top of page

Space Invaders: «corpi dissonanti» nei luoghi del potere. Una conversazione con Nirmal Puwar



Nel 2004 viene pubblicato Space Invaders: Race, Gender and Bodies Out of Place della sociologa femminista Nirmal Puwar, docente al Goldsmiths College dell’Università di Londra[1]. Nel testo – originariamente la sua tesi di dottorato – l’autrice mette in discussione la presunta neutralità dei luoghi di potere, a partire da uno studio sulla presenza di corpi non-bianchi e non-di sesso maschile all’interno di luoghi istituzionali come il parlamento inglese, il mondo dell’arte e l’università.

Il nostro incontro con Nirmal è avvenuto lo stesso anno. All’epoca avevamo circa trent’anni e facevamo parte del collettivo femminista Sconvegno[2]. Con base a Milano, partecipavamo a incontri di reti nazionali e transnazionali. In una di queste occasioni, all’Università di Dublino, abbiamo conosciuto Nirmal, in un’assemblea di cui facevano parte anche Chandra Talpede Mohanty e moltə altri attivistə e studiosə della rete NextGenderation[3]. Ci siamo incontrate ancora, sempre nel 2004, a Londra in occasione del Social Forum e abbiamo poi lavorato, insieme ad altre, alla cura di un numero speciale della rivista «Feminist Review» dedicata ai femminismi italiani[4].

Nel marzo del 2005, come Sconvegno abbiamo co-organizzato la presentazione di Space Invaders alla Casa della Cultura di Milano. Per l’Italia di allora, parlare di corpi «razzializzati» o «genderizzati» nelle istituzioni era raro, un tema relativamente poco sviluppato al tempo. L’Italia di vent’anni fa era lontana anni luce dall’Inghilterra in termini di presenza di persone con background migratori nelle scuole, nelle istituzioni e, ancora meno, nelle posizioni di potere. Era lontana anche in termini di diversity all’interno del mondo e del dibattito accademico.

Per noi Nirmal è stata – con il suo libro e la sua esperienza soggettiva – una space revealer: una rivelatrice dello spazio, del suo funzionamento e delle dinamiche di potere che lo attraversano. Ci ha mostrato che esiste una stretta connessione tra corpi e spazi che viene costruita, ripetuta e contestata in continuazione. Formalmente donne e «minoranze» hanno accesso a posizioni da cui erano precedentemente escluse. Nella pratica, gli spazi sociali non sono neutri e aperti a essere occupati da qualsiasi corpo. Mentre in teoria chiunque può entrare, sono solamente alcuni corpi ad essere tacitamente designati come gli occupanti naturali di posizioni specifiche. Alcuni corpi sono quindi considerati titolari del diritto di appartenenza, mentre altri sono marcati come trasgressori e – secondo i criteri con cui spazi e corpi sono immaginati (politicamente, storicamente e concettualmente) – vengono identificati come fuori posto (out of place). Nel momento in cui «corpi dissonanti», come li definisce Nirmal, arrivano ad occupare posizioni che non erano state pensate per loro, sono considerati come degli intrusi, degli space invaders, perché non corrispondono alla «norma somatica» (bianca, maschile ed eterosessuale). La loro semplice presenza sfida confini ancestrali. Interrogare il paradosso della crescente vicinanza di corpi finora considerati «esterni e dissonanti» con «corpi interni e appropriati» rivela il sistema di valori e le gerarchie implicite nelle istituzioni, permettendo di vedere una serie meno ovvia e sfumata di meccanismi di esclusione.

A livello teorico, Space Invaders ha rappresentato un punto di riferimento importante in un dibattito che vediamo oggi prendere forma e crescere anche in Italia. Viene citato, per esempio, da Caterina Romeo in Riscrivere la nazione. La letteratura italiana post-coloniale (2018) e da Rachele Borghi in Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema mondo (2020). Lo troviamo nel volume a cura di Alessandra Cianelli e Beatrice Ferrara, Postcolonial Matters. Tra gesti politici e scritture poetiche (2021) e nel libro da noi curato insieme a Gaia Giuliani per ombre corte L’amore ai tempi dello Tsunami. Affetti, sessualità e modelli di genere in mutamento (2014). Questi sono solo alcuni esempi, ma sappiamo che il libro ha viaggiato e prodotto effetti nella riflessione teorica e politica anche in Italia.

