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Che i morti seppelliscano i morti



Questo articolo comincia con una domanda, di metodo e di postura: vale ancora la pena parlare delle miserie del «movimento», accanirsi, argomentare, polemizzare contro chi non vuole ammettere la fine di un ciclo? Forse è stato questo il limite di kritik: ha seppellito ciò che era già morto. Magari era necessario farlo, e indubbiamente lo ha fatto con ironia, sarcasmo, intelligenza. A non essere più necessario, e neppure utile, è continuare e intestardirsi, diventare noiosi e perfino un po’ di cattivo gusto, come raccontare barzellette nei cimiteri. A partire da qui, si pone il problema di prospettiva: come attraversarlo, questo maledetto deserto del presente? La discussione è aperta.


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Che fanno i compagni in questa fase? (Dico compagni come specie e non come genere, o se volete metterla con Aristotele invertite i termini: l’importante è non menarla con asterischi, ə o tuttu, che su questo piano qui non interessa discutere.) Allora, che fanno? Vivono nelle loro bolle, socialmediali o centrosociali, in intercapedini dimenticate della realtà, angoli marginali e orgogliosi di esserlo. Basta spegnere il computer o non frequentare la bolla, e scompaiono. Non ci sono più. Strappando lungo i bordi, non resta nulla. Già, perché prima di porci la domanda con cui abbiamo iniziato, dovremmo chiederci se ci sono ancora, questi compagni. Se la loro esistenza non rischia di diventare un postulato, un atto di fede, un qualcosa da cercare con la pervicace ostinazione dell’entomologo o del collezionista.

Chiariamo. Ognuno è libero di sentirsi e definirsi un compagno, fa bene a farlo, ci mancherebbe. E poi in questa società, dite quello che volete, se c’è una cosa che non manca è proprio la libertà individuale. Ognuno è libero di dire e fare quello che vuole, purché tutto quello che dice e fa sia una merce. La merce-compagno non tira più, però a nessuno è impedito di coltivare la propria nicchia, ancor più se non rompe le scatole a nessuno. Ciò che è venuta meno è quella forma di aggregazione collettiva, quell’ambiente politico che faceva dei compagni qualcosa di più e di differente, radicalmente differente, dal semplice stile di consumo dell’identità. Per un certo periodo in Italia è esistita un’anomalia forte, che permetteva di dire: «sono un compagno di movimento», intendendo con quest’ultimo termine non una mobilitazione specifica o un cieco affidamento alla spontaneità, ma un processo di organizzazione autonomo. Quella cosa non c’è più, e non da oggi. Che i compagni residui se ne rendano conto o meno, non cambia nulla.

La vera domanda è: vale ancora la pena parlarne, accanirsi, argomentare, polemizzare contro chi non vuole ammettere la fine di un ciclo? Forse è stato questo il limite di kritik: ha seppellito ciò che era già morto. Magari era necessario farlo, e indubbiamente lo ha fatto con ironia, sarcasmo, intelligenza. A non essere più necessario, e neppure utile, è continuare e intestardirsi, diventare noiosi e perfino un po’ di cattivo gusto, come raccontare barzellette nei cimiteri. È venuto il momento di lasciare che i morti seppelliscano i morti. Se volete guardare la serie di Zerocalcare, fatelo come se si trattasse di un documento storico sulla soggettività media prodotta e aggregata dal centrosocialismo reale. Insomma, dopo aver scritto la parola fine, si volta pagina e si scrive una nuova storia. Chi ha capito bene, chi non ha capito forse non capirà mai. Amen. O se vogliamo proseguire con le metafore bibliche: inutile continuare a parlare della servitù in Egitto, le truppe del faraone non ci inseguono perché siamo loro indifferenti. Iniziamo allora a concentrarci su come attraversarlo, questo maledetto deserto del presente.

Proviamo perciò a porci delle questioni in avanti, facendo tesoro delle ricchezze e ancor più dei limiti, dei giri a vuoto, dei fallimenti di ciò che abbiamo lasciato laggiù, in Egitto. Cominciamo a nominarne un paio di questi problemi, piuttosto decisivi. Il primo: perché i compagni, nel ciclo che sta definitivamente alle nostre spalle, arrivati a una «certa età» mollano tutto, si ritirano a vita privata, o continuano a bazzicare allo stesso modo in cui un ex calciatore professionista va ogni tanto a farsi la partitella tra scapoli e ammogliati, «ci becchiamo alla manifestazione, all’aperitivo, al concerto»? Quella «certa età», in una buona parte di casi, dagli anni Novanta si colloca empiricamente tra scuola o università e lavoro. Utilizziamo qui un’accezione ristretta, tradizionale, circoscritta e banalizzata di lavoro, inteso come occupazione più o meno stabile; non parliamo dei processi di lavorizzazione e messa al lavoro della vita, che invece sono importanti su altri livelli di analisi e ragionamento. Per dirla terra terra, è il momento in cui bisogna iniziare a sfangarsela senza troppe reti di protezione.

