top of page

Sulla militanza gioiosa


Christopher Wood, Silenzio, ascolta



Il principio della militanza gioiosa richiede che il nostro modo di fare politica sia liberatorio, in grado cioè di cambiare la nostra vita in modo positivo, di farci crescere, di darci gioia, se così non è c'è qualcosa di sbagliato.

La politica triste spesso nasce dalla sopravvalutazione delle nostre possibilità individuali, unita alla conseguente tendenza a sovraccaricarci di lavoro. Mi fa pensare alle metamorfosi di Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, in cui il cammello viene descritto come la bestia da soma, l'incarnazione dello spirito di austerità. Il cammello è il prototipo dei militanti che sono sempre carichi di un’enorme mole di lavoro, perché credono che il destino del mondo dipenda da loro. Gli eroici militanti stacanovisti sono sempre tristi perché cercano di fare così tanto che non sono mai pienamente presenti a ciò che fanno, non sono mai pienamente presenti alla loro vita e non riescono dunque ad apprezzare le effettive possibilità di trasformazione del loro lavoro politico. Quando assumiamo questa postura, finiamo anche per cadere nella frustrazione, perché ciò che facciamo non ci trasforma e non ci dà il tempo di trasformare i rapporti con le persone con cui lavoriamo.

L’errore sta nel fissare obiettivi che non possiamo raggiungere e nel lottare sempre contro qualcosa, piuttosto che cercare di costruire qualcosa. Questo significa che siamo sempre proiettati verso il futuro, mentre una politica gioiosa è quella costruttiva già nel presente. Una cosa che oggi sentono sempre più persone. Non possiamo fissare i nostri obiettivi in un futuro che si allontana costantemente. Dobbiamo piuttosto puntare a obiettivi che possiamo raggiungere, almeno in parte, anche nel presente, anche se, ovviamente, il nostro orizzonte deve essere più ampio. Essere politicamente attivi deve cambiare in meglio la nostra vita e i nostri rapporti con le persone che ci circondano. La tristezza arriva quando ciò che si deve raggiungere viene rimandato continuamente a un futuro che non vediamo mai arrivare, rendendoci di conseguenza ciechi rispetto a ciò che sarebbe possibile nel presente.

Biasimo anche la nozione di «sacrificio». Non credo nel sacrificio, nella misura in cui incarna un obbligo a reprimere noi stessi, a fare cose che vanno contro i nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre possibilità. Questo non vuol dire che la militanza non produca sofferenza. Ma c'è una differenza tra il soffrire perché qualcosa che abbiamo deciso di fare ha delle conseguenze dolorose ⎼ come affrontare la repressione, vedere le persone a cui teniamo soffrire ⎼ e il sacrificio di sé, che è fare qualcosa contro il proprio desiderio e la propria volontà, solo perché pensiamo sia un nostro dovere. Questo rende gli individui infelici e insoddisfatti. Il lavoro politico deve essere, invece, curativo. Deve darci forza, visione, rafforzare il nostro senso di solidarietà, e farci realizzare la nostra reciprocità. Essere in grado di politicizzare il nostro dolore, trasformarlo in una fonte di conoscenza, in qualcosa che ci connette ad altre persone - tutto questo ha un potere curativo. È empowering (una parola, però, che non mi piace più).

