità artistiche esuberano la propria produzione per diventare qualcosa di più, un segno «civile», politico, era successo con Roberto Saviano.
Roberto Saviano non è stato solo uno scrittore-giornalista di enorme successo mondiale e una macchina di produzione impressionante (dal cartaceo al virtuale, dal cinema alla tv) ma un «intellettuale organico» che aveva tracimato dalle storie di camorra per parlare della qualunque. O meglio: parlava della qualunque, ma sempre usando il «prisma concettuale» della camorra. C’era una questione di scommesse nel mondo del pallone? Ha stata la camorra. C’erano elenchi interminabili di incandidabili nelle file della politica? Ha stata la camorra. C’erano questioni geopolitiche con la Cina che cercava porti europei? Ha stata la camorra. Se gli studenti scendevano in piazza, Saviano aveva qualcosa da dire loro. Se occupy protestava contro i potenti in nome del 99%, Saviano era lì a New York a dire la sua. Era l’Antonio Gramsci di questi tempi grami – d’altronde era un martire anche lui, perseguitato, in una vita protetta. Coccolato da Ezio Mauro, amato, amatissimo dai lettori de «la Repubblica» – quella fascia di 50-60enni che legge ancora i quotidiani di carta e che ha il suo verbo (e le fondamenta del suo pensiero politico) nella corazzata repubblicana. Un rapporto lungo più di una dozzina d’anni – in cui Saviano ha imperversato sui costumi sociali e civili degli italiani, rappresentando proprio politicamente quella «fascia generazionale», cui pure lui non appartiene, degli elettori del Partito democratico, quei «lettori forti», che leggono almeno un libro al mese e si pensano alfabetizzati. Con Gomorra tv ha tracimato, e i suoi personaggi sono diventati frasi ripetute a ogni pie’ sospinto, modi di dire, parole proverbiali, atteggiamenti, lingua della chiacchiera pubblica. mo’ ci pigliamm’ tutt’ chill’ che è ‘o nuost’ – chi non lo ha detto o scritto almeno una volta? il napoletano come lingua nazionale. Ci capiamo.
Una cosa che successe nella scia di Andrea Camilleri – stesso pubblico di riferimento, ma in una platea più larga verso l’anzianità (mentre Saviano verso i più giovani), con il suo «Montalbano sono». Un siciliano scritto e parlato come si faceva da ragazzini quando eravamo certi che conoscessimo lo spagnolo, bastava aggiungere una «s» a ogni parola italiana, e eccalla’ era fatta. Il siciliano come lingua nazionale. Ci capiamo. E tutti sono andati a vedere Vigata, viaggi in aereo, pacchetto turistico completo con settimana al mare, proprio come altri italiani andavano a vedere il Mulino Bianco – immaginari che si sono conficcati nei nostri pensieri di riferimento. (Viaggi a Secondigliano non se ne sono mai organizzati, per Saviano – magari era un filo pericoloso – e d’altronde nessuno va neppure a Kobane, benché calling).
Proprio la stessa cosa che succede ora con Zerocalcare e il suo romanesco – dove i sottotitoli sono una «invenzione di regia» sopraffina per una lingua che non esiste (mi scuseranno gli amici romani) ma deve pur esistere se ci sono i sottotitoli e dove basta mettere l’accento e fare qualche tronca – aho’ ‘ndo vai? – e eccallà, parli proprio come i romani. Il romanesco come lingua nazionale. Ci capiamo.
Saviano però ha deciso di mollare «la Repubblica», quando il gruppo Gedi è entrato prepotente – come altre firme d’altronde, una scelta politica, dalla schiena dritta, mica ci si può mescolare con gli Agnelli. Così, è approdato al «Corriere» – magari Cairo è tutta un’altra pasta e poi lascerà sicuramente grande libertà di espressione. Che con ogni evidenza alla nuova «la Repubblica» deve essere conculcata.
Non per Zerocalcare però – che è diventato «l’ultimo intellettuale» del gruppo Gedi: via Saviano, dentro Zerocalcare. C’è un elemento «generazionale» in questa liaison – quelli che avevano diciotto-vent’anni a Genova 2001 sono ora adulti, sono giornalisti, autori, sceneggiatori, ricercatori, conduttori, che lentamente «subentrano» a quelli che c’erano prima – e c’è un elemento «politico», quelli «de sinistra» che vanno, appunto, dal Centro sociale a «la Repubblica», a caccia di un nuovo pubblico su cui esercitare una sfera di influenza o farsi punto di raccolta. I Centri sociali sono diventati adulti – e sfornano cantanti, attori, registi, scrittori, soprattutto a Roma, perché Roma è il luogo dove per un verso è stato il fenomeno più esteso, quasi antropologico, e il luogo dove si sono prodotte e riprodotte centinaia di «cantine», per la musica, per il teatro, per l’ispirazione artistica.
Mi è capitato di leggere commenti alla serie di Zerocalcare – geniale, commovente, straordinario, bellissimo, umano – quasi rivendicandone una propria identificazione. Sono tutti dentro quella fascia di età che era per lo più a Genova 2001, che ha passato le serate della propria giovinezza dentro i Centri sociali, per andare a sentire la musica e il nuovo cantantissimo o il gruppo-che-spacca, farsi due canne, prendere una birretta, ascoltare compitamente Agamben, parlare del prossimo appuntamento per manifestare. E poi, un giorno, è diventata adulta. Un nuovo tipo umano. tanto caruccio. quanta nostalgia.
Anvedi, aho’. Se beccamo.
Immagine: Sissa Marquardt, La depressione delle sei, Bizarr, 1984
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Lanfranco Caminiti, siciliano, vive appartato, scrive articoli e saggi, legge tante storie e gli capita di buttarne giù qualcuna. Non ha sempre fatto questo: quand’era ragazzo stava per lo più per strada, come tanti negli anni Settanta. I suoi scritti [collezionati su www.lanfranco.org] navigano per Internet dove vengono ripubblicati e talvolta tradotti.
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