Nel luglio del 2022, il Centro Studi su Genere e Sessualità della City University of London ha organizzato un seminario di celebrazione del diciottesimo anniversario dalla pubblicazione[5]. Hanno partecipato studiosə e attivistə, tra cui anche noi, per contestualizzare il libro alla luce di un contemporaneo apparentemente più diversificato ma anche di forme di discorso pubblico e politiche sociali sempre più aggressive ed escludenti. Ci si è chiesti se il contesto culturale sia veramente cambiato e in che modo. È stato uno scambio ricco e denso di spunti da diverse prospettive che evidenzia quanto i contenuti del libro siano ancora vitali nel dibattito di diverse discipline: dalle scienze politiche alla geografia, dagli studi di genere a quelli sui social media. Abbiamo quindi accettato con entusiasmo l’invito di dare seguito al nostro intervento in quel seminario per riflettere sull’attualità di Space Invaders per «Machina». Abbiamo pensato ad alcune domande su cui confrontarci con Nirmal Puwar in una libera conversazione[6] a partire dai contesti più vicini a noi, quello inglese e quello italiano.


* * *


Manuela Galetto: In questo diciottesimo compleanno di SpaceInvaders, ci guardiamo intorno e dobbiamo riconoscere che, rispetto al 2004, c’è una sempre maggiore presenza nella vita pubblica di persone un tempo considerate «invasori», corpi tradizionalmente esclusi, che ora occupano posizioni di reale potere. Questo vale sia per l’Inghilterra, che per l’Italia, seppur in misura diversa. Pensiamo per esempio all’attuale primo ministro britannico Rishi Sunak, a membri del suo eterogeneo governo (prima Priti Patele Kwasi Kwarteng, poi Suella Braverman[7]). In Italia per la prima volta abbiamo un Primo Ministro donna, Giorgia Meloni. Allo stesso tempo, non possiamo non avvertire uno scarto tra un’inclusione che ci sembra retorica se accostata a una realtà altrettanto evidente, sia nella vita pubblica che privata, di atteggiamenti molto aggressivi, misogini e razzisti, di intolleranza nei confronti di minoranze, sia in Inghilterra che in Italia. Vorremmo quindi discutere con te, Nirmal, proprio di questo, ovvero: fino a che punto questa diversità pubblica può essere interpretata come un dato di uguaglianza e inclusione raggiunte?


Nirmal Puwar: Questa è una domanda chiave, credo, perché, come dici, i numeri e i dati demografici sono cambiati ed è una sorpresa avere un Primo Ministro asiatico. Ci sono state molte battute condivise sui social media tra asiatici e neri, del tipo: «Incredibile! Abbiamo un primo ministro asiatico in questo governo coloniale britannico!». Dobbiamo però anche tenere presente i percorsi di queste persone. I genitori di Rishi Sunak erano immigrati ma lui ha avuto un’educazione molto, molto inglese (il Winchester College prima, l’Università di Oxford poi, un master a Stanford e così via). È anche molto ricco e ha sposato una persona a sua volta molto ricca. Credo, tuttavia, che l'aspetto davvero interessante rispetto a Rishi Sunak sia il suo essere visto soprattutto come economista. È accettato sì ma come specialista, anche se poi tutti si lamentano proprio di questo. Non ha la gravitas, quell'autorità più complessiva che per esempio veniva percepita in Boris Johnson. Questo è interessante perché di solito quando entrano degli outsider, soprattutto outsider razzializzati, lo fanno come specialisti di un campo piuttosto che come universalisti o generalisti, e credo questo sia «il problema». Lo si vede quando ci sono certi commenti che hanno a che fare con il suo corpo. Ovviamente non nutro simpatie verso Rishi Sunak, sto solo analizzando il caso. Quando è entrato in Parlamento, hanno detto subito «è troppo basso», e ora dicono che «si sta accartocciando», che «si sta preparando al disastro». C'è quindi una sorta di linguaggio somatico nel modo in cui viene apostrofato; questo sia da sinistra che da destra. È sempre interessante vedere il modo in cui anche la sinistra attacca la destra, quando questa mette in campo una differenza.

Ora, l'altra cosa da notare, se parliamo di razza, genere, classe, è che abbiamo anche due donne asiatiche, Priti Patel prima e Suella Braverman poi - entrambe di famiglie di origini asiatiche - che hanno proposto leggi fortemente anti-immigrazione. Penso che la differenza che incarnano diventi una risorsa per la politica di destra: la fa apparire più umana di quanto sia in realtà. La diversità di cui sono espressione viene catturata e usata come arma, cioè: essendo loro stesse non bianche, il messaggio viene amplificato, anche se le politiche sono le stesse portate avanti da ministri degli interni bianchi. Priti Patel, appena entrata nel governo, si è mostrata follemente anti-immigrazione: «Sono Priti Patel, i rifugiati mandateli in Ruanda», diceva. È come se, per esistere nella politica di destra, si dovesse rivendicare, anzi rafforzare, il linguaggio della destra stessa. Nel libro Space Invaders uso la parola amplificazione in modo diverso, riferendomi all'amplificazione dei corpi, mentre questa è un'amplificazione delle politiche: politiche di destra da parte di «corpi dissonanti» per poter rivendicare la legittimità della propria presenza in quella posizione. Sono così preoccupati di venire espulsi, di essere visti come antipatriottici e sleali verso la nazione, che usano queste carte per rivendicare quel posto che temono altrimenti possa essere loro tolto in ogni momento.

