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Sulla fine della lotta armata in Italia negli anni Ottanta. Modalità e contraddizioni




Pubblichiamo un testo di Lanfranco Caminiti che ben si inserisce nella proposta di rivisitazione del decennio Ottanta programmata in occasione del festival 6 di DeriveApprodi che si terrà a Bologna il prossimo giugno. I temi qui trattati da Caminiti – modalità e contraddizioni della fine dei progetti di lotta armata in Italia – saranno ripresi e approfonditi in occasione del festival da Monica Galfré. Per chi volesse intervenire in questa delicata ma fondamentale discussione, le pagine di «Machina» sono a disposizione.


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Curcio, Moretti e Balzerani – la continuità di direzione politica e azione armata delle Brigate rosse dalla fondazione fino a quel momento – il 21 marzo del 1988 rilasciano, in una pausa del processo moro-ter, un’intervista a Ennio Remondino del Tg1 in cui dichiarano che la lotta armata è «oggettivamente» finita. In realtà, un documento – firmato da Curcio, Moretti, Iannelli e Bertolazzi – era già stato sequestrato in carcere nel febbraio 1987, un anno prima, che diceva sostanzialmente e più brevemente le stesse cose. Il documento era stato poi pubblicato da qualche giornale – ma non aveva avuto grande eco, tranne che, naturalmente, nel circuito (dentro il carcere, e fuori) delle Brigate rosse. Ora – con quel po’ po’ di intervista televisiva – la cosa era conclamata urbi et orbi. Naturalmente si assumevano la responsabilità politica di tutto quello che avevano fatto le Brigate rosse – non si assumevano alcuna responsabilità politica nello spiegare perché chiudevano la baracca.

A marzo 1987, un mese dopo il primo documento di fine della lotta armata, venne ammazzato dalle Brigate rosse – Unione comunisti combattenti il generale Licio Giorgieri. E già a febbraio era stato commesso l’agguato di via Prati di Papa a Roma che costò la vita a due poliziotti di scorta a un furgone blindato che trasportava danaro. Le Brigate rosse si scomponevano e ricomponevano in nuovi piccoli gruppi. Non sembra perciò che l’appello di Curcio, Moretti e Balzerani (come, d’altronde, il precedente documento) sortisse alcun effetto. E le azioni armate continuarono per anni, fino all’omicidio di Massimo D’Antona (maggio 1999, undici anni dopo l’intervista di Remondino) e di Marco Biagi (marzo 2002, quattordici anni dopo l’intervista di Remondino). Si continuava a sparare e uccidere – nonostante Curcio, Moretti e Balzerani. E pure in qualche modo in nome di Curcio, Moretti e Balzerani. Erano le «nuove Brigate rosse» – di cui era difficile distinguere in cosa differissero dalla «vecchie» Brigate rosse. Tranne nel fatto che loro, i «nuovi», se ne impipavano di quello che avevano detto i tre «capi storici» e continuavano la lotta armata, che non era certo finita, almeno per loro.

Non era difatti ben chiaro – nelle dichiarazioni di Curcio e gli altri – perché il «ciclo» iniziato nel 1962 (Curcio, ma più propriamente e genericamente nel biennio ’68-69) fosse finito nel 1987-88 e non, mettiamo nel 1980 o nel 1983 o nel 1985. Nel 1986 era tutto giusto? Quelli erano i loro tempi, e quando si chiudeva lo decidevano loro – visto che loro avevano cominciato. Come stessero le cose – la sconfitta operaia, la fine del ciclo dei movimenti, accaduti ben prima, la desertificazione politica – a loro importava poco: l’orologio delle cose stava nella testa delle Brigate rosse. Erano loro i weathermen.

Quello che si capiva è che – benché i tre, e con ogni evidenza non da soli, non fossero più «irriducibili», dando a questo termine (curiosità per gli appassionati di questo genere di cose: sono stato io il primo a usare, a «inventare» questa espressione, che ebbe incredibile successo; se proprio vi sta a cuore, poi vi racconto come e quando) il significato di chi non smette di armarsi e usare le armi – non consideravano questa loro dichiarazione come una resa o una sconfitta, e quindi non erano necessarie spiegazioni di natura politica, ma come la fine di un «ciclo naturale». Come se un’azienda che produce bibite gasate o cappelli alla ventitré si rende conto che i gusti del mercato sono cambiati e non può far altro che chiudere i battenti.

Che cosa avesse spinto i tre a quell’intervista e a quella posizione in quel preciso momento – a parte la causalità di ritrovarsi insieme per quel processo e dando per scontato che non stessero «scambiando» in una qualche «trattativa» – rimane effettivamente incomprensibile: forse volevano «salvare» qualche militante rimasto fuori, anche se non è ben chiaro come avrebbero potuto «dismettere» quella che era tutta la loro vita, considerando pure che molti di loro erano ricercati. difatti, continuarono. Per me la spiegazione è una: le Brigate rosse – a parte il loro primo iniziale periodo – non hanno avuto mai alcun rapporto reale con i movimenti. Sono sempre state e sempre più sono diventate autoreferenziali. Non hanno mai avuto una «ragione sociale» (beh, sì, a parte il socialismo dell’avvenire): basta guardare alla differenza dei percorsi con l’Eta e l’Ira, che hanno chiuso la lotta armata ma sono diventate parte di un percorso politico legato all’indipendenza nazionale. Se i «capi» erano ormai tutti in carcere, la lotta armata era perciò finita. In nome però di una «ragione politica» della loro nascita – che affondava in una «richiesta» dei movimenti operai e studenteschi, mica se l’erano inventata loro, la lotta armata – i tre chiedevano una «soluzione politica».

