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Strobosfere (II)



Strobosfere

La «spirale d’infinito del numero otto», con quel «nodo senza varco delle curve che si intrecciano», segnano gli sviluppi del racconto «Strobosfere» (la prima parte qui) e il desiderio che cresce rifratto nelle luci ritmate delle notti della riviera romagnola negli anni Ottanta.


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Eros è sempre e soltanto un attimo, dunque non può tenere conto dei sentimenti di nessuno, i maschi lo intuiscono per fisiologia, le femmine lo negano per educazione. Ma tutti obliano questo squilibrio quando le coppie si rimescolano sopraffatte dalle ritmiche di battiti cardiaci accelerati e dalle sfumature timbriche di I feel love. La voce vellutata di donna summer si fonde con le sinuose linee melodiche dei sintetizzatori e crea un amplesso tra umano e tecnologico, una sinfonia ibrida che ci rinvigorisce. I nostri flash danzano al ritmo dell’ipnotica linea di basso, increspano le onde del paesaggio sonico, scheggiano le pelli brucianti e creano brividi sonori che si accompagnano alle pulsazioni del sangue. I corpi vacillano, fremono e si dimenano. L’elettronica incalzante brucia di un desiderio che non si consuma mai, il mondo è perfetto qui ed ora, al punto che inganniamo senza sforzo le altre due sfere lassù. È tramontata quell’unica luna, costruita a nostra esangue e butterata imitazione, la notte è diventata giorno e noi sfolgoriamo più del sole.

Il poeta maledetto è stufo di stare curvo, la ragazza bassa ha ricambiato i suoi approcci con lo slancio di un lombrico in slow-motion, la schiena gli duole e il cambio di impronta ritmica gli dà l’occasione di allontanarsi per frangersi in mezzo ad altri corpi. La sagoma di lei scompare in fretta ingoiata dalla folla danzante, lui ritorna a bordo pista per rinfrescare la disillusione con altra birra, ed è allora che incontra un gruppo casuale di uomini più adulti, senza dubbio soli e solitari. In uno di loro, allampanato, stempiato e triste, crede di scorgere sé stesso. Un sussulto lo scuote e lo rende consapevole del fatto che ormai è giorno, troppo presto per bere ancora. Che fare allora? Uscire per andare dove? Ah già, c’è il mare là fuori. Va a schiarirsi le idee che non ha, a percorrere orizzonti vuoti baloccandosi tra essere e non essere. Diventerò quell’uomo triste oppure no? Che importa, la vita è senza senso, gli facciamo eco. Ci lascia, infine, esce strascicando i piedi senza salutare nessuno. Tra poche ore e per molti anni tornerà da noi, è un fatto tangibile, anzi tagliente. Come i bordi affilati delle nostre mille facce ognuna delle quali riflette i suoi ritorni. Lo salutiamo, questa e le altre mille volte, con un diorama di raggi dorati che muoiono sulla sua schiena inclinata in avanti. Il suo io futuro si gira, lo vede e si fa cogliere da una strana sensazione di déjà-vu. Poi pensa che la sua vista è peggiorata con l’età e le luci stroboscopiche lo hanno confuso. L’udito funziona meglio invece. Nonostante i bassi che hanno scosso i suoi timpani, riconosce dalle prime due note quella hit immortale. La musica, come il tempo, sembra che vada via, ma qui con noi comincia e ricomincia, sempre la stessa. Ciò che passa senza ripresentarsi uguale, per il ragazzo deluso e per l’uomo stempiato, è il loro sentire, il loro feel love. Feel è ogni volta più flebile e love è diventato un asintoto da raggiungere all’infinito, vale a dire mai nel mondo fuori dalle sfere dove l’infinito è parte di noi.

La ragazza che ha lasciato i suoi glitter sulle mucose orali del giocatore di rugby si sfila dalla sua bocca impastata d’alcool per arrotolarsi con le altre ombre che ballano a scatti, là dove sono più dense. Trema per le vibrazioni a centro pista e tenta di trattenere l’eccitazione prima che questa, lenta, sfumi. Chiude gli occhi. Il ricordo di un piacere implausibilmente identico a questo l’attraversa. A cavallo dei nostri bagliori, che oltrepassano le sue palpebre, sfrecciano la bellezza dell’impronta melodica e il ripetersi della struttura ritmica di quel preludio bachiano che suonava da piccola.

