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Toxic Town: lo spettro del mostro siderurgico sulla città


Simryn Gill, A small town at the turn of the century 1999-2000
Simryn-Gill, A small town at the turn of the century 1999-2000

Incentrata sulla battaglia legale condotta da un gruppo di donne di Corby, in Inghilterra, che hanno dato alla luce bambini con malformazioni a causa delle criminali modalità di smaltimento di rifiuti tossici delle locali acciaierie dismesse, la serie televisiva britannica Toxic Town (2025) viene analizzata da Paolo Lago e Gioacchino Toni nei diversi spunti di riflessione che propone a proposito dei grandi impianti siderurgici dismessi, dell’impatto sulla salute e sull’immaginario delle comunità che questi, a distanza di tempo, continuano ad avere, delle contraddizioni esplose in seno all’universo politico di sinistra e del ruolo di primo piano assunto delle donne nelle mobilitazioni riguardanti la salute degli abitanti di queste aree. Questioni che travalicano il caso specifico affrontato dalla serie televisiva e che attraversano i decenni a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo millennio.

 

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La serie televisiva britannica in quattro puntate Toxic Town (2025), scritta da Jack Thorne ed Amy Trigg e diretta da Minkie Spiro, disponibile su piattaforma Netflix, è incentrata sulla tenace battaglia legale contro il Consiglio comunale di Corby, nella contea di Northamptonshire, intrapresa da un gruppo di cittadini, guidati da donne, al principio del nuovo millennio, in seguito ad una serie di nascite di bambini con malformazioni in percentuali superiori di quasi tre volte rispetto a quelle riscontrate nelle zone limitrofe.

Tra il 1984 ed il 1999, nell’ambito di un progetto di riqualificazione dell’area, il Consiglio comunale di Corby a guida laburista, sfruttando la disponibilità di fondi governativi, con Blair al 10 di Downing Street, ha provveduto alla demolizione delle acciaierie, dunque alla rimozione ed al trasferimento delle scorie sino ad allora accumulate nei bacini di decantazione attorno alla cittadina senza vigilare sull’adozione delle necessarie misure di sicurezza da parte delle ditte impegnate nei lavori. Colonne interminabili di autocarri carichi di pericolosi residui industriali, privi persino di copertura per velocizzare le operazioni, hanno ripetutamente attraversato il centro abitato versando fanghi sulle strade e rilasciando nell’aria enormi quantità di polveri velenose con molte teste inclini a girarsi dall’altra parte.

Tra il 1989 ed il 1998, nella cittadina di Corby, si è riscontrata la nascita di diversi bambini con malformazioni agli arti o con gravi problemi agli organi vitali. Il ritardo con cui sono stati messi in relazione tutti questi casi è, almeno in parte, attribuibile alla reticenza dei genitori ad affrontare pubblicamente le malformazioni dei figli, non di rado attribuite al destino avverso o a qualche condotta inappropriata delle donne durante la gravidanza. Circa la miopia del sistema sanitario locale e degli organi pubblici addetti al controllo, invece, non è facile trovare scusanti.

Si deve ad un’inchiesta giornalistica pubblicata nel 1999 dal «Sunday Times» la prima messa in relazione delle problematiche di salute riscontrate in tanti bambini del posto con la presenza dei rifiuti nocivi degli impianti industriali dismessi nell’area. L’articolo del quotidiano ha indirizzato i sospetti verso un possibile inquinamento della falda idrica, con conseguenti ricadute sull’acqua nelle case e sugli alimenti assunti dalle donne nel corso della gravidanza. Soltanto in un secondo tempo si è capito che le cause andavano cercate nello smaltimento dei rifiuti svolto all’insegna del risparmio e del profitto delle aziende deputate a svolgerlo con il concorso degli organi pubblici preposti al controllo disposti a chiudere un occhio, se non entrambi, sin dall’assegnazione degli appalti, interessati esclusivamente ad ottenere i fondi statali per il rilancio della cittadina senza farsi troppi scrupoli.

