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Tracce di Napalm nel board del MoMa

Jean Toche. Ritratto di un artista rivoluzionario


Performance di Toche, Hendricks, Johnson e Silviana Goldsmith, nella lobby del MoMa di New York, 1969


Il vento caldo di quest’estate* s’è portato via Jean Toche, l’ultimo dei rivoluzionari fondatore del Guerrilla Art action group (Gaag) nel 1969. Tra gli artisti più radicali e meno valutati della seconda metà del Novecento, Toche viveva barricato da un ventennio nel suo eremo liberty a Staten Island. Nel quartiere dal quale i wasp (white anglo-saxon protestant) lo volevano cacciare sin dagli anni Settanta perché s’impicciava dei loschi affari degli immobiliaristi razzisti per tenere lontani i neri dalle loro casette ben allineate, pulite, con giardinetto, attrezzatura per il BBQ e bandiera americana alla porta.

Alla fine degli anni Cinquanta, il belga Toche (1932-2018) vive e Parigi con Virginia Poe, ballerina del De Basil Baletts Russes a Le Folies Bergères. Discute d’arte e di politica col suo amico Marcel Broodthaers. La domanda che gira nelle loro bocche è sempre la stessa: che ruolo possono più avere l’arte e l’artista in un mondo stritolato dalle istanze di potere? e come opporvisi? Le risposte fluiscono e si trasformano col sapore del vino e della zuppa di cipolle.

È Michael Sonnabend, secondo marito di Ileana Sonnabend, a consigliargli di trasferirsi negli States: «Quello è il paese per te, stanno succedendo un sacco di cose».

Una volta a New York, Virginia e Jean entrano nel circuito degli artisti della Distruction Art, che non è un movimento ma un metodo di pratiche che enfatizza le questioni della sopravvivenza dopo la Seconda guerra mondiale, a fronte della Guerra fredda e dell’era nucleare. «I Accuse» s’intitola il primo happening newyorkese di Toche alla Judson Memorial Church, spazio di environments e performance Fluxus gestito da Jon Hendricks. L’artista accusa gli astanti e se stesso di prostituirsi a una cultura triviale.

Il Gaag, che fonderà da lì a poco con Poppy Johnson e lo stesso Hendricks, è un gruppo di disturbo all’interno del mondo dell’arte. I tre vogliono sbugiardare il sistema economico che regge i musei americani finanziati da potenti lobby, ridicolizzando o boicottando inaugurazioni e ricevimenti.


«Nelle istituzioni d’arte – ha dichiarato Toche nel 1972 – trovi gli stessi colpevoli, gli stessi assassini che mandano le bombe in Vietnam. Sono i produttori di armi che opprimono la gente in questo paese. Opprimono gli indiani, i neri, i portoricani, i Chicanos messicani. I musei trattano con quelle persone, in combutta tra fiduciari e direttori».

In un pomeriggio d’inverno del 1969, Hendricks, Toche, Johnson e Silviana Goldsmith, entrano nella lobby del MoMa di New York. Sotto i cappotti nascondono sacchetti pieni di sangue di bue. Toche legge una durissima dichiarazione contro i Rockefeller, membri del board del museo: «Fanculo Rockefeller! Non vi vogliamo e non vogliamo i vostri sporchi soldi! Se questo è l’unico modo per avere l’arte, chi se ne fotte dell’arte!». Nel documento, frutto di indagini reali, si denuncia il coinvolgimento dei Rockefeller nella produzione di gas chimici e di napalm per la guerra del Vietnam. E affermando la pericolosità della loro presenza al MoMa, che determina orientamenti e politiche culturali, ne vengono chieste le immediate dimissioni perché: «Se l’arte è una ricerca umanitaria, la sua antitesi è la distruzione della vita umana». I Gaag simulano una rissa con urla, sangue, vestiti strappati e se la danno a gambe.

Gli happening continuano fino a quando, nel 1974, Toche viene arrestato «Per aver presumibilmente spedito a vari musei, a giornali e singoli individui, sessanta volantini che criticano pesantemente la polizia dei musei americani e specificatamente del MoMa». Oltre trecento artisti sottoscrivono una petizione per la sua liberazione.

Toche viene sottoposto a perizie psichiatriche per diagnosticarne la pazzia, ma il dottor Teich lo riconosce perfettamente in grado di intendere e di volere. Il pretesto con il quale lo si vorrebbe dichiarare malato mentale è legato un altro happening storico. Una sera, poco tempo prima, Jean si presenta accompagnato da un artista al Metropolitan dove è in corso un banchetto con i facoltosi soci del museo. Nella distrazione generale, il membro del Gaag libera da una scatoletta alcuni scarafaggi su una tavola imbandita, generando panico e urla. La serata si chiude con un pestaggio e l’arresto di Toche. Da quel momento gli viene interdetto a vita l’ingresso a tutti i musei americani. Pian piano, l’artista diventerà gradualmente e volontariamente invisibile, anche se i suoi happening privati non cesseranno.