La corsa alla leadership del partito Tory dell’estate 2022 è stata incredibilmente ricca di figure con background etnici diversi ma, se si guardano i loro video promozionali, la cosa interessante è che molti hanno sì fatto riferimento alla loro storia di migrazione ma in una chiave retorica che esaltava la «fantastica Gran Bretagna». Non hanno fatto riferimenti all'Impero o, se lo hanno fatto, non era certo nei termini dell’atto di violenza. La vedono come una storia di meritocrazia nella nazione. Sono così patriottici che si farebbero avvolgere nella Union Jack, e in tutto ciò che rappresenta. Quindi è davvero curioso il modo in cui vengono espresse queste posizioni; ma non se ne può fare una lettura automatica, bisogna essere molto specifici dal punto di vista culturale, osservando ciò che sta accadendo. Mi è sembrato significativo il modo in cui Rishi Sunak ha vissuto il Diwali, il festival indù delle Luci: ha acceso le candele fuori dalla residenza ufficiale del Primo Ministro, al 10 di Downing Street. Un atto che si può considerare multiculturale. Sunak si è da subito presentato come un politico multiculturale ma penso sia in atto un tentativo di appropriarsi della bandiera multiculturale. C’è un doppio meccanismo: una rivendicazione del diritto di essere parte della Union Jack e dell’essere portatori di una specifica bandiera multiculturale. Quindi, pensando alla realtà attuale – se la domanda iniziale era se questo rappresenti una svolta o meno – penso che sì, la realtà sta cambiando con l'arrivo di questi corpi ma questo non significa che stia diventando più progressista in termini di politica. È una realtà molto disomogenea. Ecco perché non si può mai dare per scontato che un corpo dai tratti somatici diversi dalla norma, così come corpi di genere diverso, portino con sé una politica particolare. Sappiamo che non è così sin dai tempi di Margaret Thatcher.

Ma ora ho io una domanda per voi: pare che Giorgia Meloni abbia detto di sentire il peso di essere la prima donna Primo Ministro in Italia e, in un articolo che ho letto sul «Guardian»[8], sostiene di ispirarsi a figure femministe del passato in Italia, alcune delle quali sono di sinistra e lei le rivendica come parte della sua eredità di donna al potere. Come la vedete?


Chiara Martucci: Sicuramente Giorgia Meloni è, come Margaret Thatcher, una donna con una visione del mondo tutta interna alla cultura patriarcale ma è anche una donna capace di comando, ha convinzioni forti e mostra aggressività nel contrastare i nemici politici. Pur non condividendo affatto le sue posizioni, credo che la sua figura sia molto ambivalente. Per prima cosa è un’attivista, una che viene dalle piazze e dalla politica praticata sin da giovanissima. È di estrazione popolare ed è cresciuta in un quartiere periferico di Roma, è – come lei stessa si definisce – una underdog. È più preparata e intelligente della maggioranza dei politici suoi colleghi e in molte occasioni ha dimostrato coerenza e autonomia di pensiero. La sua grinta e tenacia hanno avuto il sopravvento sui leader di sesso maschile, in evidente crisi di credibilità, specie nel periodo post pandemico. Sia in campagna elettorale, che più in generale nella sua carriera politica il fatto di essere una donna ha contato. Nel famoso discorso in cui ha affermato: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana, sono italiana» incarna e si fa paladina dei valori tradizionali «dio, patria, famiglia» ma allo stesso tempo è stata, fino a poco tempo fa, l'unica Segretaria di un partito politico italiano. Conosce molto bene onori e oneri di essere la prima donna a ricoprire un ruolo tradizionalmente riservato all’altro sesso. Credo non voglia essere definita Prima Ministra perché – come dicevi parlando di Rishi Sunak – non vuole sentirsi rappresentante di una parzialità, di una specificità, ma aspira ad essere una figura di leadership universale. Immagino che sia vero che sente il peso delle aspettative di essere la prima donna Primo Ministro in Italia e che si ispiri a figure femminili del passato, anche se di posizioni politiche diverse dalle sue. Resta che non è una femminista, perché incarna un modello di leadership individualista e non ha legami politici con altre donne, come dice Giorgia Serughetti[9]. O, come sintetizza brillantemente Barbara Leda Kenny: «Meloni rappresenta il successo di Una Sola: in termini di possibilità, non sposta molto nella vita delle altre»[10].