La pubblicazione dell’inchiesta giornalistica ha indotto un gruppo di cittadini con figli nati con malformazioni a ricorrere ad un avvocato ed affrontare in tribunale il Consiglio comunale. A fornire ulteriore materiale utile per l’avvio di un’inchiesta volta ad accertare i fatti è stata la diffusione di documenti da cui è emersa la spregiudicatezza e l’approssimazione con cui sono state condotte le operazioni di bonifica. Nel 2009, al termine di una lunga battaglia giudiziaria, i cittadini di Corby che si sono mobilitati, guidati dalla tenacia di un gruppetto di madri, hanno vinto la causa: le negligenze del Consiglio comunale, in termini di danni ambientali e di violazione della sicurezza pubblica, sono state finalmente riconosciute dal tribunale con una sentenza che ha imposto un risarcimento ai ricorrenti di 14,6 milioni di sterline, pur evitando di procedere con mano pesante nei confronti dei politici coinvolti.

Per dare conto di questa vicenda, la serie Toxic Town, capace di rendere credibile l’ambientazione operaia grazie sia ad adeguate ambientazioni che adottando un registro diretto e poco sofisticato nei dialoghi, ha incentrato il racconto attorno ad un gruppo di donne: Susan McIntyre (Jodie Whittaker), Maggie Mahon (Claudia Jessie) e Pattie Walker (Karla Crome), madri di bambini nati con deformità agli arti, e Tracy Taylor (Aimee Lou Wood), che perde la figlioletta pochi giorni dopo il parto a causa di gravi problematiche agli organi.

Il ruolo di protagonista è stato assegnato a Jodie Whittaker, attrice nota per diverse sue interpretazioni in opere seriali come Trust me (2017), Doctor Who (2017), Broadchurch (2013-2017), oltre che nella puntata The Entire History of You (2011) di Black Mirror. Aimee Lou Wood si è fatta invece conoscere soprattutto per il suo ruolo di coprotagonista nel film Living (2022) di Oliver Hermanus, mentre Claudia Jessie e Karla Crome si sono messe in luce in diverse serie televisive, tra cui Vanity Fair (2018) e Bridgerton (dal 2020), nel primo caso, e Murder (2012), nel secondo.

Attorno a queste quattro figure centrali femminili gravitano i personaggi maschili: l’avvocato Des Collins, interpretato da Rory Kinnear, attore teatrale con all’attivo numerose partecipazioni a film e serie televisive; il funzionario Roy Thomas, personaggio di fantasia impersonato da Brendan Coyle, conosciuto soprattutto per la sua interpretazione nella serie Downtown Abbey (2010-2015); il consigliere comunale Sam Hagen, che contribuisce a far emergere le nefandezze compiute dall’amministrazione, interpretato da Robert Carlyle che ha raggiunto la notorietà internazionale soprattutto grazie a Ken Loach e Danny Boyle; il marito di Maggie, Derek Mahon, impersonato da Joseph Dempsie, presente nella serie televisiva britannica Skins (2007) ed in Game of Thrones (2011-2019); il compagno della protagonista, Peter, interpretato da Michael Socha, comparso nel film This Is England (2006) e nella serie che ne è derivata, oltre che in altre produzioni televisive come Being Human (2011-2013); il giovane Ted Jenkins, figlio di un operaio delle acciaierie, addetto al controllo delle operazioni di smaltimento che diffonde la documentazione riservata da cui emergono le negligenze degli organi politici locali, impersonato dall’attore Stephen McMillan; il marito di Tracy, Mark Taylor, interpretato da Matthew Durkan che ha recitato nelle serie britanniche Daddy Issues (2024) e Wedding Season (2022).

Toxic Town si apre con una serie di immagini documentarie d’epoca relative alle acciaierie di Corby mostrate mentre sono in funzione, nel momento della loro chiusura, con le conseguenti manifestazioni operaie, dunque nelle fasi di demolizione, mentre alcune didascalie ricordano come la presenza dell’industria siderurgica avesse attratto nella cittadina migliaia di scozzesi in cerca di occupazione.