È la perfezione sferica di entrambi i brani ad agire e a inondare di dopamina il suo cervello, lei è sensibile alla nostra forma e allora le regaliamo uno scorcio di futuro prima che l’ubriacatura sensoriale esaurisca la sua consapevolezza: al centro della musica, su un podio, dirige movimenti impetuosi come nei suoi sogni d’infanzia. È in nostro potere compenetrare il tempo che fu al tempo che sarà, per lei e le altre lei, le sue versioni future che sognano lo stesso podio. Hanno ancora più glitter che inargentano ricci già da soli inargentati e che si accorciano di volta in volta, ma continuano a risplendere sotto i nostri raggi.

Il rugbista osserva annebbiato la sua compagna di pochi istanti prima, lui stringeva i suoi seni e lei maneggiava il suo inguine, pomiciavano con furia, erano al centro dell’invidia generale e ora, con l’aria persa a occhi chiusi, lei si struscia a tutti gli altri con fervore autoerotico. Lui vuole rimorchiare, lei divertirsi e basta. Pensa un pensiero acido sulla inconsistenza irritante delle femmine e cerca i compagni. Vede svanire lo spilungone oltre la soglia. Meglio perché quello è una lagna si dice, allora tracanna con gusto altri boccali, confidando nella sua resistenza fisica. Ma poi si accascia sul bancone stordito dall’alcool, senza nemmeno riconoscere il sole là fuori, perde di vista anche noi che non riusciamo a rivelargli l’alcolizzato che è e sarà, riflesso mille volte. Vorremmo farlo non per metafisico puntiglio ma per sferica consapevolezza che nel flusso e riflusso di ogni cosa, magari in un altro tempo, quel liquido ambrato potrebbe avere un’altra gradazione alcolica. Oppure potrebbe berne un po’ di meno in modo da non svenire brillo e quindi, forse, riuscire a mettere a fuoco il suo futuro da ubriacone sempre più gonfio che lo guarda dalle nostre superfici specchiate. Non cambierebbe nulla. Però, chissà.

Ci capita – molto di rado – nelle notti d’estate di sognare un clinamen, uno spostamento, soprattutto quando la luminosità di una stella cadente devia dal solito sentiero circolare e magari causa un corrugamento nella nostra simmetria. Ma sono sogni di eccentricità destinati a rimanere tali perché la dittatura eterna del pi greco ci vincola a una immutabile sfericità.

La ragazza bassa, col tamagotchi stretto in una mano come un totem che salva la vita a lei e non viceversa, si è pentita di avere ballato con lo spilungone, non voleva farlo, ma doveva dimostrare alle altre che poteva. Non sa cosa l’abbia spinta a rischiare così, si chiede ora tentando timidi assoli di danza. Non si inoltra fino al centro ma tappezza i bordi della pista, a volte solo camminando o saltellando al ritmo dei nostri bagliori. Si ferma ad ammirare la sua amica che si distingue per via dei glitter scintillanti sotto i getti di luce e vorrebbe avvicinarsi ma l’altra è in mezzo a troppi corpi attratti dalla sensualità che spande intorno a ondate. Si sta mettendo nei guai con quell’atteggiamento troppo libero, pensa, prima o poi qualcuno ne approfitterà. Forse dovrebbe avvisarla? Lei lo sa bene, anzi benissimo, il trucco pesante nasconde l’occhio pesto che il suo ragazzo tanto dolce le ha fatto prima di regalarle il tamagotchi. Forse è meglio farsi i fatti propri, è meglio tenere un profilo basso. Se qualcuno prima l’ha riconosciuta e riferisce che lei stava cercando attenzioni mentre il fidanzato è a lavorare, rischia di rimanere da sola come la sua amica, l’altra ancora, quella che preferisce studiare. Ma non c’è bisogno di studiare per sapere che il treno dell’amore non passa due volte. Almeno sua madre glielo ripete sempre.

Quanti errori commettono le madri che non conoscono le nostre superfici senza limiti e confini. E che anzi ci pensano con ostilità e sospetto come fossimo fonte di perdizione irreversibile. Eppure noi siamo la prova materiale e manifesta che tutto ritorna, figuriamoci un treno standard che poi è sempre uguale, per definizione no? Perché è standard.