NP: Mi chiedo come sia il suo rapporto con gli uomini. Ricordo che quando ho intervistato una delle donne conservatrici in Parlamento mi ha detto: «Questi uomini conoscono le donne come balie, nonne e gonne» (grannies, nannies and fannies). Questi ruoli influenzano ciò che gli uomini rispettano in una donna. Alcuni di loro rispettavano Margaret Thatcher perché era come una madre che li rimproverava, diceva loro di comportarsi bene e si occupava del bilancio della casa, cioè del Paese. Quindi mi chiedo, nel caso di Meloni, se stia usando un qualche tipo di autorità materna o meno?

MG: In un certo senso sì. A questo proposito, ho trovato illuminante un articolo che Lea Melandri ha scritto quando Meloni stava per essere eletta[11]. Lea dice che: «per molti uomini vissuti all’ombra di madri spesso più forti e combattive dei padri, è una figura familiare che non sentono come competitiva, che non minaccia il loro potere perché dimostra di averlo assorbito senza alcuna critica o presa di distanza». Questo ha fatto sì che non fosse vista come minacciosa per il potere maschile. Giorgia Meloni piace anche alle donne, dice sempre Melandri, per ragioni diverse «di rivalsa e uscita dalla posizione di vittima». In generale però Meloni segue un copione ben noto e interiorizzato di ruoli di genere tradizionali e non minaccia i valori conservatori del suo partito, basati sulla famiglia e sul patriarcato. Anzi, li incarna e, essendo una donna, li difende ancora più efficacemente di quanto possa fare un uomo. Penso che abbia ragione Chiara sul fatto che Meloni sia una politica pura, che crede sinceramente nelle sue idee (destre), e questo è però un tipo di politica che non vuole avere nulla a che fare con questioni identitarie, che invece complicano, mettono in discussione e minacciano l’ordine costituito.

CM: Forse potremmo dire che le minoranze possono accedere a quei luoghi e ruoli da cui prima erano escluse proprio solo se sono nell’ambito di un partito estremamente tradizionalista che non mette in discussione lo status quo? In questo modo, come diceva Nirmal, legittimano le politiche più reazionarie ed escludenti – come le ministre britanniche di origine asiatica che vogliono cacciare gli immigrati. Probabilmente non avrebbero accesso al potere incarnando una diversità se non fossero già incastonate dentro uno schema pro-sistema, diciamo. Cosa ne pensi?

NP: Sì, sono d'accordo. Abbiamo una figura politica qui a Coventry, Zarah Sultana, che fa parte dell'ala sinistra del Partito Laburista, è la nostra deputata locale e racconta di ricevere molti attacchi. È una giovane donna radicale e socialista. Usa persino la parola «socialista» - che in Inghilterra è un po’ una parolaccia - ed è vittima di continui attacchi personali attraverso i social media e nei dibattiti pubblici. È stata fatta una ricerca, tempo fa, su come le donne «di colore» e di sinistra siano quelle più attaccate, in quanto minoranza assoluta. Ovvero, non puoi essere minoranza e di sinistra, quindi critica rispetto al sistema, se vuoi entrare nello spazio politico pubblico.

CM: In Space Invaders, nomini molto chiaramente alcuni fenomeni che si innescano nei confronti dei «corpi dissonanti»: disorientamento, amplificazione, infantilizzazione e super-controllo. Queste dinamiche si traducono, come hai detto, in un'attenzione incredibilmente dettagliata verso tutto quello che fanno e dicono e in un interesse quasi morboso nei confronti dei loro corpi. Un altro rischio che indichi è quello del tokenism: avere donne e minoranze solo per spuntare una casella. Un termine di origine americana che indica «quello sforzo minimale di sembrare inclusivi», come lo definisce ironicamente Nadeesha Uyangoda[12], spesso in un’ottica di pura autopromozione. Della serie: «sei qui perché così facciamo vedere che questi spazi non sono accessibili solo a maschi, bianchi, eterosessuali. Noi ci facciamo una bella figura e nessuno ci può dire niente». Vorremmo chiederti se ritieni che ci siano ancora queste dinamiche, e quali in particolare?