A sancire il passaggio dalle testimonianze documentarie alla fiction provvede una frase pronunciata da un funzionario intervistato nel 1979, al momento della cessazione dell’attività delle acciaierie, in cui afferma che, in qualche modo, «Corby will survive». Alla frase fa immediatamente eco la celebre canzone I Will Survive interpretata da Gloria Gaynor su cui canta a squarciagola al karaoke la protagonista Susan, affiancata dall’intero pub. L’avvio della fiction è ambientato nel 1995 ed il clima scanzonato del locale disseminato di pinte di birra levate al cielo e di musica ad alto volume suggerisce la caparbietà con cui gli abitanti di Corby provano a sopravvivere al dissesto economico e sociale piombato sulla cittadina oltre due decenni prima, con la chiusura dei vecchi impianti industriali.

Introdotta la protagonista che, una volta lasciato il pub, si stringe in un rapporto amoroso con il compagno Peter non appena giunti a casa in un clima di euforia dettato dalle pinte scolate dai due nel locale, è nel presentare Tracey che viene data una prima avvisaglia di come le cose siano destinate ad assumere tonalità decisamente meno gioiose. La ragazza, uscita dal lavoro quando ormai è buio, è costretta a spruzzare acqua sul parabrezza dell’automobile completamente ricoperta da polvere rossa e le modalità con cui si prodiga nella pulizia del vetro lascia immaginare che si tratti di un gesto di routine. La presenza di tutta quella polvere rossa non lascia presagire nulla di buono.

Una sequenza ambientata nelle sale comunali mette al corrente, attraverso le parole del vice capo del Consiglio comunale Roy Thomas, del progetto di rinascita della cittadina, presentato da questo come una nuova pianificazione di Corby sulla falsariga di quella avvenuta nel 1950, quando furono poste le basi per una città destinata a gravitare attorno all’industria siderurgica. «Quarantacinque anni dopo, insieme al gruppo esterno, proviamo a fare qualcosa di nuovo… New Labour Party, New Corby». Il nuovo piano prevede una vocazione turistica dell’area con l’edificazione di negozi e parchi industriali sugli spazi che verranno recuperati dalla bonifica delle acciaierie. «Corby è una labour town e noi continueremo a costruire una città per i lavoratori», afferma Roy con un tono in cui l’orgoglio scema nella demagogia politica.

A fare da contraltare alle immagini di festa iniziali, ai gioiosi amplessi amorosi tra Susan e Peter e tra Tracey e Mark, che condurranno le due alla gravidanza, provvedono alcune inquadrature dall’alto – quasi a voler invitare lo spettatore ad allargare il campo visivo – che mostrano un paesaggio infernale ricoperto di un rosso malato in cui camion, ruspe ed escavatori si prodigano nel raccogliere celermente rifiuti industriali per far spazio al nuovo che avanza.

La macchina da presa segue l’incessante movimento della polvere rossa che, come un sinuoso e terribile fantasma, si sposta celermente fin negli spazi più intimi delle case. Se dapprima la vediamo addensata in enormi pozzanghere che dall’alto appaiono come le inestricabili cellule di un virus letale, successivamente essa viene condotta in città dai camion. Le inquadrature mostrano l’inarrestabile incedere di un contagio, rappresentato dal colore rosso che, dalle pozzanghere del cantiere, si espande ogni dove. Ecco che il rosso, sotto forma di polvere, è presente tutto d’intorno alla folle corsa dei camion che trasportano le scorie tossiche; poi si dirama negli abiti degli operai e degli autisti dei mezzi pesanti; poi, ancora, è presente sui tetti e sui parabrezza delle automobili; successivamente entra nelle case trovandosi addensata sugli abiti degli operai.

Le immagini mostrano l’infiltrazione delle scorie negli spazi più privati, ormai irrimediabilmente contaminati. Non siamo di fronte a un film di fantascienza che racconta le vicende di un contagio letale o della riproduzione incontrollata di un virus; siamo invece di fronte a immagini filmiche direttamente ispirate alla realtà e quest’ultima appare assediata da forze incontrollabili e distruttive, come se fosse in preda all’attacco di entità mostruose. Ciò che è più terribile è già dentro la realtà, non proviene dallo spazio o da universi sconosciuti: è il cinismo del potere che riesce a creare mostri più inquietanti di quelli dell’orrore e della fantascienza. È la burocrazia del capitale, squallidamente rappresa nei sui interni eleganti, a produrre inenarrabili mostruosità.

