Si pubblicano qui alcune pagine estratte dal saggio di Roberto Bianchi, Soviet, guardie rosse e rivoluzione nell’Italia del primo dopoguerra, pubblicato negli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa. Storia e politica», XXXI (2016), 2017, pp. 85-108. La guerra e l’esempio rivoluzionario russo costituirono i due principali fattori di rinnovamento delle forme di resistenza sia nei contesti urbani, sia in quelli rurali. Un esempio storico di come il contesto internazionale influisce sui conflitti sociali locali.
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Fin dall’immediato dopoguerra, mentre il nuovo governo presieduto da Francesco Saverio Nitti annunciava l’abolizione della censura che aveva imperato durante il conflitto – e che sarebbe riemersa a più riprese nella fase successiva contribuendo ad alimentare la diffusione di notizie false e dicerie fantastiche –, anche periodici e quotidiani davano voce agli interrogativi riguardanti le conseguenze della rivoluzione bolscevica e il diffondersi delle paure e del fascino suscitati dalla Russia sovietica anche in Italia, con un’attenzione particolare per quello che avveniva tra le classi lavoratrici e gli ex combattenti [1].
In effetti, in una fase segnata dall’esplosione d’una miriade di conflitti sociali, di movimenti urbani e rurali che intrecciavano rivendicazioni di tipo annonario con richieste d’accesso a beni considerati «comuni» e al controllo delle terre produttive, sullo sfondo di un’emergente domanda di rinnovamento e rigenerazione generale che coinvolgeva tutta la società, i tumulti nei mercati e le occupazioni di terre sembravano dare corpo allo spettro di una rivoluzione sociale che troviamo negli scritti di contemporanei appartenenti ad ambienti diversi e qualificati, e anche per questo significativi [2]. Lo segnalò – ad esempio – uno studioso di rilievo come Raffaele Ciasca:
«Una delle ripercussioni che la rivoluzione russa ha avuto nei paesi occidentali d’Europa, in Italia soprattutto, è quella di aver riaccesa e resa più viva la disputa circa la destinazione economico-sociale del latifondo e delle cosiddette terre incolte. A mano a mano che dall’ex impero moscovita giungevano notizie più o meno particolareggiate e veritiere intorno alla grande rivoluzione che strappava all’aristocrazia terriera il potere politico, divideva la proprietà a furia di popolo, manometteva castelli, ville, palazzi, la stampa e i partiti conservatori si limitavano, fra noi, quasi esclusivamente a dipingere con le tinte più fosche gli eccessi e i danni immediati del movimento rivoluzionario; viceversa la stampa socialista, notando come pure in mezzo agli inevitabili eccessi, comuni del resto alle rivoluzioni di tutti i tempi e di tutti i paesi, una secolare aspirazione del proletariato russo si compiva, l’acquisto della terra, lanciava anche fra noi il grido della “terra ai contadini”» [3].
Erano riflessioni che l’autore – all’epoca ancora sotto le armi e in procinto di rielaborare la tesi in Giurisprudenza per la pubblicazione d’un libro – avrebbe avuto modo di riprendere e sviluppare in seguito; in ogni caso senza mettere in discussione l’ordinamento sociale e dimenticando che sia lo slogan «la terra ai contadini» sia la retorica del carovita che aveva riportato in auge elementi di «economia morale» d’antico regime, erano stati usati dalla propaganda di guerra fin dal 1915-1916 e furono ampiamente diffusi all’indomani di Caporetto, ovvero prima del 7 novembre della rivoluzione d’Ottobre.
Forse più semplici, ma sicuramente più efficaci appaiono le parole del Gran Maestro Ernesto Nathan che, in procinto di lasciare la direzione del Grande Oriente d’Italia al toscano Domizio Torrigiani, lanciò una sorta di grido d’allarme contro «l’insidioso contagio» di parole e slogan come «bolscevismo», «terra ai contadini», «opifici agli operai»:
«Siamo nel regno delle frasi del socialismo ufficiale per reclutare soldati nell’esercito inteso alla distruzione dell’attuale reggimento sociale ed edificarne sulle rovine l’arcadia degli irrealizzabili loro sogni; siamo sotto l’influsso del bolscevismo mitigato, giuntoci a traverso le steppe russe. […] Braccianti agricoli, […] mezzadri, taluni imprevidenti, poco inclini all’assiduo lavoro; altri, senza l’altrui energica preventiva direzione, inconsapevoli dei modi per sfruttare il loro podere. Quando […] fossero venuti in […] possesso del loro pezzo di terreno, […] gli uni, ebbri della nuova inattesa ricchezza sopravvenuta, non sapendo o volendo usarne, se la giocherebbero, per così dire, a morra, all’osteria; la venderebbero al miglior offerente. Gli altri […] incorrerebbero […] in debiti sempre crescenti […], per ritornare bracciante o vagabondo, senza mezzi di sussistenza» [4].