NP: Penso di sì, queste dinamiche ci sono ancora, e valgono anche per le persone di destra che sono «esterne» (outsiders), non conformi. Nel libro parlo di alcuni processi, il primo dei quali è il disorientamento: molti, cioè, sono sorpresi del fatto che ci sia questa persona «diversa» a ricoprire quel ruolo. Nel libro ho citato la storia di Winston Churchill quando racconta della prima donna che entrò in Parlamento e alla domanda di come si sentisse al riguardo, lui rispose: «Ero in imbarazzo come se fosse entrato qualcuno nel mio bagno mentre ero nudo e non avevo nemmeno un asciugamano con cui difendermi». Fa riflettere che con seicentocinquanta uomini in Parlamento, una donna provochi questo senso di minaccia! Oggi la situazione probabilmente non è così estrema, direi, ma come mi ha detto una delle persone che ho intervistato, con una certa anzianità in un ruolo ad alto livello, la gente, ancora, «ti guarda due volte». Davvero questa persona ricopre questo ruolo? Quindi penso che ci sia ancora un elemento di disorientamento e che le figure tradizionali si sentano un po' spiazzate. Churchill era estremo e la reazione che esprimeva era molto viscerale ma credo anche che ci sia ancora una reazione di pancia da parte della gente. E poi, naturalmente, c'è questa dinamica per cui i rappresentanti delle minoranze vengono infantilizzati, sembrano più giovani di quanto non siano in realtà, o sembrano portare questo «fardello del dubbio», che non possono farcela, la gente non è certa che siano davvero abbastanza competenti, rimane su di loro un grosso punto interrogativo. Ricordo che una donna deputata una volta mi disse: «Avremo l'uguaglianza quando le donne potranno permettersi di essere mediocri come gli uomini», perché quando gli outsider commettono un errore, si tende e dar loro addosso molto più che se fosse stato commesso da una figura «normativa». Se si pensa a tutti gli scandali di Boris Johnson o Trump, questi vengono semplicemente ignorati e dimenticati, i loro errori non vengono amplificati. Penso che ci sia ancora un elemento di questo tipo e non credo che Rishi Sunak durerà molto, perché continueranno a incolparlo per le politiche del partito ed è probabile che si producano attacchi feroci, quel tipo di linguaggio orribile e personalizzato che viene fuori molto rapidamente. È una figura maschile e già si sentono parole sul suo corpo. Come anche gli stereotipi sulle donne: Priti Patel, che viene chiamata «strega», «mostro»: il linguaggio che storicamente denigra le donne è ancora utilizzato in queste situazioni. Penso che chi rappresenta una minoranza subisca ancora oggi il peso del dubbio e l'onere di dover dimostrare di essere particolarmente fedeli, in questo caso, all'Inghilterra, altrimenti rischiano di trovarsi nuovamente in una posizione precaria o di debolezza. Non hanno ancora raggiunto lo status di coloro il cui ritratto si trova comunemente negli spazi pubblici e nei luoghi storici. Molte istituzioni dicono di volersi decolonizzare e hanno iniziato a guardare alle persone che le hanno frequentate, mettendo i loro ritratti sul muro, per commemorarle. Un esempio è l'Università di Oxford, dove Stuart Hall, il teorico di studi culturali di origine giamaicana, ha studiato con una borsa di studio intitolata a Cecil Rhodes, un colonialista in Sudafrica, la cui statua ad Oxford ha suscitato un grosso dibattito e, nel 2015 è stata, alla fine, rimossa. L’Università di Oxford, inoltre, ha aggiunto il ritratto di Stuart Hall accanto ai ritratti di altre celebrità bianche (soprattutto uomini, ma anche donne); un’operazione che, in realtà, non fa altro che cancellare il problema, anziché affrontarlo. Quando mi hanno invitata e mi hanno chiesto di parlarne, ho risposto: «Bene avere il ritratto ma perché non create un audio delle conferenze di Stuart Hall sull'Impero da mettere accanto all'immagine? Perché questo sarebbe davvero interessante». Cioè, non si tratta semplicemente di aggiungere il ritratto di un rappresentante di una minoranza a fianco di tutti gli altri. L’inclusione di Stuart Hall in questa collezione di grandi personaggi storici che hanno frequentato l’Università di Oxford avrebbe senso se, oltre all’immagine, si potesse accedere anche ai contenuti che la sua presenza ha portato. Stuart Hall modificherebbe ogni discorso sul significato di queste istituzioni, facendo emergere ciò che, fino a quel momento è stato coperto o, come avrebbe detto lui: «l’amnesia della violenza dell’Impero», quello che è stato dimenticato. Questo è un esempio di come differenze e inclusione vengono gestite e addomesticate. Quindi sì, credo che i processi come il tokenism siano ancora presenti ma assumono nuove forme. C'è un’espressione in uso, «optics of diversity» (l’illusione della diversità, diremmo in italiano). Nelle pubblicità di molte aziende, vediamo persone di colore, donne, eccetera utilizzate per promuovere un marchio aziendale ma, se si guarda all'interno di quelle aziende, chi occupa le posizioni di potere non sono certo queste persone. C'è un cambiamento nella grammatica visiva delle organizzazioni e delle istituzioni davvero molto evidente in Inghilterra.

