Estratto da L’Italia è un paese razzista (DeriveApprodi, 2024)
«L’Italia è un paese razzista nel senso che il razzismo è un fatto sociale, riguarda tutte e tutti, nessuno escluso, perché definisce il nostro stare al mondo, le esperienze che facciamo, le opportunità che abbiamo o perdiamo. Non è un problema soggettivo ma ha piuttosto a che fare con la società e il suo funzionamento». Esce oggi in libreria L'Italia è un paese razzista (DeriveApprodi 2024, p. 140, euro 16,00) di Anna Curcio: «il libro che distrugge il mito degli italiani brava gente». Ne pubblichiamo un estratto dalle conclusioni.
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Se l’Italia è un paese razzista, nel senso che questo libro ha fin qui provato a spiegare, indignarsi per questa espressione o sentirsi etichettati in modo ingiusto non ha molto senso, oppure è espressione di un senso di colpa. Non scegliamo, infatti, se essere o meno razzisti, perché viviamo in un mondo che funziona, anche, grazie al razzismo. Questa è, almeno, la testi che avanza questo libro sulla scorta di altri studi che hanno discusso di razzismo strutturale e capitalismo razziale. In questo senso il razzismo non è un problema di ignoranza, non dipende della difficoltà dei soggetti di stare al passo con i cambiamenti sociali, come si è affrettata a dire la stampa di destra quando, lo scorso anno, la campionessa di pallavolo Paola Egonu ha dichiarato dal palco di Sanremo che l’Italia è razzista. Né possono servire i distinguo tra italiani razzisti e non lanciati in quell’occasione dalle altre forze politiche. L’Italia è un paese razzista nel senso che il razzismo è un fatto sociale, riguarda tutte e tutti, nessuno escluso, perché definisce il nostro stare al mondo, le esperienze che facciamo, le opportunità che abbiamo o perdiamo. Non è un problema soggettivo ma ha piuttosto a che fare con la società e il suo funzionamento; per questo le politiche di educazione all’antirazzismo degli ultimi Settanta anni sono state un buco nell’acqua. Il razzismo, come i saggi raccolti in questo libro argomentano, chiama in causa la definizione di gerarchie sociali costruite intorno o a partire dall’«invenzione» della razza, che non è un attributo biologico ma una categoria socialmente costruita per organizzare le moderne società capitalistiche.
Dire questo, però, non significa sostenere che nel contesto razzista in cui viviamo siamo tutte e tutti uguali, ovvero giustificare o ridimensionare le responsabilità soggettive e politiche. Al contrario, significa sostenere che è solo all’interno di questo contesto di razzismo strutturale che si può comprendere pienamente e dunque combattere il drammatico peso di tali responsabilità. Insomma, non scegliamo se essere o meno un paese razzista: l’Italia lo è, punto. Da qui dobbiamo partire per cambiare le cose.
La storia del paese, infatti, la sua narrazione nazionale e la costruzione della sua stessa identità sono segnate profondamente dal razzismo, nel senso che, ben prima dello scempio delle leggi razziali nel 1938 e ben dopo la fine del fascismo, l’Italia ha messo al lavoro la razza e il razzismo per organizzare i rapporti sociali e produttivi e gestire le fasi della transizione capitalistica. Nelle sue diverse declinazioni, il razzismo – interno, coloniale e postcoloniale – resta una costante della nostra storia che continua a segnare la quotidianità, nelle strade, nelle scuole, sul lavoro, nello sport. Non si esaurisce certamente negli episodi di razzismo qui discussi. Nei giorni in cui lavoro alla chiusura di questo libro, vanno in scena in rapida successione l’assoluzione, da parte della Federazione italiana gioco calcio, dalle accuse di razzismo del difensore dell’Inter, l’italiano Francesco Acerbi, che aveva detto al difensore brasiliano del Napoli Juan Jesus «sei solo un negro», e gli strali del governo di destra contro la scuola di Pioltello nel milanese che, nell’esercizio dell’autonomia scolastica, sceglie di restare chiusa in occasione della fine del Ramadan. Due episodi tra loro diversi che sono però l’indicatore di un razzismo ormai esplicito, tracotante e istituzionalizzato, sdoganato dalla nuova stagione politica del paese, non meno razzista delle precedenti ma sicuramente espressione di un razzismo più aggressivo e sfacciato.