Secondo l’autorevole ex sindaco di Roma, «l’onda di bolscevismo» era destinata a svanire «dinanzi al sole del progresso»; ma in quel momento stava «rovesciando tristi grandinate» sul mondo, «lasciando tristi orme di rovine e di eccidio» [5].
Tra la primavera e l’estate 1919, in effetti, in Italia giungevano notizie confuse dalla Russia sovietica e dall’Ungheria della Repubblica dei Consigli – la «Repubblica dei gelati» descritta con passione da Arthur Koestler, durò dal 21 marzo ai primi di agosto; dalla Germania – dove la repubblica consiliare bavarese proclamata l’8 aprile finì la sua esperienza il 1° maggio – e da Vienna – ricordo l’insurrezione del 15 giugno; dalla Slovacchia – una fragile repubblica di tipo sovietico sorta il 16 giugno, che sopravvisse poche settimane – o persino da un paese rimasto neutrale durante la guerra come la Spagna, dove in Andalusia era iniziato il cosiddetto trienio bolchevique 1918-1920 [6].
Erano passati appena due anni dalla visita in Italia dei rappresentanti dei soviet russi che, organizzata tra il Febbraio e l’Ottobre – quindi con la Russia non più zarista ma ancora in armi contro gli imperi centrali – avrebbe dovuto contribuire a diffondere un messaggio di sostegno alla tenuta del fronte interno per una guerra ora sicuramente «democratica», ma che si era tramutata in una premessa per l’insurrezione torinese dell’agosto 1917[7], quando in Italia il ciclo della protesta aperto nell’anno di Caporetto – che si sarebbe chiuso nell’autunno 1920 – stava giungendo a un momento di svolta proprio tra la primavera e l’estate 1919 [8].
[…]
Nella fase più accesa dei moti […] i manifestanti non si limitarono a esprimere forme di resistenza arcaica, a guardare indietro nel tempo per restaurare un ordine sociale infranto dal corso della storia, orientandosi verso «una consolidata visione tradizionale degli obblighi e delle norme sociali, delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della comunità» [9]. Questi elementi erano stati effettivamente presenti nei moti durante la guerra e fino alla prima metà del 1919, quando era stata predominante la richiesta di ristabilire un ordine infranto, prima dalla mobilitazione totale e, dopo, dalla smobilitazione liberista. Ma con i grandi tumulti di luglio le cose cambiarono; al loro interno svolsero un ruolo evidente molti reduci, comparvero forme inedite d’organizzazione e nell’ideologia della protesta gli elementi «derivati» assunsero un peso maggiore rispetto a quelli «intrinseci» e tradizionali [10].
I tumultuanti chiedevano il ristabilimento di norme «eque» e «giuste», talvolta colorate da tratti millenaristici ripresi dalla retorica del tempo di guerra; però guardavano anche in «avanti», alla possibile costruzione d’un mondo nuovo, in certi luoghi simboleggiato dai bracciali delle «guardie rosse» o dal richiamo all’esperienza bolscevica reso evidente dai soviet annonari o anche dalla piccolissima repubblica sovietica proclamata a nord di Firenze. Il bocci-bocci e l’insieme dei tumulti annonari del dopoguerra furono un fenomeno tanto ricco e ambizioso quanto ambiguo e difficile da comprendere per i contemporanei. Rappresentarono il modo concreto attraverso cui si potevano fare la rivoluzione e il bolscevismo. Furono l’affermazione di un «mondo alla rovescia» all’indomani d’un conflitto mondiale che, fin dal 1914, tanto era stato osteggiato proprio nelle zone e dai settori sociali protagonisti dei tumulti del 1919; quella guerra che per l’enormità delle sue dimensioni e caratteristiche aveva paradossalmente dimostrato che tutto era possibile, anche l’inimmaginabile. Ma per i proprietari, e anche per i piccoli commercianti e i mezzadri colpiti dalla rivolta, l’azione delle folle, i bracciali rossi degli organizzatori e il ruolo dirigente svolto in molte località dalle Camere del Lavoro, dalle cooperative e dai socialisti evocarono la forza delle masse che potevano emergere dai peggiori «ventri» delle città o da un mondo rurale che si stava risvegliando, e che mettevano in discussione ruoli sociali e una proprietà, più che privata, densa di significati e identità pubbliche. Anche per questo i moti lasciarono un segno profondo sul primo dopoguerra e la storia di più lungo periodo delle proteste sociali e dei progetti di rigenerazione politica [11].