CM: E questo ci porta direttamente alla prossima domanda. Riflettevamo infatti su un potenziale effetto di backlash dell’inclusione. Non c’è dubbio che genere, razza e orientamento sessuale costituiscano – insieme alla classe – categorie indispensabili nella comprensione delle dinamiche di potere e di discriminazione strutturale e istituzionale. Appena introdotte nel discorso accademico, però, una serie di parole e idee che vengono dalle lotte e dalla presa di parola delle soggettività marginalizzate, sembrano essere già state inglobate dal discorso dominante in modalità che creano dei cortocircuiti inaspettati. Analogamente, quando esponenti delle minoranze entrano nell’accademia o nella vita politica e culturale, vengono sussunti nelle logiche di potere e neutralizzate dal punto di vista del cambiamento che potrebbero portare. A livello sociale e di immaginari, da una parte, c’è – come dici tu, Nirmal – «l’illusione dell’inclusione» di certe categorie, attraverso la pubblicità, i film, il linguaggio politicamente corretto. Dall’altra, permane una diffusa forma di resistenza e fastidio, anche in ambienti che si definiscono progressisti, rispetto all'idea di dover cambiare (abitudini, toni, linguaggio, pratiche) per fare spazio a esperienze e sensibilità finora escluse. Il sottotesto stizzito di molte conversazioni su questo tema è: «Ma come, non gli basta essere entrati in questi luoghi? Adesso dobbiamo cambiare noi perché sono arrivati loro? C’è un limite a tutto!». Per venire alla domanda, ci e ti chiediamo: il contraccolpo è forse che l’inclusione delle minoranze avviene solo a costo della loro neutralizzazione?

NP: Sì, mi ricorda quando ho intervistato una femminista in parlamento chiedendole: «È impegnativo esistere qui?». E lei mi ha risposto: «Sì, la sfida è cambiare il luogo prima che il luogo cambi te». Quindi il tuo habitus cambia, le modalità di accettazione cambiano, perché tu sei lì. Questo mi rimanda all’esempio di Barak Obama. È arrivato con un programma di speranza che è poi stato neutralizzato a causa del modo in cui il sistema politico, e la sua stessa politica una volta entrato in quel luogo di potere, ha giustificato un discorso post-razziale: «Ok, abbiamo un presidente nero, quindi tutto può accadere qui. Non c'è discriminazione, tutto è possibile». E sì, concordo, le persone sono infastidite dalle pressioni del tipo «dobbiamo avere una donna» o si chiedono «perché questa persona queer deve stare qui?» Sono tutti elementi che puntano alle condizioni dell’inclusione e la domanda importante da porsi è: quali sono le condizioni di inclusione per chiunque? Solo perché sono madre, una persona «di colore» e perché sono arrivata in un dipartimento di sociologia come docente, non si può dire che altre persone possano farlo facilmente, perché io, insieme ad altre, ho determinate condizioni di inclusione. È forse la più grande conquista essere una docente donna «di colore»? Io non credo che lo sia. Per me non lo è. Per altri forse sì, perché così si raggiunge una certa diversità somatica nelle posizioni più alte. Lo capisco ma, allo stesso tempo, come hai detto tu Chiara, questo non significa che porteranno, o saranno in grado di portare, anche se lo vogliono, un cambiamento. E a volte le persone che ricoprono questi ruoli sono frustrate, con grosse conseguenze sulla loro salute mentale. È un po’ come essere all'interno della «doppia coscienza» di Du Bois[13], è un dilemma esistenziale, non per tutti, ma per alcuni lo è. Forse lo sapete – non è ancora stato pubblicato – ma sto lavorando, insieme a due ricercatrici, a un libro sui musei, sul genere e sulla razza e ho intervistato molte donne di colore in posizioni relativamente alte all’interno delle organizzazioni. Raccontano di questo continuo lavoro nel cercare di cambiare le cose, e del lavoro di gestire emotivamente gli altri, in modo da non apparire loro come troppo minacciose e questo lavoro è estenuante. Ovviamente è estenuante. Questo mi ricorda anche un altro esempio di «leadership alternativa». Una conoscente, Christine Eade, è a capo del ristorante-progetto chiamato Pod a Coventry, in cui viene sperimentato un approccio filosofico alla salute mentale, tramite l’impiego di persone che hanno problemi mentali in un ristorante a chilometro zero. È un progetto del Comune, ma Christine ci lavora con un approccio che lei chiama «leadership pirata», ovvero si impegna in quello che si potrebbe definire «attivismo silenzioso» (quiet activism). Quello che si intende è che anche all’interno di grandi organizzazioni burocratiche, come appunto un grosso Comune o i musei, con pratiche radicali di inclusione e progetti co-partecipati dai soggetti a cui sono rivolti, si può fare attivismo, silenzioso, dall’interno. Questo può essere molto efficace.

