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Strobosfere (I)



Un racconto in due parti (la seconda l'1 settembre) dentro le notti, lunghe e trasgressive, della riviera romagnola negli anni Ottanta. Uno spaccato di costume per la «cartografia dei decenni smarriti».



* * *


Dedicato alla 3°B del Liceo Giulio Cesare di Rimini, quella del 1982.


D’estate noi popoliamo le notti.

Sfolgoriamo lungo cento chilometri di riviera e raccogliamo l’azzurro rarefatto dal mare. Vorticando sotto i cieli lattiginosi delle città e i firmamenti bui di campeggi e paesi, scambiamo la notte con il giorno. Appese ad arcate di marmo, a soffitti di cemento, a oblique lamiere di capannoni, intercettiamo scintille di buio e le rifrangiamo in un caleidoscopio di colori che luccica per ogni dove. Agganciate a un lampione spento come fossimo sospese in cielo, rubiamo perfino l’argento lunare dall’acqua.

D’estate, per merito nostro, mille e mille persone sudate e affannate, con abiti brillanti di paillettes e capelli cotonati, appaiono l’un l’altra come istantanee frammentate accompagnate da bassi pulsanti e ritmiche travolgenti. Nell’atmosfera elettrica le nostre luci si snodano al battito sincopato della musica, le figure appaiono e scompaiono come fantasmi emersi dal nulla e inghiottiti dalla penombra. L’euforia del presente sprizza da bocche spalancate a bere l’attimo, coscienze ipnotizzate cercano la continuità nel fragore che fa tremare il suolo. Di braccia sollevate e intrecciate, di corpi che si arrotolano, di fianchi che curvano sinuosi e passi cadenzati restano solo pezzetti diseguali di un puzzle inarrivabile.

Qualcuno, tra quei mille, tenta di ricomporre il movimento come se bastasse più energia per sfidare le leggi del nostro mondo, ma la pulsazione è abbagliante e vanifica ogni sforzo. Cade l’illusione di distinguersi nel gioco di luci ed ombre e rimane la solitudine brillante di ogni ritaglio.

Scampoli di persistenza, tuttavia, li regaliamo al confine del nostro orizzonte vibrante, dove la pista da ballo lascia spazio al bancone del bar. Mentre il barista con gli occhi cerchiati da eyeliner nero mesce Cuba Libre e spilla birre, noi riflettiamo chiacchiere e gesti nelle schegge specchiate delle nostre superfici.

I ragazzi portano camicie aderenti viola, azzurre e bianche aperte sul petto, il più basso ha copiato la capigliatura da Prince e mostra il suo game boy con le pupille dilatate per l’esaltazione, quello grosso che sembra un giocatore di rugby si china sul piccolo display monocromo, il terzo è uno spilungone distratto con l’aria da poeta maledetto.

Mio padre, dice a voce alta il primo, me l’ha portato dal Giappone e poi non vuole che io ci giochi, sono un fannullone e un perditempo secondo lui.

E tu che fai? Urla il secondo alzando la testa dalla contemplazione della scatoletta grigia e mostrando un naso lungo che scende in picchiata, ha la faccia talmente lucida di sudore che potremmo specchiarci nelle sue guance.

Me ne fotto, ecco che faccio. Sempre a rompere con la storia del nonno, della fame e della guerra. È il loro tempo non il mio, io voglio scopare e divertirmi visto che posso farlo, non sei d’accordo? Io? Io di sicuro, e tu? Il giocatore di rugby si rivolge al compagno distratto, ma siccome i maschi non possono sospirare, questo si limita ad espirare con espressività mentre grida: la vita è senza senso.

Alleluia! Esclama il primo infilandosi a fatica il game boy nella tasca posteriore dei jeans già stretti. Allora brindiamo compagni, al grande nulla che avanza!

I boccali sbattono tra di loro, la schiuma della birra si agita e poi si dissolve nei pochi attimi di gioia condivisa sull’orlo dell’abisso che, ma non ora e non qui, li scruterà.

All’altro estremo del bancone ci sono delle ragazze. Seguono il brindisi e poi puntano lo sguardo sul turgore del cavallo dei pantaloni dei tre maschi. I loro genitali, schiacciati e compressi al limite della tortura, sembrano in procinto di estrudere come Alien dallo stomaco di Kane.