Nel primo caso si è creato un «grave precedente», ha detto Juan Jesus; aggiungerei un precedente giuridico, sebbene nell’ambito «speciale» della giustizia sportiva. La sentenza del tribunale parla di «insufficienza di prove» perché, evidentemente, le dichiarazioni del bianco Acerbi che nega le offese razziste pesano di più di quelle del nero Juan Jesus che invece le conferma. Come avveniva nella Virginia prerivoluzionaria all’indomani della Bacon’s Rebellion, nel sistema delle piantagioni o nelle colonie italiane (e non solo) in Africa, il peso giuridico delle dichiarazioni di chi è bianco e di chi non lo è molto differente. A Pioltello, invece, abbiamo visto concretamente al lavoro le politiche assimilazioniste, razziste per definizione, del governo europeo delle migrazioni internazionali. Dalle dichiarazioni di Matteo Salvini che, completamente all’oscuro di ciò che accade nella scuola e nella società, propone un tetto massimo di «stranieri» in ogni classe, a quelle del ministro dell’istruzione Valditara, che parla esplicitamente di assimilazione «ai valori fondamentali che appartengono all’identità di chi accoglie», il tema di fondo è sempre la presunta «superiorità» di un modello sociale e culturale da imporre, che non ammette le differenze, anzi le organizza gerarchicamente per governare il paese. Entrambi i ministri, peraltro, dimenticano che nelle scuole italiane spesso gli «stranieri» sono nati e cresciuti nel paese e parlano l’italiano decisamente meglio di molti autoctoni madrelingua.
Se allora l’Italia è un paese razzista, come la realtà di tutti i giorni continua a mostrare, è inutile operare giustificatori distinguo, occorre piuttosto un’assunzione di responsabilità rispetto alla propria condizione sociale materiale. Bisogna assumere, cioè, che il razzismo è strutturale e per questo inscindibile dal funzionamento della società capitalistica e dalle nostre singole esistenze. Come già più volte detto, non possiamo scegliere se essere o meno razzisti, esattamente come non possiamo scegliere di vivere al di fuori del capitalismo, ma possiamo e dobbiamo scegliere di essere antirazzisti mentre al governo del paese siede una destra aggressivamente razzista. La scelta, tuttavia, deve anche riguardare come essere antirazzisti. Si può praticare un antirazzismo umanitario che costruisce vulnerabilità, ancorché animato dalle migliori intenzioni, e legittima politiche di assimilazione; oppure, si può cercare di agire l’antagonismo politico di un antirazzismo radicale che apre al cambiamento. È una scelta irrinunciabile, che interroga direttamente le forme e i modi della lotta antirazzista oggi.
Per non essere antirazzisti in modo solo nominale è allora necessario assumere, una volta per tutte, che non serve «disimparare» il razzismo, quand’anche fosse possibile, perché non si tratta di un problema di psicologia individuale. Occorre anche guardare al razzismo come dato strutturale del mondo in cui viviamo e non come un «effetto» della globalizzazione, delle migrazioni internazionali o della crisi, che sicuramente contribuiscono alla definizione del razzismo contemporaneo ma non ne esauriscono la comprensione. La storia variegata dell’antirazzismo in Italia, tra il mondo dell’associazionismo laico e cattolico e i movimenti sociali anche radicali, ha prevalentemente affrontato il razzismo in relazione alle migrazioni internazionali. Dalla fine degli anni Novanta, le politiche in materia di immigrazione e luoghi simbolici come i centri di detenzione per migranti sono stati l’epicentro della lotta. Anche in anni più recenti, anni in cui il Mediterraneo è stato testimone di orrori e stragi di migranti, l’attenzione è stata catalizzata dalle politiche dell’accoglienza e dal contrasto ai respingimenti. È mancata, invece, salvo alcune eccezioni, un’attenzione esplicita al razzismo che gestisce le migrazioni internazionali, in Italia e in Europa, e organizza i rapporti sociali e del lavoro nel mondo in cui viviamo. Parlo del razzismo quotidiano nelle scuole, sul lavoro, nei quartieri, e dei processi di razzializzazione che organizzano la vita degli oltre cinque milioni di «stranieri» che risiedono in modo stabile nel paese (magari anche provvisti di cittadinanza), di cui questo libro ha provato a considerare qualche aspetto.