Nel 1970, Virginia e Jean acquistano una villa primi-novecento a Staten Island. Nel 1973, l’artista entra a far parte del Naacp, la National association of advancement of coloured people. Come leader del movimento per i diritti civili riesce a far processare, dal governo federale, due poliziotti e un agente immobiliare che avevano bruciato la casa di una famiglia nera nel quartiere di Concord a Staten Island. Staten Island era ed è il cuore nero degli «ultra-white» e, nel 1979, dopo aver subito continue minacce di morte, Jean è costretto a erigere una grande recinzione, assoldare una guardia del corpo e barricarsi in casa. Un giorno, davanti al cancello si presentano quaranta automobili e un centinaio di manifestanti anti-Toche con striscioni e cartelli che gli intimano di sparire immediatamente: «Toche go home!». Le persecuzioni arrivano da più fronti. Sorvegliato speciale del governo americano, oltre che dei «buoni» vicini, Jean non lascia gli Stati Uniti per paura di non poter rientrare. Nel 2000 Virginia muore.


Con l’11 settembre, Toche torna sulle barricate e comincia un martellante lavoro di mail art. Scrive una cinquantina di cartoline al giorno agli amici artisti, scrittori, teorici sparsi nel mondo. Per anni spedirà immagini di sé in tutte le pose con commenti sulla politica imperialista americana, intersecando così la propria vita, minuscola e domestica, ai grandi eventi internazionali. Il titolo di ogni opera è la data nella quale viene editata.

Barba bianca e sorriso mite, si fotografa imbavagliato, solitario, in simbiosi col gatto, sulla tazza del cesso, smaterializzato, in giardino, col viso allungato rosso o metallizzato oppure mentre, parafrasando Duchamp, scende le scale nudo. Le cartoline portano pesanti e lucide osservazioni sull’incongruenza della guerra in Iraq, in Afghanistan, sulla pelosa retorica catto-busciana, sulle violenze e le torture di Abu Ghraib, su Guantanamo, l’omofobia, i talebani, Dick Cheney, Tony Blear, Donald Rumsfeld. Ogni notizia di rilievo, riportata dagli organi di stampa americani, veniva letta, filtrata, interpretata e ri-raccontata da Toche, il quale, in poche righe, sintetizzava il senso dell’accaduto. Tutto ciò si è svolto nella totale gratuità, poiché l’artista non ha mai esposto in gallerie private, non ha mai venduto i propri pezzi ma li ha regalati. «Jean Toche – ha scritto Achille Bonito Oliva – con la sua opera traccia un affresco a episodi che attraversa la storia recente e descrive l’ambivalenza tra tolleranza e intolleranza, il rifiuto di ogni coesistenza riguardante il sopruso della religione, della politica e della forza militare». Questo affresco sociale, retto dall’ incrollabile volontà di verità, ha reso l’artista sempre più solo e coriaceo. Le sue cartoline, nel corso degli anni, si sono ingigantite occupando intere pareti. I cinquanta destinatari originari si sono ridotti a uno, forse due, nel mondo. Le sue opere anti-spettacolari sono l’evoluzione dello spirito Fluxus e Situazionista. Continue e ossessive costituiscono una sorta di rassegna stampa a colori, un racconto illustrato a puntate con un unico protagonista: il potere; e un unico personaggio: l’artista. Si tratta di un diario minimo, una biografia pubblica e privata fatta con l’autoscatto e Photoshop all’età di ottant’anni, in anticipo di un bel po’ sulla moda del selfie. Toche, solo contro tutti, è stata una fertile macchina celibe. Attento all’evoluzione del linguaggio, ha mantenuto uno spirito di non-rassegnazione. Il suo corpo è l’opera, un corpo non giovane, non bello, con la pancia pelosa e, a volte, i genitali in primissimo piano. La materia organica è contrapposta all’astrazione dei pensieri e delle strategie di potere. In una lettera scritta nel 1972 al presidente Usa, Richard Nixon, sulla macelleria cannibale della guerra in Vietnam, lui e Hendricks concludevano dicendo: Eat what you kill, mangia ciò che uccidi. Nel testo si parlava dell’aumento del prezzo della carne al dettaglio. «Durante la sua amministrazione la tecnologia della macellazione e dell’arrostimento s’è fatta più sofisticata/ durante la sua amministrazione vorrebbe credere che nessun umano è stato ammazzato in Vietnam?/ È una sfortuna che la carne marcisca nei campi./ La tecnologia deve vincere per realizzare il Sogno Americano./ Mangia ciò che uccidi”».

Nell’era Obama, i wasp del quartiere di Toche sono diventati più feroci, xenofobi e insidiosi. Lo controllavano e lo minacciavano telefonicamente facendogli sentire spari di pistola. «Lurido musulmano» – dicevano – «Vattene», ma lui rispondeva «Mai!».

Nel 2015, le opere sono diventate più dure, dirette, determinate. Poi ha tolto la linea telefonica rendendosi irraggiungibile al mondo. Qualcuno, al posto delle opere, ha ricevuto ancora qualche frase scritta su fogli d’appunti: commenti ormai privi di immagine. Poi il silenzio e l’oblio. Come un folletto dalla lunga barba bianca in un mondo parallelo, Toche si è rintanato nel suo giardino diventato ormai una selva. Donald Trump, Putin, Erdogan, non esistevano più per lui e forse non sono mai esistiti. Il vecchio guerrigliero aveva rimosso ogni traccia di sopruso, abuso e violenza legalizzata, cacciando tutto in un limbo. I nomi degli attuali padroni del mondo provocavano in lui solo un vago ricordo ormai privo di peso all’interno della sua vita.


*2018

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