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Centri sociali che imprese?



Una piccola «chicca», datata fine 1994, utile alla ricostruzione dei passaggi del dibattito interno ai Centri sociali nel corso del decennio Novanta, dibattito che li hanno condotti a svolgere un ruolo cruciale nella costruzione del movimento di massa altermondista sfociato nelle giornate di Genova del luglio 2001, e proseguito poi negli anni successivi con le mobilitazioni contro la «guerra globale permanente». A riguardo pubblichiamo di seguito un intervento di Primo Moroni, «intellettuale scalzo» la cui riflessione intellettuale ha svolto un ruolo fondamentale in quel percorso. In questo testo l’insistenza di Moroni e sulla necessità di interrogare i Centri sociali su alcuni aspetti del loro funzionamento di fatto come «imprese sociali» capaci di produrre una loro fuoriuscita dalla condizione di autoghettizzazione, condizione che aveva caratterizzato la loro nascita e il loro consolidamento nel corso del decennio Ottanta.


Immagine tratta da: Venti di Strada. Immagini di una comunità in movimento, DeriveApprodi.


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Da qualche anno è in atto una mutazione molto forte dell’uso e della funzione

dei Centri sociali. Una mutazione importante, caleidoscopica, diversa per zone d’Italia, per territori economici e sociali, e di cui non è del tutto dibattuta e chiara la direzione nei processi di trasformazione.

Un po’ in tutto il paese è avvertibile una divaricazione tra coloro che gestiscono i Centri sociale e i fruitori. Mentre sono abbastanza noti, come capitale umano, come intelligenza collettiva e come proposta politica, i promotori e i collettivi di gestione dei Centri sociali, è invece più oscura la massa complessa e a volte molto numerosa dei frequentatori.

Diventare erogatori di servizi è un processo in atto nei Centri sociali autogestiti. La dizione «servizi» è piuttosto schematica e riferibile principalmente alla gestione della parte bar, per il resto la produzione musicale, culturale o di uso delle tecnologie è sicuramente interna alla parte più innovativa e sociale del panorama nazionale. Invece non ho dubbi per ciò che riguarda la produzione di socialità che è la vera «sostanza», un bene estremamente raro nell’epoca postfordista. Ed e particolarmente importante sottolineare questo aspetto perché mi sembra il più sottovalutato dai collettivi di gestione. A mio parere la «socialità» prodotta, il suo bisogno, la sua necessità sono in tutto e per tutto riferibili alla «spontaneità» della frantumata composizione di classe postfordista.

In relazione al rapporto con le istituzioni, i collettivi di gestione affrontano in due differenti modi la questione: laddove ci sono rapporti di forza favorevoli si fa una trattativa, altrimenti rimane solo il conflitto. In una posizione estrema si colloca poi l’ideologia «occupazionista» che ritiene che chi tratta con l’istituzione diventa pericoloso e tendenzialmente omologato al sistema. (...)

Io – soggetto di frontiera, un po’ schizofrenico, un po’ dentro un luogo di movimento e un

po’ dentro una professione di ricercatore istituzionale – penso che ci sia scarsa attenzione verso i conflitti delle metropoli, attenzione che non manca invece alle istituzioni, ai ricercatori della Comunità Economica Europea per esempio. La rivista francese «Esprit» ha fatto una ricerca e un convegno straordinari sulle periferie, le banlieus, e i suoi soggetti. La scuola inglese di Birmingham, gramsciana, si trova invece improvvisamente ad aver perso l’oggetto della ricerca, cioè l’identità del soggetto ribelle della metropoli che per molti anni è stato codificato come hippy, movimento ’77 o punk. La chiarezza su questo soggetto non c’è più, il ricercatore un po’ spaesato ha una crisi di angoscia e inventa una serie di sciocchezze per spiegare che forse il soggetto ribelle esiste ma ha una forma diversa da quella prevista dalla tassonomia. Qualcuno si inventa che i giovani, posto che siano una categoria ancora comprensibile, hanno bisogno di invisibilità, ma gli si può rispondere che nel caso italiano eccedono piuttosto per protagonismo (...).

Credo comunque che occorra fare chiarezza sul finto conflitto ideologico tra «occupazionisti» e non. Un finto conflitto che ha fatto perdere un sacco di tempo anche in passato. Sarebbe ora di sgombrare gli equivoci: i Centri sociali producono, sono imprese nei fatti, con i loro bilanci e la loro creatività. A volte producono a latere imprese sociali e culturali fortemente innovative, e comunque alternative a quelle del capitale. I Centri sociali hanno la caratteristica, la funzione di opporsi alla più generale tendenza del capitale di assorbire e sussumere i tessuti relazionali e la vita quotidiana dentro la sfera della produzione che anzi, per la sua parte più «innovativa», non potrebbe funzionare senza questa sussunzione. Dentro questo percorso si sovrappone la tendenza da parte dei Centri sociali a fare produzione, mercato «altro», ricchezza collettiva (non solo economica) e, a volte, anche produzione di reddito. Non è casuale il riferimento alla fine dell’Ottocento e primi del Novecento fatto da Aldo Bonomi, agli albori di un sistema produttivo, quello fordista, che prevedeva sia l’organizzazione scientifica del lavoro che l’organizzazione scientifica del tempo libero. L’immaginario di Henry Ford comportava che il proletariato fosse seguito dall’alba al

tramonto e dal tramonto all’alba, che gli fosse organizzato lo spazio per renderlo interamente produttivo. Proletario come produttore-consumatore, gestore della propria schiavitù in cambio di consumi magari sempre più estesi, nel modello keynesiano.

Tutto ciò è saltato: lo stato sociale, il welfare, la società solidale. Da questa vicenda, tra queste macerie, in Italia e in qualche altro paese dell’Occidente, si sono affermati i Centri sociali autogestiti. Riflettere su quanto detto è già un elemento rilevante. Una parte delle amministrazioni socialdemocratiche ha operato una riflessione in proposito, una riflessione prodotta dalla crisi delle forme di rappresentanza e dalla debolezza di questo schieramento. Ho la sensazione che gli strumenti di analisi che la generazione degli anni Settanta ha usato nel conflitto capitale-lavoro, per la liberazione dei soggetti, la ribellione, la rivoluzione, siano decisamente invecchiati a fronte della rapidità con cui il capitale si è modificato. In una fase aurorale del capitale come questa il riferimento alle società mutue operaie – organizzazioni dentro e contro il capitale dei primi del Novecento – ha un senso, in quanto iniziativa oppositiva non basata sul negativo. Passare dal negativo al propositivo, alla proposta, non soltanto negare lo stato di cose presenti, ma dentro lo stato di cose organizzarsi per proporre un’alternativa. Magari per avere il tempo di metabolizzare l’individuazione più precisa delle aree di conflitto, dei soggetti, della complessa e variegata struttura dei lavoratori, per non rischiare di lavorare sul vuoto.

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