Nel 1994, mentre il paese, nell’assordante silenzio del suo passato coloniale, iniziava a fare i conti con una «nuova costellazione del razzismo» che aveva il compito di gestire le migrazioni internazionali, un gruppo di giovani studiosi militanti, con il supporto economico delle istituzioni del territorio, allestisce a Bologna la prima mostra sul razzismo italiano: La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascisti. Un materiale storiografico straordinario che presentava il razzismo in epoca fascista, in un modo mai fatto prima: non un effetto dell’influenza della Germania nazista ma una «radicata tradizione italiana» che non si risolveva nell’antisemitismo ma aveva anche a che fare con il sempre taciuto razzismo coloniale. Nell’asfittico dibattito pubblico antirazzista del tempo, fu un contributo importante che spinse a ridiscutere il concetto stesso di razzismo, rimasto a lungo schiacciato sotto il peso dell’olocausto e ricondotto a mero effetto del nazi-fascismo. La mostra, invece, portava in primo piano il carattere materiale e non ideologico del razzismo e i dispositivi discorsivi e amministrativi che lo avevano costruito. Con grande audacia per i tempi, nominava la razza rompendo un tabù consolidato nell’Italia di quegli anni. Tuttavia, nominava la razza come menzogna. Senza cioè riuscire a sottrarsi del tutto dal paradigma interpretativo dominante nell’Italia repubblicana e nell’Europa del dopoguerra, che negava l’esistenza della razza, di cui era stata sconfessata l’esistenza biologica, sebbene questa continuasse ad avere effetti materiali e a produrre diseguaglianze. Come se il tempo per nominare la razza come realtà  non si fosse ancora compiuto.
Questo breve testo che presenta un’esperienza ancora poco conosciuta a cui vogliamo, invece, dare risalto, ha tra le altre cose il merito di restituire uno spaccato del dibattito antirazzista negli anni Novanta. Si tratta, per questo, di un importante materiale di lavoro, in vista del festival di DeriveApprodi: Anni Novanta - Quando il futuro è finito, dal 15 al 19 maggio a Bologna.
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La cosiddetta razza bianca europea è a rischio estinzione
Marco Scajola 2/4/2024, Consiglio regionale della Liguria
La menzogna della razza è il titolo di una mostra che si tenne a Bologna nella biblioteca dell’Archiginnasio – l’antica sede dell’Università – dal 27 ottobre al 10 dicembre del 1994. Il sottotitolo ne precisa meglio il contorno: Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascisti. La mostra fu un evento epocale poiché ebbe la capacità di riportare alla luce un rimosso profondo della società italiana, di affondare nella sua genealogia e di proiettarlo in avanti per controllarne gli effetti. In questo senso, essa fu, dunque, al contempo, un evento culturale, politico e sociale a tutto tondo[1].Â
La menzogna della razza fu possibile grazie all’incontro di tre storie: il centro Furio Jesi, un gruppo di studenti provenienti dal movimento della Pantera, il direttore di una singolare istituzione: l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia Romagna. Mauro Raspanti e Saverio Marchignoli si conobbero attorno al 1987 sui banchi del corso di Storia del pensiero indiano. All’università di Bologna scoprirono l’interesse comune per l’orientalismo, per i dispositivi di costruzione dell’alterità nel quadro della colonizzazione e per la scienza del mito. In particolare, condividevano la passione per un intellettuale all’epoca sconosciuto ai più: Furio Jesi. Lo studioso torinese, morto a soli 39 anni, offriva alcuni strumenti per contrastare il ritorno delle destre e affrontare temi ancora poco esplorati tra cui l’uso del mito nel fascismo, le correnti razziste più spirituali o la cultura di destra, titolo di uno dei suoi ultimi libri[2]. Jesi fu talmente importante per loro che decisero di fondare un centro col suo nome[3]. Il Centro Furio Jesi di Bologna cominciò a raccogliere libri, socializzare letture e organizzare seminari. Raspanti – un lettore onnivoro[4] - pensò all’allestimento di una mostra sul razzismo in epoca fascista.
In quegli stessi anni, Giuliana Benvenuti, Riccardo Bonavita, Gianluca Gabrielli e Rossella Ropa si erano conosciuti durante il movimento della Pantera. Per alcune e alcuni di loro fu l’occasione di una radicalizzazione politica. Per altre e altri la conferma di un posizionamento maturato già precedentemente. La Pantera, specie quella bolognese, fu esplicitamente antifascista e antirazzista, come documentano - oltre alle fonti orali - i videogiornali del movimento e le iniziative prese a favore degli immigrati[5]. Al suo interno, il piccolo gruppo era molto vicino al collettivo di Lettere e Magistero che aveva spiccati interessi per la storia. Alla fine di dicembre del 1989, per esempio, il collettivo invitò Luciano Canfora e Franco Fortini a discutere di «revisionismo storico»[6]. Fortini, oltre a essere uno dei punti di riferimento del movimento bolognese, era anche l’autore prediletto da Riccardo Bonavita, già all’epoca scrittore di poesie[7]. A lui avrebbe dedicato qualche anno dopo una tesi di dottorato[8]. Quando il movimento esaurì la sua spinta nei primi anni Novanta, il gruppo cercò un modo per proseguire l’impegno politico intellettuale.