Credo che la sinistra radicale si sia spesso mostrata incapace di attirare a sé le persone perché non ha prestato sufficiente attenzione all’aspetto riproduttivo del lavoro politico ⎼ le cene insieme, i canti che rafforzano il senso collettivo, le relazioni affettive che sviluppiamo tra di noi. Gli indigeni dell'America ci insegnano, ad esempio, quanto siano importanti le fiestas come mezzo non solo di ricreazione ma anche di costruzione della solidarietà, di significazione del nostro reciproco affetto e della nostra responsabilità. Ci insegnano l'importanza delle attività che fanno riunire le persone, che ci fanno sentire il calore della solidarietà e costruiscono la fiducia. Per questo prendono molto sul serio l'organizzazione delle fiestas. Con tutti i loro limiti, le organizzazioni dei lavoratori hanno assolto, in passato, a questa funzione, con la creazione di centri dove i lavoratori (maschi) erano soliti recarsi dopo il lavoro, per bere un bicchiere di vino, incontrare i compagni, o aggiornarsi sulle ultime notizie e sui piani d'azione. In questo modo la politica creava una famiglia allargata, garantiva la trasmissione del sapere tra le diverse generazioni e la stessa politica acquisiva un significato diverso. Non è stato così per la sinistra ai giorni nostri, ed è anche per questo che spesso entra in gioco la tristezza. Il lavoro politico dovrebbe invece cambiare i nostri rapporti con le persone, rafforzare i legami, darci coraggio nella consapevolezza che non affrontiamo il mondo da soli.

Preferisco parlare di gioia piuttosto che di felicità perché la gioia è una passione attiva. Non è uno stato d'animo stagnante. Non è la soddisfazione per le cose così come sono. È sentire la nostra potenza, vedere le nostre capacità crescere, in noi stessi e nelle persone che ci stanno attorno. È un sentimento che nasce da un processo di trasformazione. Significa, con il linguaggio di Spinoza, che comprendiamo la situazione in cui ci troviamo e che ci muoviamo secondo ciò che ci viene richiesto in quel momento. Sentiamo quindi che abbiamo il potere di cambiare e che, insieme ad altre e altri stiamo cambiando. Non è la mera acquiescenza di ciò che esiste.

Per Spinoza la gioia ha origine nella ragione e nella comprensione. È importante, in questo senso, comprendere che tutti approdiamo alla militanza con delle cicatrici, che sono i segni della vita in una società capitalistica. E questo è il motivo per cui vogliamo lottare, per cui vogliamo cambiare il mondo. Non ce ne sarebbe bisogno se fossimo già degli esseri umani perfetti ⎼ qualunque cosa questo voglia dire. Ma restiamo poi delusi, perché immaginiamo che nella militanza troveremo solo relazioni armoniose, ma invece troviamo gelosie, maldicenze, rapporti di potere asimmetrici.

Anche nel movimento delle donne possiamo sperimentare relazioni dolorose e deludenti. Anzi, è proprio nei gruppi e nelle organizzazioni femminili che abbiamo più probabilità di sperimentare le delusioni e i dolori più profondi. Perché se possiamo aspettarci di essere deluse e tradite dagli uomini, non ce lo aspettiamo dalle donne, e non riusciamo nemmeno a immaginare che come donne siamo in grado di farci del male l’un l’altra. Può capitare di sentirci svalutate, invisibili, o di far sentire altre donne così. Ci sono ovviamente casi in cui dietro i conflitti personali ci sono differenze politiche non riconosciute che non è possibile superare. Ma è anche possibile sentirsi tradite e col cuore spezzato perché presupponiamo che l’appartenenza ad un movimento radicale ⎼ e, in particolare, ad un movimento femminista ⎼ sia una garanzia di liberazione da tutte le ferite che portiamo sul nostro corpo e nella nostra anima. E così, abbassiamo le difese come mai avremmo fatto nei nostri rapporti personali con gli uomini o nelle organizzazioni miste. Inevitabilmente la tristezza si fa sentire, a volte fino al punto che decidiamo di andarcene. Con il tempo impariamo che le meschinità, le gelosie, le eccessive vulnerabilità che troviamo nei movimenti delle donne sono spesso parte delle distorsioni che la vita crea in una società capitalistica. Fa parte della nostra crescita politica imparare a identificarle e a non esserne distrutte.



*Titolo originale: «On Joyful Militancy», in Beyond the Periphery of the Skin: Rethinking, Remaking, and Reclaiming the Body in Contemporary Capitalism (PM Press, 2020). Traduzione a cura di Giulia Page.

bottom of page