MG: Il quiet activism è una cosa che ho scoperto di recente, mi piace come concetto. All'inizio mi sembrava molto britannico, della serie: «Attivismo sì ma silenzioso, per non dare troppo fastidio!». Però ha a che fare, appunto, con le pratiche che agiamo nel quotidiano e, per esperienza, ne riconosco l’efficacia. All’interno della Business School dove lavoro, oltre che contrastare l’approccio maschilista e neoliberalista con l’attivismo sindacale, negli ultimi anni ho usato il privilegio di un posto fisso (per quel che vale, in Inghilterra) e le energie per costruire spazi di discussione in classe, che riconosco come sempre più preziosi e altrettanto appaganti. Un esempio viene da un nuovo corso che ho progettato in modo che sembrasse cool agli occhi del management (il titolo è Il lavoro nell’era digitale) e che sono riuscita a fare approvare. Da un paio d’anni, io e i miei studenti discutiamo in classe della natura estrattiva e sfruttatrice del capitale, cosa che all’interno di una Business School mainstream mi sembra già di per sé una forma di attivismo. Quando ne ho parlato a Chiara, lo ha definito un corso di «anticapitalismo occulto».

NP: Sì, è interessante perché non ci si concentra solo a sfidare continuamente le rigide gerarchie di potere e a negoziare qualche spazio in più per poter dire qualcosa di diverso, spesso senza riuscirci. Sfidare stanca. Per di più, al potere non interessano le tue sfide, non ti ascoltano. Quindi, cosa si fa? Si creano altri spazi. Tu hai creato un nuovo spazio attraverso il nuovo corso alla Business School, e - insieme agli studenti - lo fate crescere e gli date continuamente nuove forme. Si potrebbe dire che «mutate lo spazio».

MG: Beh, una piccola parte.

NP: È questo che ti fa andare avanti. È quello che faccio io. Non riesco a prendermi la briga di litigare con chi resiste al cambiamento tutto il tempo. Mi limito a creare qualcos'altro. Come hai fatto tu, si può mutare lo spazio che si occupa e crearne di nuovi.


* * *


Anche in questa occasione, Nirmal Puwar è per noi una space revealer: da un lato ci mette in guardia dal cadere in quello che Laurent Berlant definisce «ottimismo crudele»[14], ovvero un ottimismo affidato a una promessa irrealizzabile. In questo caso, che basti avere nuovi volti «somaticamente non conformi» per poter parlare di uguaglianza raggiunta. Una crescente presenza di persone con background differenti in posizioni di potere è sicuramente un fatto nuovo e importante, ma l’analisi non deve fermarsi al dato demografico. Occorre essere consapevoli del fatto che non è sufficiente che «corpi dissonanti» occupino queste posizioni per rendere gli spazi pubblici più inclusivi.

Allo stesso tempo, ci suggerisce un approccio che esce dal frame della contrapposizione diretta tra dentro e fuori e apre prospettive al cambiamento. Ci ricorda che gli stessi spazi possono essere occupati e agiti con modalità diverse: si possono seguire nuovi copioni, cambiare il modo in cui si sta e ci si relaziona nello spazio, o ancora inventare spazi che non esistevano affatto. Questo di per sé non è in contrapposizione con altre forme più classiche di attivismo: le modalità di presa di parola e di lotta sono molte e possono essere agite sinergicamente, senza autoescludersi.