In quel frangente, la crisi del sistema dei partiti, aprì le porte alla «discesa in campo» di Silvio Berlusconi e alla legittimazione del Movimento Sociale Italiano. Il «revisionismo storico» e l’anti-antifascismo sembrarono diventare il cemento per la fondazione di una Seconda Repubblica, mentre nel paese riemergeva un razzismo dalle antiche radici e cominciavano a prendere forma gruppuscoli di orientamento neofascista e neonazista. Entrati in contatto con il Centro Furio Jesi attraverso le reti di relazione del movimento, Benvenuti, Bonavita, Gabrielli e Ropa accettarono la proposta formulata da Raspanti di lavorare insieme alla mostra per contrastare questa temperie politica[9].
 A rendere possibile l’allestimento – almeno nella sua forma definitiva - fu, però, l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna. Nato nel clima di sperimentazione politica di metà anni Settanta e al culmine di un intenso dibattito locale, l’Istituto (unico in Italia) fu presieduto da grandi intellettuali. Il primo fu Lucio Gambi, uno dei maggiori geografi italiani, alla metà degli anni Novanta, Ezio Raimondi, membro della casa editrice il mulino e italianista di fama internazionale. Entrambi testimoniano la volontà dell’Istituto di coinvolgere gli studiosi in un’attività di programmazione nel campo della cultura. In quel periodo, il direttore – la carica più operativa – era Nazareno Pisauri (1940-2016) che proveniva dall’esperienza della Nuova sinistra ed era ancora costantemente impegnato su tutti i temi politici più rilevanti. Pisauri si innamorò del progetto. Mise insieme oltre 150 milioni di lire per finanziare interamente la mostra, il catalogo[10], una serie di incontri di approfondimento e una versione dei pannelli finalizzata alla disseminazione dei materiali in giro per l’Italia[11]. Il personale dell’Istituto cui affidò il compito di seguire la mostra sotto il profilo organizzativo e pratico (Giovanni Serpe e Zeno Orlandi), entrò in profonda sintonia con il gruppo, lavorando ben oltre le mansioni previste. Tutti erano convinti di compiere un gesto antifascista mentre facevano ciò che facevano. Un gesto simbolico e politico fissato nei versi fortiniani che chiudevano un documento di preparazione della mostra:
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Per ognuno di noi che dimentica
c’è un operaio della Ruhr che cancella
lentamente se stesso e le cifre
che gli incisero sul braccio
i suoi signori e nostri.
Per ognuno di noi che rinuncia
un minatore delle Asturie dovrà credere
a una seta di viola e d'argento
e una donna d'Algeri sognerÃ
d'essere vile e felice.
Per ognuno di noi che acconsente
vive un ragazzo triste che ancora non sa
quanto odierà di esistere[12].
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La struttura della mostra e l’interpretazione del razzismo
La mostra si presentò suddivisa in tre sezioni secondo un criterio tipologico anziché cronologico. Nella prima – Pregiudizio e propaganda – erano esposti giornali umoristici, fumetti, cartoline coloniali, romanzi popolari, manifesti murali. Questi materiali servivano per documentare da una parte le credenze e le attitudini legate a «stereotipi etnici» – spesso impliciti/irriflessi -, dall’altra, l’uso più elaborato di questi da parte del razzismo di stato a fini propagandistici. Nella seconda – L’ideologia – si prendeva in considerazione l’intera visione del mondo come insieme «esplicito» di rappresentazioni e di giudizi. Qui, le diverse componenti dell’apparato razzista erano classificate in quattro categorie: il «razzismo biologico», il «nazional-razzismo», il «razzismo esoterico-tradizionalista», l’«antigiudaismo cattolico e l’antisemitismo fascista». I pannelli raccoglievano giornali, riviste, fotografie, libri, documenti come le tavole genealogiche per la definizione di ebreo. La terza sezione, infine, affrontava la Prassi persecutoria sia nel contesto coloniale sia nel territorio nazionale. Essa consentiva allo spettatore di passare dalle rappresentazioni al dispositivo della persecuzione in azione, prendendo in considerazione, oltre agli ebrei e alle popolazioni colonizzate, altri gruppi umani considerati «devianti»: omosessuali, prostitute, «zingari». Un ruolo importante avevano i documenti d’archivio, tra cui un inedito di grande rilevanza storica trovato da Rossella Ropa nell’Archivio centrale dello Stato: l’annuncio del Capo della polizia per la «concentrazione» degli ebrei dai 18 ai 30 anni in «tre o quattro zone di assorbimento», del 17 giugno 1943. Dunque, prima della caduta del Fascismo e della deportazione effettuata dalla Repubblica Sociale italiana.Â