C’è un problema di identità, si potrebbe dire. La società capitalistica, lo sappiamo, è innanzitutto un’infernale macchina di produzione della soggettività, e il baricentro della soggettività prodotta dal capitale ruota attorno all’identità del lavoro. La scelta dell’essere compagni, di agire dentro e contro il sistema dominante, è una messa in discussione di questo processo produttivo. L’identità del compagno opera una potenziale scissione rispetto all’identità del lavoro. Il problema, dicevamo, sorge laddove la seconda irrompe nella forma di vita della prima, la assorbe, la inghiotte, la sussume. A partire dagli anni Novanta, nella soggettività che per comodità chiamiamo centrosocialista, si sono create principalmente due tendenze. Da un lato, c’è chi ha pensato di poter ricomporre tale scissione nel segno delle «isole liberate»: è la fase delle utopie delle «autoproduzioni» e dell’«autoreddito» (tutto è diventato «auto» in quegli anni, come se l’individuo fosse realmente libero e sovrano dal comando del capitale), che si sono risolte nella microeconomia della miseria e nei litigi su chi avesse il diritto di averne accesso. Dall’altro lato, c’è chi ha esaltato la scissione per poter preservare l’identità di purezza ideologica dei compagni, che nascondeva un sostanziale opportunismo. Ha cioè prodotto lavoratori che accettano qualsiasi forma di sfruttamento, perché appena terminano l’orario occupazionale cambiano casacca e diventano compagni. Vale a dire, conformisti sul luogo di lavoro, conformisti nel centro sociale. Anche qui infatti si timbrava il cartellino, a dimostrazione che il processo di soggettivazione militante non è riuscito a trasformare radicalmente la forma di vita.

Ora, tra militanza e lavoro la scissione non può ricomporsi. Per fortuna. E tuttavia, sarebbe un errore ricadere in uno dei due poli sopra accennati. Da un lato, l’idea che possa esistere uno spazio al di fuori della forma merce e dei rapporti di sfruttamento e accumulazione capitalistici. Dall’altro, ricavare da tale impossibilità la conclusione che tutte le merci e tutti i lavori sono uguali, rimanendo disarmati della capacità materiale di essere contro e non solo dentro. Invece, per usare termini marxiani, esistono differenze non solo nel valore di scambio ma anche nel valore d’uso – per il capitale e per il conflitto. Esistono ad esempio delle differenze tra i lavori per le possibilità di creare lotte, ed esistono delle differenze per le possibilità di arricchimento o al contrario impoverimento delle nostre capacità. E si può, senza alcuna illusione nelle distopiche utopie del «fuori mercato», tentare le difficoltose strade dell’impresa politica, cioè di reti di cooperazione che affrontino il problema del reddito e del controuso del lavoro nella consapevolezza di essere dentro i rapporti di produzione, mercificazione e sfruttamento capitalistici, e per provare lì dentro a costruire gli strumenti del contro. Si pone dunque per i compagni il problema non di rinunciare alla rottura, ma al contrario di organizzarla: di costruire cioè il rapporto tra lavoro e politica, di vivere il conflitto, di trasformarlo in motore di soggettivazione.

Il secondo problema: quali sono gli ambienti della socialità antagonista dopo la fine dei centri sociali? C’è una lunga storia alle nostre spalle. Dalle forme cooperative e di mutuo soccorso degli albori del movimento operaio, passando per le sezioni dei partiti, fino ai circoli del proletariato giovanile e poi, appunto, i centri sociali. Con continuità e discontinuità, salti in avanti e rotture, passaggi importanti e giri a vuoto. È una storia da ripercorrere con lo studio, con la ricerca e con il pensiero, per porre oggi il problema in modo corretto e ipotizzare ciò che può essere. La nostalgia serve a poco, l’accanimento terapeutico ci è nemico, eticamente e politicamente. È giusto oggi difendere i restanti centri sociali, tutti, fino all’ultimo. Ma nella consapevolezza che non è da lì che passa la prefigurazione dell’a-venire.

Un compagno, qualche tempo fa, per illustrare la fase che attraversiamo ha rievocato la famosa incisione di Dürer. La morte cerca di spaventare il cavaliere, il diavolo di tentarlo. Il faraone gli mostra il teschio e la clessidra con il tempo che gli è rimasto da vivere, il demoniaco passato lo richiama alla tranquilla gestione del proprio esistente: «torna qui, nei bordi delle nostre comunità, dove nessuno ci teme e dunque nessuno ci disturba». Il cavaliere avanza, a testa alta, per sfidare l’ignoto. Dobbiamo, ça va sans dire, togliere all’immagine qualsiasi traccia di eroismo, perché l’eroismo è impregnato di individualismo. E l’individuo è sempre il problema, mai la soluzione. Dobbiamo, al contempo, mantenere di quell’immagine lo spirito tragico, di chi sa che solo là, nell’oscurità ambigua e brutale del bosco, bisogna ricercare la via della salvezza. Di chi sa che solo passando di là, lottando incessantemente con noi stessi, strappandoci dalla paura della morte e ancor più dal desiderio di una innocua marginalità comunitaria, possiamo conquistare collettivamente una nietzscheana volontà di potenza.



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