Dopo il fascismo, lasciata alle spalle la nuova guerra mondiale, nell’Italia repubblicana i partiti e i nuovi movimenti avrebbero avuto la necessità di differenziarsi dai moti del 1919. La memoria dei tumulti annonari si sarebbe così trovata confinata nell’angusto recinto del diciannovismo, chiusa tra le sbarre di narrazioni storiche che avrebbero avuto bisogno di prendere le distanze dalla «sconfitta» del dopoguerra. Solo con la fine del Novecento la storiografia ha iniziato a studiare con nuovi strumenti anche questi aspetti di quella fase cruciale per la costruzione del mondo contemporaneo; ma il mito negativo di un 1919 diciannovista tarda a scomparire [12].
Note [1] Cfr. Antonio Fiori, Il filtro deformante. La censura sulla stampa durante la prima guerra mondiale, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma 2001, p. 453; Mauro Forno, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 72 sg.; Valerio Castronovo-Luciana Giacheri Fossati-Nicola Tranfaglia, La stampa italiana nell’età liberale, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 300-315, 357-398. [2] Cfr. Roberto Bianchi, Voies de la protestation en Italie: Les transformations de la révolte entre XIXe et XXe siècle, “European Review of History”, n. 20/6 2013, pp. 1047-1071. [3] Raffaele Ciasca, La terra ai contadini, “L’Unità”, 27 novembre 1919. Una versione modificata del testo si trova in Id., Il problema della terra, Prefazione di Giuseppe Prato, Milano, Treves 1921, pp. 2-3; si veda anche la Premessa dell’Autore alla riedizione Cedam, Padova 1963, pp. V-IX. Cfr. inoltre Arrigo Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, Laterza, Bari 1930, p. 89 e Fabio Grassi Orsini, La “Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale”: dalla rivista di cultura al “superpartito della democrazia”, ne Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), a cura di Fabio Grassi Orsini e Gaetano Quagliariello, il Mulino, Bologna 1996, pp. 617-695. [4] Ernesto Nathan, L’insidioso contagio delle parole. Il bolscevismo, “Nuova Antologia”, n. 285, maggio-giugno 1919, pp. 75-80; Id., L’insidioso contagio delle parole. I. “La terra ai contadini”, ibid., pp. 296-297; Id., L’insidioso contagio delle parole. II. “Gli opifici agli operai”, ibid., pp. 299-306. Sulla massoneria italiana in quella fase, cfr. Fulvio Conti, Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo, il Mulino, Bologna 2003, pp. 259-266; Fulvio Conti (a cura di), La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini. Il Gran Maestro Domizio Torrigiani, Viella, Roma 2014. [5] Ernesto Nathan, L’insidioso contagio delle parole. Il bolscevismo, cit., p. 80. [6] Per la citazione vedi Arthur Koestler, Freccia nell’azzurro. Autobiografia: 1905-1931, il Mulino, Bologna 1990 (1952), p. 74. Per una sintesi generale può essere ancora utile Gabriele Polo-Giovanna Boursier, Rivoluzioni e moti sociali in Europa, in Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, a cura di Aldo Agosti, Roma, Editori Riuniti 2000, pp. 660-668; ma anche l’Introduction e la Conclusion a Sortir de la Grande Guerre. Le monde et l’après-1918, a cura di Stéphane Audoin-Rouzeau e Christophe Prochasson, Tallandier, Paris 2008, pp. 13-19, 415-424. Per il tema che riguarda il presente contributo, cfr. Roberto Bianchi, Les mouvements contre la vie chère en Europe au lendemain de la Grande Guerre, ne Le XXe siècle des guerres, a cura di Pietro Causarano-Valeria Galimi-François Guedj et al., Les Éditions de l’Atelier, Paris 2004, pp. 237-245. [7] Cfr. Giancarlo Carcano, Cronaca di una rivolta. I moti torinesi del ’17, Stampatori Nuovasocietà, Torino 1977, p. 34; Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1972, pp. 410-412. [8] Cfr. Giorgio Petracchi, Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, “Storia contemporanea”, n. 6 1990, pp. 1107-1130; Roberto Bianchi, Furies, workers and organizers: Women and anti-war protest in Italy, 1914-18, in One Hundred Years of Inheriting: The First World War Phenomenon, a cura di Snezhana Dimitrova-Giovanni Levi-Janja Jerkov, SWU University Press, in corso di stampa. [9] Ibid., p. 60. [10] George Rudé, Ideologia e protesta popolare. Dal medioevo alla rivoluzione industriale, Editori Riuniti, Roma 1988 (1980), pp. 30-31. [11] Si veda Roberto Bianchi, Bocci-Bocci… cit., p. 32. [12] Cfr., ad esempio, Lucia Annunziata, 1977. L’ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino 2007, il cap. V dal titolo Il “diciannovismo”: la giornalista, rievocando prese di posizione del PCI nel 1977 – quando si accusavano i movimenti estremisti giovanili e universitari di «diciannovismo» animato da «untorelli» – definisce il fenomeno del dopoguerra come una «confusa ondata di mobilitazione reducistica e massimalista che aveva favorito l’ascesa del fascismo in Italia» (p. 75).
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