Note [1] N. Puwar, Space Invaders, Race, Gender and Bodies Out of Place, Bloomsbury Collection, London 2004. [2] Del gruppo Sconvegno facevano parte, in ordine alfabetico: Eleonora Cirant, Manuela Galetto, Chiara Lasala, Sveva Magaraggia, Chiara Martucci, Elisabetta Onori e Francesca Pozzi. Il percorso di riflessione e pratica politica del collettivo incomincia alla fine del 2000 con un convegno sulle nuove generazioni di femministe in Italia, da cui è stato pubblicato il libro Generazioni di donne a Sconvegno (2003). Nel 2001 inizia un decennio di inchieste/autoinchieste volte a mappare il lavoro e le sue contraddizioni. Il primo esperimento di autoinchiesta è raccontato nell’articolo Emanciparsi dal lavoro (2003); ne segue un secondo dal titolo LCM::: Lavoratori/Lavoratrici contrattualmente modificabili (2006) in cui la precarietà, dal piano strettamente lavorativo si trasferisce definitivamente in quello esistenziale. Il terzo e ultimo ciclo inizia nel 2008 per concludersi con la pubblicazione del saggio Il lato B della precarietà (2011). Si veda anche Gruppo Sconvegno (M. Galetto – C. Lasala – S. Magaraggia – C. Martucci – E. Onori - F. Pozzi), Il «lato B» della precarietà, pp. 231 -242, in L. Fantone, a cura di, Genere e precarietà, ScriptaWeb, Napoli 2001; Gruppo Sconvegno (E. Cirant - C. Lasala - S. Magaraggia - C. Martucci - E. Onori - F. Pozzi), Emanciparsi dal lavoro, «Posse» divenire-donne della politica n. 6, pp. 63 – 74, Manifestolibri, 2003, Gruppo Sconvegno (E. Cirant - C. Lasala - S. Magaraggia - C. Martucci - E. Onori - F. Pozzi), Generazioni di donne a Sconvegno, Stripes, Milano 2003. [3] NextGenderation era una rete di studiosə dei Gender studies di tutta Europa nata agli inizi degli anni 2000. [4] «Feminist Review», n. 87, special issue n. 1 su Italian Feminisms, Palgrave Macmillian, 2007. [5] https://www.city.ac.uk/research/centres/gender-and-sexualities. La registrazione è disponibile a questo link. [6] La conversazione è avvenuta online nel dicembre del 2022. [7]Tutti Tories, membri del Partito Conservatore, Priti Patel è stata Ministra degli Interni dal 2019 al 2022; Kwasi Kwarteng ha avuto vari incarichi tra cui un breve (disastroso) periodo come ministro delle finanze con Liz Truss; Suella Braverman è Ministra degli Interni da ottobre 2022. [8] A. Giuffrida, Giorgia Meloni speaks of ‘burden’ of being Italy’s first female PM, «The Guardian», 25 ottobre 2022 (https://www.theguardian.com/world/2022/oct/25/giorgia-meloni-speaks-of-burden-of-being-italy-first-female-pm) [9]G. Longoni, Giorgia Meloni: una novità, o no? Intervista a Giorgia Serughetti, ottobre 2023 (https://www.casadonnemilano.it/giorgia-meloni-una-novita-o-no/?fbclid=IwAR08ZTa5IpHoBBkPNsZH1d9sLVQOMa3pCUwAHbWxdl2I_QqUmADxKnNN6kw). [10]B.L. Kenny, Una sola donna al comando, «Internazionale» 25 ottobre 2022 (https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/barbara-leda-kenny/2022/10/25/meloni-presidente-donna?fbclid=IwAR0_p4gQW00V12J45yD2gqSvbeuI9LXib5lLQ0qsAYn-us4QSYVdWXWcbkY). [11]L. Melandri, Chi è Giorgia Meloni, machista e materna che piace a uomini e donne, «Il Riformista», 23 settembre 2022 (https://www.ilriformista.it/chi-e-giorgia-meloni-machista-e-materna-che-piace-ea-uomini-e-donne-320341/). [12] N. Uyangoda L’unica persona nera nella stanza, 66thand2nd, 2021. [13]W.E.B. Du Bois (1868 – 1963), è stato il primo sociologo afro-americano. Ha definito «doppia coscienza» la lacerazione identitaria vissuta dagli afromericani tra l’essere neri e al contempo americani. Due condizioni percepite come inconciliabili. Il nero è al contempo presente e assente dal tessuto sociale americano e la sua assenza è data dal suo essere fuori dal circolo di riconoscimento. [14] L. Berlant, Cruel Optimism, Duke University Press, London and Durham 2011.



* * *


Nirmal Puwar è sociologa al Goldsmiths College di Londra e British Academy Innovative Fellow (2023/2024).


Chiara Martucci, Ph.D. in Studi politici, è docente, formatrice e ricercatrice in tematiche di genere e intercultura.


Manuela Galetto è docente di relazioni industriali alla Warwick Business School; femminista, interessata e attiva nei dibattiti sul lavoro, fuori e dentro l’università.

bottom of page