Anche una di loro indossa Levi’s attillatissimi, la cintura sfoggia borchie rosa di dimensioni femminili mentre l’acconciatura a boccoli soffici sfida virilmente il campo gravitazionale. Le altre due sono in leggins color fucsia e t-short con buchi alla moda, la più bassa di statura ha i capelli sciolti che arrivano fino alla vita.

Quest’ultima sorride alle amiche per schermirsi in anticipo e poi annuncia: il mio ragazzo mi ha appena regalato un tamagotchi.

Che dolce! Risponde quella in jeans. Il mio ragazzo, invece, mi ha lasciato ieri perché ho deciso di andare all’università.

La bocca della prima si schiude in un grande O mentre l’altra continua: e pensate che gli avevo regalato un walkman Sony e registrato una cassetta con le nostre canzoni preferite. Mi ha detto che ero crudele ed egoista.

La terza interviene con una smorfia che fa brillare la polvere di glitter che ha sul volto e sui riccioli cascanti: ne troverai un altro vedrai, e magari proprio all’università. Brindiamo a questo!

Alzano i bicchieri colmi e li sbattono, un po’ di liquido scuro cola sui polsi di tutte e tre a suggellare un patto che la prima ragazza però, in cuor suo, non condivide: è meglio tenersi l’amore quando capita perché non è detto, poi, che quel treno passi una seconda volta.

Per noi la questione nemmeno si pone. Nel nostro mondo circolare lo stesso treno torna e ritorna sempre. Tuttavia concordiamo con l’idea che ciò che può succedere in ogni momento è imprevedibile tanto quanto il prossimo frammento di luce o di ombra.

Il dj sceglie una hit, anche se ha qualche anno è perfetta. In realtà andrà bene ancora per tutti i tempi dei tempi, ma lui non può saperlo. E infatti quella musica spinge le fanciulle a svuotare i bicchieri e a precipitarsi in pista saltando con le mani in alto, mentre da Trieste in giù l’amore si concede il tour della penisola.

La ragazza coi jeans lascia il gruppetto e con passi sicuri si mescola agli altri ballerini. Invece di sfidarci danza con noi, si fa avvolgere dal nostro sfavillio concentrandosi su ogni scheggia che le regaliamo istante dopo istante: ecco un sussurro di passione nei flash sincronizzati tra la ragazza coi glitter e quello con le spalle da giocatore, ecco lo sguardo dello spilungone rivolto al seno ballonzolante della sua amica coi capelli lunghi. L’espressione di lui è famelica mentre oscilla al ritmo della musica con i pollici infilati dentro i passanti della cintura, l’amico con il game boy, invece, lo osserva con una smorfia dolorosa. È una sfumatura d’emozione che lei non riesce a decifrare in quel contesto festoso, ma un momento dopo l’ha già dimenticata. Nell’ultimo bagliore a bordo pista si è stagliata la sagoma dell’uomo più bello del mondo. Alto, giubbetto di pelle nera, mascella volitiva e occhiali a specchio sotto i quali lo sguardo si intuisce misterioso e affascinante. Il cuore di lei ha un sussulto, altro che quel tappo del suo recentissimo e ingrato ex. Vorrebbe catturare l’attenzione delle altre due per indicarlo, ma una è in trance con l’ovetto giapponese stretto tra le mani e l’altra sta spalmando i suoi glitter sui bicipiti del rugbista. L’uomo bello si toglie i rayban e noi cogliamo quell’attimo decisivo per illuminare con lampi taglienti i suoi occhi all’ingiù, l’espressione imita un piagnisteo perenne. La ragazza coi Levis risucchia il suo afflato di eccitazione, si distrae dal bordo pista e si slancia al centro di un flusso immoto di corpi che si dimenano.

Le apparenze sempre ingannano e quindi non si può attribuire a noi, isotrope ed equanimi in essenza, nessuna preferenza o scelta mefistofelica nell’indirizzare i lampi di luce solo perché siamo centro, confine e uniche divinità di un mondo vibrante ed elettrizzante. Solo perché nelle notti d’estate affettiamo le mille maschere, un balenio di luce via l’altro e intrappoliamo la fugace intensità di ogni momento sulla nostra molteplice superficie.