La mostra aveva un’unica cifra interpretativa che derivava da un approccio interdisciplinare (la composizione stessa del gruppo) e dal lavoro enorme svolto sia sul piano della concettualizzazione sia della ricerca empirica. In altri termini, lo studio delle rappresentazioni, delle idee e dei «testi» aveva incrociato lo studio (d’archivio) del funzionamento concreto degli apparati amministrativi. Il gruppo lavorò come collettivo di ricerca con risultati eccezionali per l’epoca, poiché riuscì a trasmettere con chiarezza, sintesi ed efficacia mai raggiunta prima i seguenti due assunti: il razzismo era un fenomeno unitario che si articolava attraverso stereotipi e dispositivi amministrativi, tutti tesi, alla «inferiorizzazione» dei gruppi umani. Benché una parte della storiografia così come l’autorappresentazione autocompiaciuta degli italiani lo negassero, il razzismo non era stato importato dalla Germania nazista con le leggi del 1938. Esisteva, piuttosto, una radicata tradizione italiana. Di essa gli autori vedevano l’inquietante persistenza nel tempo fino all’Italia di Fini, Bossi e Berlusconi, sintomi di una cultura estesa e tenace. È utile ricordare che Renzo De Felice - al contempo storico del Fascismo e intellettuale pubblico consacrato dalle destre - nell’introduzione alla nuova edizione della sua Storia degli ebrei sotto il Fascismo (1962), pubblicata nel 1988, negava l'esistenza di una tale tradizione. A scanso di equivoci, però, tale tradizione era irriducibile alle linee di frattura del campo politico moderno, tra destra e sinistra. Nel senso che si può parlare di razzismo da una parte e antirazzismo dall’altra. Si trattava, piuttosto, di una radice tossica rizomatica che aveva attraversato tutto il campo della modernità [13].
Con tali caratteristiche, la mostra innescò subito una fitta discussione che coinvolse gran parte della stampa periodica e quotidiana: «Panorama», «la Repubblica», «la Stampa», «l’Unità », «l’Avvenire», «il Popolo», «l’Unione sarda», «il Resto del carlino», «il Messaggero», «il manifesto», «il sole 24 ore». Ad essa partecipò anche Renzo De Felice, evidentemente uno dei punti di riferimento polemici del gruppo organizzatore[14]. Non solo. Rai tre, Rete 7 e Telecentro-Telesanterno inviarono le proprie troupe per dei servizi televisivi. La risonanza e il successo di partecipazione durante le date bolognesi indussero gli autori e l’Istituto per i beni culturali a realizzare una versione della mostra più leggera in modo da farla viaggiare oltre Bologna. D’altronde, fin dall’inizio la forma esposizione era stata scelta proprio per non parlare soltanto alla «cultura alta» o alla ristretta cerchia degli specialisti, ma per avere un impatto più ampio sulla cultura di massa. Tra il 1995 e il 2003 La menzogna della razza fu richiesta da scuole, associazioni e Comuni di ben trenta città diverse. Undici anni dopo l’inaugurazione, Riccardo Bonavita, Gianluca Gabrielli e Rossella Ropa aggiornarono i pannelli, sempre con il sostegno dell’Istituto per i beni culturali. Allestita ancora una volta a Bologna nel palazzo dell’Archiginnasio dal 27 gennaio al 26 febbraio 2005, la mostra ebbe nuova vita col titolo L’offesa della razza, continuando a diffondere per l’Italia fino al 2013 gli stessi contenuti e la stessa sensibilità antirazzista e antifascista[15].
La menzogna della razza fu un «evento» che, affondando nel passato, parlava al futuro con il marchio del suo tempo. Sollecitava non solo i saperi specialistici, ma la società nel suo insieme, a ripercorrere genealogicamente gli strati del rimosso per affrontare il mondo globale che avanzava. Sarebbe ingiusto disconoscere il lavoro che alcune e alcuni hanno svolto in Italia nel periodo che ci separa da quell’«evento». Inoltre, si è accumulata nel frattempo una letteratura internazionale e interdisciplinare di grande interesse. Tuttavia, basta prestare ascolto al discorso pubblico e politico stricto sensu per rendersi conto di quanto impegno occorra ancora e degli ostacoli da rimuovere.