Per una soluzione politica – era esattamente la richiesta che era venuta dall’area autonoma di Rebibbia il 30 settembre del 1982 (qualche annetto prima che i brigatisti vedessero «la luce» e prendessero atto delle cose) che prendeva posizione a partire da una «pratica di netto rifiuto di posizioni o comportamenti “combattenti” o “terroristici» e che si articolava soprattutto in una richiesta di misure alternative al carcere – «in una prospettiva riformatrice fatta di vertenze, rivendicazioni, lotte e battaglie» e che, attraverso incontri, convegni, documenti e un’intensa produzione di idee e proposte fu il lievito che portò alla «legge Gozzini». Grazie anche alle iniziative dei «comuni». Di cui, naturalmente fruirono, e abbondantemente, anche i brigatisti, aumma aumma.

Brigatisti, che però scatenarono l’inferno contro «i dissociati» di Rebibbia. Io intendo letteralmente l’inferno – ma sono cose anche molto private e intime e rese dei conti personali, che qui non interessano a nessuno.Se proprio volete – come sopra.

Questo «inferno contro i dissociati» trovò numerosi tifosi fuori dal carcere – erano in parte gli stessi tifosi che plaudevano a ogni attentato, a ogni morto ammazzato e si guardavano bene però dal «fare». Erano gli ultras del terrorismo – ce ne sono ancora oggi, un po’ invecchiati quelli che sono gli stessi di allora, ma sempre con la stessa acrimonia e la bava alla bocca. Costa poco, oggi. Su questi ultras ricade la responsabilità d’avere alimentato una sorta di «mitizzazione» che spinse alcuni giovani delle generazioni successive a imbracciare le armi e uccidere – fino al 2002. E trovò l’altra parte in quelle «nuove Brigate rosse» che era sempre più difficile distinguere dalle «vecchie».

Al di là degli ultras cretini e irresponsabili – questa «resistenza» a prendere una posizione netta contro le Brigate rosse fu dovuta, credo, a un errore politico non indifferente e che si trascinò a lungo: di fronte all’offensiva del «pentitismo» (che significava proprio il crollo di quell’ipotesi di lotta armata e anche la «stoffa») sembrò allora necessario difendere le Brigate rosse per non far seppellire sotto la schifezza del pentitismo tutta la storia del lungo ciclo di lotte. Quando, con ogni evidenza, non c’era alcuna continuità dal 1962 (Curcio, ma più propriamente e genericamente nel biennio ’68-69) in poi, anzi rotture, scissioni, separazioni, fughe in avanti, abbandoni. In un certo senso, cadendo nella «trappola storica», che divenne poi il refrain dell’offensiva «culturale» del potere, che il 1968 aveva prodotto la lotta armata.

Non ho mai avuto alcun fascino per le Brigate rosse – che ho sempre sentito distanti, distantissime dal mio «universo politico». Ma erano compagni e avevo rispetto – almeno fino al sequestro Moro, che immaginai subito come la fine di ogni cosa, e al suo esito irresponsabile. Ero già in carcere (dall’aprile 1978) – ormai era tutto finito. Ma la differenza e la distanza, sempre nell’ambito delle posizioni politiche, divennero indignazione dopo l’assassinio di Roberto Peci (agosto 1981, sette anni prima dell'intervista di Remondino), fratello del pentito Patrizio, «processato» e condannato a morte in un video orribile, inguardabile, mentre si sente suonare Bandiera rossa. L’orrore.

Ma i tre, evidentemente, non avevano nulla da dire su questo.

Parlo oggi di queste cose lontane perché, dopo la definitiva sentenza di Parigi (e vivaddio), che è una vittoria di ogni elementare principio del diritto, sembra quasi che dalla Francia sia venuta una sorta di «legittimazione» della lotta armata. Gli ultras di cui sopra, soffiano così. Quando l’unica legittimazione che ne è venuta (a parte la conclamata assenza del diritto in Italia in quegli anni) è che chi si è potuto rifare una vita, scegliendo di abbandonare la lotta armata, lasciamolo così. Ne viene, che non solo non ci sarà mai «soluzione politica» di quegli anni – e d’altra parte lo scorrere del tempo ci va prendendo uno per uno, risolvendo a modo suo – perché il «potere» non ne vuol sentire parlare; ma perché, a occhio e croce, «da questa parte» delle minchiate commesse in nome della «lotta armata» non se ne intende parlare.



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Lanfranco Caminiti, siciliano, giornalista, saggista e narratore, collabora con quotidiani e riviste, e ha pubblicato libri di storia e racconti con diverse case editrici. Tra i fondatori della rivista e della casa editrice DeriveApprodi.


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