Un panorama fangoso che sembra avvolgere Corby quasi a trattenerla nella morsa di un passato che, per quanto si intende rimuovere, è assai lungi dallo scomparire senza colpo ferire. Qua si muovono automezzi che assumono le sembianze di mostri meccanici infernali, retaggio di un passato che davvero non se ne vuole andare e che, anche quando trasportato via a gran velocità dagli autocarri, lascia dietro di sé spettrali nuvole di polvere rossa che ricoprono tutto e, come già notato, si insinuano negli anfratti più nascosti, sin anche nei corpi degli abitanti. Emblematiche in tal senso sono le sequenze in cui il camionista Derek si spoglia degli abiti intrisi di polvere sulla porta di casa, quasi a voler lasciare fuori dalla vita domestica il fantasma delle acciaierie che si porta appresso, con la moglie Maggie, presto anch’essa incinta, che, con un battipanni, cerca di ripulire alla meglio gli indumenti del marito dalla polvere rossa.

La città è letteralmente avvolta da aree tossiche letali: ce lo mostra una panoramica aerea in cui vediamo il centro abitato, con le sue case ordinate e le sue strade, completamente inglobato dalla macchia rossastra. Dietro la città torreggiano le inquietanti architetture della fabbrica dismessa e tutto d’intorno si dispiegano i siti dove le scorie tossiche vengono portate dai camion e interrate.

La fabbrica incombe come un oscuro presagio, quasi come la misteriosa e inquietante centrale nucleare che circonda la cittadina di Winden nella serie televisiva fantascientifica Dark (2017), creata da Baran Bo Odar e Jantje Friese, che narra di avvenimenti soprannaturali e fantastici. Ma l’orrore che ci mostra Toxic Town proviene, come già notato, dalla realtà, senza produrre effetti o eventi di natura soprannaturale. L’orrore proviene da più che reali scorie tossiche che penetrano negli organismi delle persone, come in numerose situazioni della nostra realtà (occorre non dimenticare infatti che gli eventi raccontati sono tratti da fatti reali). La realtà è più terribile della fantascienza e del soprannaturale perché le scorie tossiche (sotto forma di rifiuti, di scarichi industriali, di emissioni di gas di scarico di auto, navi e ciminiere, ecc.) minacciano di aggredirci in qualsiasi momento, pronte a farlo dietro ogni angolo nella realtà industriale o postindustriale dei nostri giorni.

Anche dopo le dismissioni degli storici impianti industriali, Corby resta pur sempre la cittadina delle vecchie acciaierie; queste si sono impresse nei ricordi come sul suolo e sui corpi, sono presenti nell’aria che ancora si respira nella zona. La loro presenza è stata talmente pervasiva da trasformarle in una sorta di mito a cui, forse, anche a distanza di decenni, da quelle parti si fatica a fare a meno, in mancanza di qualcosa di nuovo altrettanto potente e pervasivo. Diversi personaggi del film portano impressa la vecchia Corby siderurgica perché ne hanno avuta esperienza diretta o perché discendenti di quanti vi ha speso la vita a cui guardano come a una generazione di eroici genitori d’acciaio come il materiale che questi hanno lavorato nei vecchi impianti.

A testimoniare, però, come i gloriosi tempi del lavoro in acciaieria non fossero poi realmente tali, e come, alla lunga, il metallo abbia avuto l’ultima parola nella lotta con gli eroi che hanno preteso domarlo, provvede una sequenza in cui viene mostrato il rientro a casa del giovane Ted, coscienzioso addetto ai controlli delle operazioni di smaltimento, in cui compare il padre, vecchio lavoratore degli impianti siderurgici, ridotto ad uno straccio d’uomo, costretto a ricorrere alla bombola di ossigeno.

Il confronto diretto tra il mito e la cruda realtà si palesa in una successiva occasione, all’interno di un pub, ove Ted non riesce a trattenersi dal ricordare lo stato di salute in cui versa il padre a causa del lavoro in acciaieria quando si sente dire da un addetto al risanamento dell’area – con cui ha avuto problemi a causa dell’indifferenza di quest’ultimo per le norme di sicurezza – che rimpiange «i golden days di Corby, quando la fusione bruciava gli occhi».