Noi siamo imparziali ed equanimi, quindi mostriamo alla ragazza bassa con i capelli troppo lunghi per la sua statura altre donne che le assomigliano, sempre più sciupate, che in mano stringono solo la catenina dell’ovetto giapponese strappato chissà quante volte. E queste sue versioni future non sono poi così tante perché le ragazze - poi donne - coi tamagotchi d’estate ci sognano ma non possono raggiungerci ogni volta che vogliono, quelle almeno che sopravvivono più o meno integre al loro ovetto.

Lungo questi cento chilometri di riviera le note irresistibili di I feel love risuonano sublimi e sono un richiamo doloroso ma esaltante per il ragazzo col game-boy. La sua erezione di poco prima, mentre ballava col buco nel cuore, gli ha dato un po’ di sollievo. Certo, la ragazza coi jeans si è allontanata appena l’accordo di La minore, così intimo e profondo, ha impregnato l’atmosfera con la complicità dei nostri luccicori, ma l’ha fatto sorridendogli. Grazie a lei ora lui si è convinto che è in grado di fare contento papà. Riuscirà a dargli un nipote o due con cui trastullarsi, e prima accade, prima se lo toglie dal collo. Chi se ne frega di amare le donne, basta riuscire a scoparsele, no? È contento e si mette in cerca dei suoi compari per condividere con loro questa risoluzione così triviale come fosse il graal che sta cercando da tutta la vita. Cerca «lui» per primo, lo spilungone: è alto e lo individua sempre senza grossi sforzi, ma non lo trova, non è possibile, dove è andato? Stava abbordando una tipa. Il pensiero lo colpisce e sparpaglia per qualche secondo la felicità posticcia che si è appena prefigurato. Poi vede la ragazza bassa, si muove a tratti schivando le zone più lucenti come un colore che stinge dentro un arcobaleno ma il suo amico non è nei paraggi. L’entusiasmo si smorza e improvvisa risale la paranoia per l’amica di sua madre e l’altra donna sorprese a baciarsi. Senza la stazza degli altri due dietro cui nascondersi, teme di essere riconosciuto. È lei a doversi preoccupare, lui lo sa ma non riesce a evitare che l’ansia gli stringa lo stomaco. Per distrarlo decoriamo figure e allestiamo sulla pista schiere di suoi facsimili erranti con le camicie viola aperte sul petto, indossate per la discoteca. I ricci diradati, le pancette arrotondate, l’oro scialbo delle fedi nuziali che fatica a raccogliere il nostro scintillio. Le speranze – ma quali? - si sono spente, l’amico del cuore se ne è andato, ogni tanto ne trovano un altro e credono di scorgere una brace ancora rossa tra le ceneri. Invece è solo l’eco del tempo tondo che si ripresenta loro, rifratto dal nostro incessante movimento.

La ragazza coi levi’s si è liberata volentieri dall’abbraccio del nanerottolo arrapato, lei è schiava del proprio olfatto e non sapeva come dirgli che la foresta cotonata dei suoi ricci neri non aveva un buon profumo. Rende grazie a noi e a donna summer anche se non in questo che sarebbe l’ordine esatto, perché comincia a sentirsi oppressa dalla nostra intensità inesausta. Coglie lo sguardo di lui, sorpreso più che scontento e si ritrova a sorridergli allontanandosi. Nessun rancore, eh?

Ha bisogno di concentrarsi sul suo futuro, di estrarne l’essenza dalla spirale d’infinito del numero otto che precede questi anni, dal nodo senza varco delle curve che si intrecciano nella nostra danza perpetua. Si allontana dalla confusione, verso i tavolini nell’ombra, per sedersi e assaporare l’idea che studierà e potrà scegliere. I nostri giochi di luce disegnano due lobi che inseguono l’orizzonte e illuminano le due donne in atteggiamento intimo sedute accanto alla ragazza coi jeans, lei le nota e prova un miscuglio di invidia, ammirazione e nostalgia non sa di che. L’ultimo suo sguardo è per noi, fulgide sfere sospese nell’azzurro, ed è di invidia per la nostra roteante bellezza.


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Angelica De Palo, astrofisica e scrittrice di fantascienza, ha pubblicato come Vanessa West Lesbismo e meccanica quantistica (StreetLib 2018) e La natura corregge i propri errori (delos.digital 2023). Per Machina ha curato la rassegna «Le Guardiane della galassia».

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