Solo negli ultimi tempi, sull’onda di Black Lives Matter, il tema del razzismo ha trovato una sua specifica declinazione critica, attraverso una nuova generazione di militanti antirazzisti, giovani donne e uomini neri italiani, che hanno preso parola per dire, anche in Italia, che le vite dei neri contano. «Non solo in mare, ma anche nelle strade delle nostre città, nei cuori e nelle menti di tutte e tutti noi»[1]. Un modo anche per sottolineare l’esigenza di guardare al razzismo oltre le migrazioni e i diritti dei migranti e interrogare le condizioni di vita qui dove viviamo.
Nell’apertura di questo spazio, si sono moltiplicate le esperienze editoriali e artistiche che hanno dato voce ad autori e soprattutto autrici nere italiane[2] e la questione razziale è diventata una tema irrinunciabile anche nella kermesse nazionalpopolare per antonomasia: il Festival di Sanremo. Tuttavia, e per fortuna, il black washing operato dell’industria dello spettacolo può fare anche cortocircuito. Se nel 2023, come già ricordato, Paola Egonu come co-conduttrice ha giustamente dichiarato che «l’Italia è un paese razzista», quest’anno il rapper Ghali, tra gli artisti in gara, ha cantato il razzismo quotidiano e istituzionale. Se il processo di mercificazione delle differenze è indiscutibilmente uno dei terreni di valorizzazione e governance del capitalismo contemporaneo, non dobbiamo mai dimenticare che è sempre l’irruzione delle soggettività a costringere il sistema ad attivare i propri meccanismi di cattura, e perfino Sanremo può essere trasformata in una vetrina antirazzista che sbatte in faccia al paese l’ipocrisia delle sue istituzioni. Tra le voraci fauci della macchina capitalistica e l’eccedenza delle soggettività, in ultima analisi a decidere sono i conflitti e i rapporti di forza. Proprio per questo è oggi cruciale scegliere come praticare la lotta antirazzista. Si tratta – come scrivo in uno dei saggi – di «riportare l’antirazzismo sui piedi», ovvero costruire pratiche capaci di guardare ai rapporti sociali e alle gerarchie della razza che organizzano le nostre società.
È questa scelta la sfida politica per la lotta antirazzista oggi. Una lotta che, nelle differenze, attiene alle condizioni di esistenza di tutte e tutti. Infatti, se il razzismo è strutturale, come si è provato fin qui a dire, la lotta al razzismo è anche la strada per abolire lo stato di cose presente, un orizzonte strategico di una nuova composizione politica dei soggetti che stanno pagando i costi di una crisi infinita. Una «chimera»[3]? Forse, però è anche l’incubo, terribile e irrisolto, delle élite capitaliste lungo l’intero arco della storia. Lo spazio irrinunciabile per il cambiamento a cui questo libro prova a dare un contributo.
Note
[1] C. Hawthorne, Razza e cittadinanza. Frontiere contese e contestate nel Mediterraneo nero, Astarte Edizioni, Pisa 2023, p. 238.
[2] Si veda ad esempio D. Kan, Ladri di denti, People, Busto Arsizio 2020; O.Q.D. Obasuyi, Corpi estranei. Il razzismo rimosso che appiattisce le diversità, People, Busto Arsizio 2020; N. Uyangoda, L’unica persona nera nella stanza, 66thand2nd, Roma 2021.
[3] H. Bouteldja, Beaufs et barbares. Le pari du nous, La Fabrique, Paris 2023 (di prossima pubblicazione in italiano per DeriveApprodi).
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Anna Curcio è ricercatrice e saggista. Cura la sezione vortex della rivista Machina. Studia le trasformazioni del lavoro produttivo e riproduttivo nel rapporto con la razza e il genere. Tra le sue diverse pubblicazioni, ha curato La razza al lavoro (Manifestolibri, 2012), Introduzione ai femminismi e Black fire (DeriveApprodi, 2019 e 2020).
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