In una sequenza ambientata nei vetusti gabinetti di un locale in cui si tengono le prove del coro cittadino, si assiste ad un serrato confronto tra il consigliere comunale Sam Hagen, che non riesce a mandar giù la mancanza di scrupoli che caratterizza il nuovo corso del suo Labour, ed il suo compagno di partito, il vicecapo del Consiglio comunale Roy Thomas che tenta di motivare le scelte politiche che sta portando avanti. Un tempo, afferma quest’ultimo, tutto in città apparteneva alle acciaierie, tanto che queste sponsorizzavano persino il coro che si continua a tenere in piedi, ammette, forse per «aggrapparsi alle glorie del passato». Dunque, continua in un misto di amarezza e demagogia da politico scafato: «Sono grato per il passato e orgoglioso del presente… Conservatori ed ‘europei’ prendono i soldi… dobbiamo dimostrare alla gente che sappiamo sistemare le cose… Pensi ne freghi qualcosa di noi all’Unione europea ed a Blair?! Accettiamo i soldi, poi siamo noi a metterli in gioco!».

Il confronto tra i due mostra chiaramente alcune contraddizioni che attraversano l’universo laburista del tempo: da un lato l’idea di potere finalmente accantonare certe remore e «fare come gli altri», forti però di una storica sapienza nell’incanalare le cose per il bene dei lavoratori e, dall’altro, la sostanziale ingenuità di chi riesce a vedere soltanto le nefandezze dell’ultimo sviluppo di una deriva di cui preferisce non indagare l’origine. La critica all’affaristica trasformazione della cittadina in una sorta di grande parco a tema, dalle più che improbabili potenzialità turistiche, pare incapace di contrapporvi un’alternativa credibile. La sequenza palesa come sia arduo uscire dall’improponibile alternativa tra apologia dell’etereo nuovo che si prospetta e che si auspica, qualunque esso sia ed a qualsiasi prezzo, e nostalgia per un vecchio mondo fatto di industrie infernali che, nel dare lavoro, si sono letteralmente cibate di vite umane devastando l’ambiente al punto tale da continuare a seminare dolore e morte sino ai nostri giorni.

Nelle quattro puntate di Toxic Town viene evidenziato il ruolo assolutamente prioritario assunto da un gruppo di madri nel portare avanti caparbiamente un difficile confronto con le autorità locali trovandosi anche a dover aggirare la ritrosia degli uomini, poco propensi a mettersi in gioco al loro fianco, in parte a causa dell’imbarazzo derivato dal rendere pubbliche le deformazioni dei bambini ed in parte per timore di incrinare l’orgoglio locale per la storia delle acciaierie, oltre che per la preoccupazione di perdere un’occasione di rilancio di un’area che, stando ai dati dell’Office for National Statistics, sul finire degli anni Dieci del nuovo millennio, vede un bambino su cinque ridotto a vivere in situazione di povertà e vanta uno dei tassi di disoccupazione più alti all’interno della contea di Northamptonshire.

La macchina da presa gioca abilmente sulla messa in scena di diverse tipologie di spazio: quelli privati e intimi delle abitazioni, quelli del pub (spazio pubblico dove si può portare avanti la lotta tramite riunioni e assemblee), quelli asettici dell’ospedale (pendant con gli interni delle case), dove le neomamme vengono ricoverate e ricevono le gelide notizie dal personale medico sullo stato di salute e sulle malformazioni dei loro neonati.

All’universo della working class è associato un sottofondo sonoro fatto di musica pop-rock, la quale assurge a emblema di ribellione e di lotta sociale. Un personaggio prettamente «musicale», in questo senso, è Susan: non è un caso che le prime sequenze del primo episodio siano dedicate proprio a lei, inquadrata mentre si esibisce in un karaoke al pub. E sarà proprio Susan la madre più tenacemente battagliera, colei che trascinerà nella lotta anche le altre madri di Corby.