Il ragazzo col game boy è ora al limite dello spazio illuminato dalle nostre circonferenze sfavillanti, là dove tavolini e sedie sono disposti con sapiente strategia per intercettare le ombre. La musica batte al ritmo dei cuori nel petto, diventa materia che scotta, seduce i corpi e li attrae con forza l’un l’altro. Lui trascina con sé il suo patimento nascosto, che lo divora senza una spiegazione, vaga senza meta ed è allora che lo coglie impreparato una delle nostre brillanti sciabolate al buio. Per qualche istante stenta a credere ai suoi occhi: la coppia appartata nel ciglio più oscuro è fatta dalla cara amica di sua madre e da un’altra donna. Si ritrae di colpo temendo di essere individuato e si allontana in preda all’agitazione cercando i suoi amici. Il rugbista ha i glitter sulla lingua e la ragazza avvinghiata alle sue cosce grandi come copertoni, lo spilungone è tornato al bar e ha ripreso la sua espressione baudelairiana. Traversando fasci di luce e ombra il primo ragazzo lo raggiunge e si mette a gesticolare.

C’è l’amica di mia madre, quella che tutti dicono che tradisce il marito, è con una donna e si baciavano! È pazzesco! Cosa ci fa qui?

L’amico lo guarda e ridacchia: sarà venuta in disco per non farsi beccare.

Ma io l’ho vista, e l’ho vista anche oggi pomeriggio, do lezioni al suo figlio piccolo. Ho paura che mi abbia riconosciuto.

E allora? È lei che si deve nascondere, mica tu. Dai, fammele vedere, non voglio perdermi lo spettacolo.

Ma lui non muove un passo, con una mano si schiaccia i capelli cotonati. Adesso, qui, la cognizione dei suoi sentimenti inespressi lo colpisce alla bocca dello stomaco mentre l’arcobaleno delle nostre giravolte accarezza il volto del suo amico spilungone che insiste: eddai, andiamo? Che ti prende? Mica ti devi vergognare tu!

E invece la vergogna gli taglia le gambe e più l’altro lo sfotte più si sente male. Si rivede mentre prende dalle mani dell’amica di sua madre i soldi della lezione, poco prima, e si sente anche peggio.

L’amico con l’aria da poeta maledetto si disinteressa di lui, torna a dondolare con le mani infilate nelle tasche accanto alla ragazza bassa coi capelli lunghi che la fanno sembrare ancora più bassa. Per parlarle all’orecchio si deve chinare molto, deve piegare le sue gambe lunghe, ora tocca a lei ridacchiare, chissà cosa le racconta. Ma è facile da immaginare.

Grazie a noi che d’estate popoliamo le notti diventando sole e luna, fulcro emotivo e motore immobile di mille luci e suoni, la realtà palpita a intermittenza, rallenta e si ferma.

Si è fermata su quel bacio proibito.

Il ragazzo col game boy sa che l’ha sempre saputo. Lui è come l’amica di sua madre, lui è innamorato dello spilungone che adesso toglie le mani dalle tasche e stringe i fianchi della ragazza in un’azione frammentata in istantanee strazianti ma deliziose.

La ragazza coi Levis è uscita dal flusso dei corpi frenetici, cerca brandelli di immagini delle amiche nella confusione luminosa e incrocia lo sguardo del ragazzo col game boy. Lui ha un buco nel petto, se lo è scavato da solo quando le mani del suo amico spilungone si sono mosse sulle natiche della ragazza bassa. Lei rivede in lui qualcosa del suo ex e la colpisce di nuovo quella smorfia dolorosa. Noi diminuiamo la velocità di rotazione per rifulgere argentate e concordi alle note di moonlight shadow. Il ragazzo col game boy invita la ragazza coi Levis per un lento, quando lei si appoggia alle sue spalle è attraversato da un calore, lei ha un brivido per l’erezione che la sfiora. Eros, denso e ingestibile eccesso di affetto, è sempre e solo un attimo, effervescente e fugace, solo qui e solo ora.

Fine parte 1.


* * *


Angelica De Palo, astrofisica e scrittrice di fantascienza, ha pubblicato come Vanessa West Lesbismo e meccanica quantistica (StreetLib 2018) e La natura corregge i propri errori (delos.digital 2023). Per Machina ha curato la rassegna «Le Guardiane della galassia».

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