A distanza di diversi anni, Riccardo Bonavita, dopo aver scoperto la potenza dello strutturalismo genetico di Pierre Bourdieu[16], annotava che la «razza», pur inesistente «come dato naturale e oggettivo», sopravviveva nelle teste come costruzione sociale – si rilegga l’epigrafe di Scajola in apertura – ed era funzionale alla persistenza di rapporti di potere:
«La razza è una costruzione sociale che giustifica o legittima o accompagna una serie di rapporti sociali, tendenzialmente asimmetrici. Quindi in senso stretto non esiste, non esiste come dato in sé, naturale, oggettivo, ecc. ma contemporaneamente ha la potenza di orientare modi di sentire, di essere, di percepire, di immaginare, di agire: come la classe, o il genere. Negare q[ue]s[t]a sua esistenza sociale e studiare i rapporti interpersonali come se fosse indifferente (anche volendo essere antirazzisti, vale a dire facendo finta che non ci sia quella ineguaglianza socialmente e culturalmente determinata che si vuole abbattere) è come negare l’esistenza di un tempo atmosferico (pioggia e vento forte, o grandine, o neve, o canicola) e studiare le smorfie di chi ne soffre le conseguenze come se esistessero di per sé, fossero autocausali»[17].
 Ecco, con questa idea della razza i conti non sono finiti. E allora, decostruire criticamente le culture e discorsi, rimontare diversamente l’intera società che produce e riproduce le condizioni di esistenza delle culture e dei discorsi (razzisti) resta un compito che abbiamo ancora davanti.
Note
[1]Â Grazie a: Giuliana Benvenuti, David Bidussa, Giorgio Fabre, Gianluca Gabrielli, Daniele Giglioli, Luigi Lollini, Saverio Marchignoli, Giovanni Serpe.
[2] Centro Furio Jesi, La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994.
[3] Con Marchignoli e Raspanti c’erano anche Cristiana Natali, Luciano Lagazzi, Gian Andrea Franchi.
[4] S. Marchignoli, Intervista realizzata da Andrea Rapini, Bologna, 18/3/2024.
[5] Manifestazione Antirazzista 27-01-1990, Videogiornale; Fondo la Pantera Archivio «Marco Pezzi», Bologna.
[6] G. Gabrielli, Intervista realizzata da Andrea Rapini, Bologna, 27/2/2024.
[7] D. Giglioli, Intervista realizzata da Andrea Rapini, Milano, 13/3/2024; L. Lollini, Intervista realizzata da Andrea Rapini, Bologna, 5/3/2024.
[8] R. Bonavita, L'anima e la storia: struttura delle raccolte poetiche e rapporto con la storia in Franco Fortini, a cura di Thomas Mazzucco, Biblion, Milano 2017.
[9]Â Al gruppo si unirono Tania Krott e Meri Fornero che realizzarono una parte delle schede illustrative.
[10] Centro Furio Jesi, La menzogna della razza, cit.
[11] I partecipanti degli incontri furono: Zygmut Bauman, David Bidussa, Alberto Burgio, Paolo Chiozzi, Luigi Goglia, Valerio Marchetti, Giovanni Miccoli, Liliana Picciotto Fargion, Michele Sarfatti. La mostra ebbe anche il sostegno dell’Istituto storico della Resistenza dell’Emilia-Romagna e, personalmente, di Enzo Collotti con consigli e una piena condivisione degli intenti. Il prezioso catalogo con la grafica di Andrea Rauch ospitò anche saggi di R. Bonavita, D. Bidussa, P. Chiozzi, E. Collotti, G. Dall’Orto, L. Goglia, A. Mignemi, G. Nisticò, N.S. Onofri, P. Pallottino, L. Picciotto Fargion, M. Raspanti (CFR. Centro Furio Jesi La menzogna della razza, cit.).
[12] F. Fortini, Complicità , 1955.
[13] A. Burgio, Critica della ragione razzista, DeriveApprodi, Roma 2020.
[14] G. Fabre, Razzisti d’Italia, «Panorama», 30 settembre 1994, pp. 155-156; P. Chessa, Lager nostrum, «Panorama», 14 ottobre 1994, pp. 57-59.
[15] R. Bonavita - G. Gabrielli - R. Ropa, a cura di, L’offesa della razza, Patron, Bologna 2005.
[16] J. L. Fabiani, Pierre Bourdieu. Un structuralisme héroïque, Seuil, Paris 2006.
[17] R. Bonavita, Spettri dell'altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea, a cura di G. Benvenuti - C. Facchini - M. Nani, il Mulino, Bologna 2011, pp. 468-469 (ed. elettronica).
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Andrea Rapini è professore di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha dedicato i suoi studi alla storia e alla memoria dell’antifascismo, al movimento operaio e sindacale, alla storia dei saperi.
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