La working class, costretta al silenzio, sfruttata ed emarginata dal potere, si ribella anche per mezzo della musica. D’altra parte, la musica rock, fin dai suoi esordi, è sempre stato un fenomeno di ribellione all’ordine costituito, soprattutto nella puritana Inghilterra. Non si può non ricordare, allora, la vicenda narrata in I love Radio Rock (The Boat That Rocked, 2009) di Richard Curtis, in cui, da una nave ormeggiata al largo del Mare del Nord, alcuni deejay ribelli, negli anni Sessanta, tramite una radio pirata, diffondono illegalmente la musica rock fra i giovani inglesi. Lo sfondo sonoro del potere è, invece, quello tradizionale e tradizionalista della musica classica: un’inquadratura mostra infatti un gruppo di politici, vestiti in impeccabili abiti scuri, impegnati in un coro a cappella.

Lo smembramento della comunità operaia di Corby, derivato dalla chiusura delle acciaierie, ha sicuramente influito sull’incapacità degli abitanti del luogo di organizzare e portare avanti una lotta sociale di massa circa la salute compromessa a causa dell’inquinamento industriale, dunque a delegare la battaglia, almeno per i casi più eclatanti, alle vie giudiziarie, con tutti i limiti del caso. I due universi, quello del potere e quello della working class, sono contrapposti fra di loro anche tramite l’uso dei colori: sgargianti e vivaci sono quelli che caratterizzano gli abiti delle donne e dei personaggi che frequentano il pub; grigi e scuri sono invece quelli dei personaggi legati al potere, con le loro tradizionali divise fatte di completi e cravatte.

La serie televisiva ha, tra gli altri, il merito di mostrare come l’orgoglio operaio di chi è cresciuto con il mito del duro lavoro nelle acciaierie, vissuto come partecipazione alla creazione della ricchezza locale, abbia finito per plasmare una mentalità che non riesce a prescindere dal collegare la propria realizzazione personale alla fatica ed allo sfruttamento produttivo, impedendo così anche solo di contemplare la possibilità di ammettere che intere generazioni operaie impiegate nelle acciaierie sono state letteralmente trattate come carne da macello immolata sull’altare del profitto. Da qui la ritrosia, soprattutto maschile, al mettere in discussione il «buon nome» di quelle acciaierie che, di fatto, hanno risucchiato la vita degli abitanti di Corby, come di altre località, e che, anche da spente, hanno continuato e continuano ad impattare sulla vita dei discendenti. Non è pertanto un caso che le donne si siano trovate praticamente sole a portare avanti la loro battaglia per vedere almeno riconosciuti i crimini di un sistema produttivo – di cui le bonifiche sono un prolungamento profittevole – che ha impattato con inaudita violenza sin anche sulla vita dei figli.

Il pronunciamento del tribunale sul caso di Corby rappresenta uno spartiacque importante nella storia dei contenziosi di tipo ambientale britannici in quanto per la prima volta è stata riconosciuta una correlazione tra le malformazioni di neonati e le scorie tossiche assimilate dalle madri. Sui titoli di coda dell’ultima puntata della serie, si ricorda come il caso di Corby sia tutt’altro che isolato: stando ai dati forniti dell’Agenzia governativa per l’ambiente – Impacts on health of emissions from landfill sites – tra Inghilterra e Galles si contano ben 20700 siti di discariche chiuse o abusive che “potrebbero ancora contenere rifiuti in decomposizione sepolti che continuano ad emettere gas e vapori nell’atmosfera, decenni dopo la chiusura”. In 1287 di questi siti è stata accertata la presenza di rifiuti tossici, 167 di essi si trovano in zone abitate ed almeno 4 nelle vicinanze di scuole. Anche tutto ciò può essere inserito nel lungo elenco di disastri ambientali ed umani provocati dal cinismo del profitto che, ancora una volta, si rivela come una vera e propria arma di distruzione di massa.

 


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Paolo Lago e Gioacchino Toni vantano numerose pubblicazioni di teoria e di critica della letteratura e dell’universo audiovisivo. Insieme hanno realizzato i volumi Alle radici di un nuovo immaginario. Alien, Blade Runner, La Cosa, Videodrome (Rogas 2023) e Spazi contesi. Cinema e banlieue. L’Odio, I Miserabili, Athena (Milieu 2024) e sono in procinto di pubblicare un libro sull’immaginario tecnologico cronenberghiano. Entrambi sono redattori della rivista «Carmilla online» e collaboratori di altre testate.

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