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Rotture, continuità e immaginari

Piccola epistemologia del disastro





L’imaginario della catastrofe ai tempi dell’Antropocene ha avuto un’impennata di interesse. L’odore che emana è diventato una presenza costante e quotidiana. Cosa nasconde e come affrontarlo?


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Lisbona. 1° novembre 1755. Poco dopo le 9 del mattino due violente scosse di terremoto radono quasi completamente al suolo la città. Seguono le fiamme. E come se non bastasse, poco dopo, arriva uno tsunami. Difficile quantificare le vittime. Decine di migliaia stando alle cronache del tempo. Sulle macerie, qualche decennio dopo, sorse una nuova Lisbona, ricostruita seguendo nuovi e più moderni criteri urbanistico-architettonici. Il Portogallo, però, già in declino, fu costretto a salutare definitivamente il club dei grandi imperi coloniali.

Quello di Lisbona non fu certo il primo terremoto della storia. E neanche il più grave. Avvenne però, come si suol dire, nel posto giusto e al momento giusto: in Europa; nel bel mezzo dell’Illuminismo; all’apice di un percorso scientifico-intellettuale che stava provocando un cambio di paradigma che si rivelerà fondamentale per l’umanità tutta. Grazie alla nascente diffusione della stampa, il terremoto di Lisbona ebbe una risonanza continentale senza precedenti dando vita a riflessioni e dibattiti di ogni tipo: dalle cause materiali, sino al senso stesso del rapporto fra umanità e natura. Si disse allora che a tremare non furono solo le viscere della terra, ma molte delle certezze sulle quali il pensiero occidentale si era fondato sino a quel momento.

Lo storico François Walter [1] ci ricorda che le catastrofi per lungo tempo sono state indissolubilmente legate all’ambito mitico-religioso. Esse venivano interpretate come una punizione divina o, in altri casi, come un avvertimento, come un invito a ritrovare la retta via. Nel momento in cui la terra trema a Lisbona, però, i progressi nelle conoscenze del mondo naturale erano diventati tali da produrre quel grande processo di secolarizzazione che sta alla base di quel grande insieme di fenomeni che sommariamente chiamiamo «modernità». Basti pensare che appena tre settimane dopo il sisma, Voltaire colse l’occasione per lanciare il suo attacco contro la Teodicea [2], contro quella dottrina filosofica che interrogava il concetto di giustizia divina in relazione alla presenza del male sulla terra. In particolar modo, ad essere oggetto di critica, fu l’opera di Leibniz [3], secondo il quale Dio aveva creato il migliore dei mondi possibili e che tale scelta non era e non poteva essere in contraddizione con il problema del male. Nella prospettiva volteriana però non si trattava più di Dio, ma di una natura le cui regole apparivano altrettanto insondabili per l’intelletto umano. Pur appartenendo a quel grande movimento di secolarizzazione laica, Voltaire rimaneva ancorato a un paradigma ormai desueto.


« Il le faut avouer, le mal est sur la terre

Un jour tout sera bien, voilà notre espérance :

Tout est bien aujourd’hui, voilà l’illusion » [4].


Una natura crudele, insondabile, lontana da quelle edeniche visioni di origine rinascimentale. Di tutt’altro avviso era l’amico-nemico Rousseau che non attese molto prima di rispondere. Vero è – argomentava – che a Lisbona è stata la natura a far tremare la terra. Ma non è stata certo quest’ultima ad aver edificato una città così densa, così popolosa, le cui case si ammassano selvaggiamente le une sulle altre. Rousseau aveva capito. Una nuova era aveva preso il via. Un’era nella quale anche le catastrofi in apparenza naturali appartengono direttamente o indirettamente alle umane cose. Con Rousseau si inaugura l’idea della responsabilità umana. Non a caso, qualche decennio dopo, Goethe sintetizzò così la querelle fra i due francesi: «con Voltaire finiva un mondo. Con Rousseau ne cominciava un altro» [5]. Il tedesco approfittò del proverbiale senno del poi, anche perché egli viveva già agli inizi di quelle rivoluzioni industriali che in poco tempo avrebbero sconvolto il mondo generando, tra le altre cose, una serie di nuove e inedite catastrofi sulla cui matrice antropica ci sarebbe stato poco da discutere. Si erano avviati quei processi che due secoli dopo ci avrebbero portato all’Antropocene. Non più un periodo storico, ma un’era geologica nella quale l’uomo supera di gran lunga la natura, anche e soprattutto per capacità distruttiva.

È facile evincere allora che il terremoto di Lisbona costituisce un ottimo punto di partenza per riflettere sulla natura di quegli avvenimenti che siamo soliti chiamare catastrofi o disastri e che nelle loro mutevoli forme accompagnano l’andamento della nostra storia. Dal terremoto, sino al naufragio; dall’esplosione del Krakatoa sino a quella di Beirut del 2020; dal Titanic sino a Chernobyl. E potremmo anche aggiungere quel gigantesco processo di contaminazione e distruzione che da due secoli regola il nostro vivere sulla terra. Industria, estrazione, produzione di beni e energia. Nonostante questo, tali fenomeni non dispongono ancora di un’epistemologia propria. Normalmente ci si concentra sulle manifestazioni puramente materiali, tanto per quanto riguarda le cause che le conseguenze. Perché la terra trema? Perché i vulcani eruttano? Perché di tanto in tanto un reattore nucleare esplode? E cosa provocano questi eventi? Come possiamo evitarli o limitarne i danni? Geologia, meccanica, fisica, chimica, ingegneria… il disastro viene presentato come una sorta di contraddizione rispetto a una presunta normalità, rispetto all’idea di una continuità lineare che consideriamo priva, almeno in teoria, di risvolti tragici. Del resto, è la stessa etimologia della parola «disastro» che suggerisce questa idea: dis + astrum, «cattiva stella», qualcosa che rimanda all’idea di una circostanza poco fortunata ed imprevista e che Gramsci stesso, nei Quaderni, attribuisce alla sfera dell’astrologia, a sottolineare giustamente il registro semantico dell’irrazionale [6].

Negli anni ’80 del XX secolo, un primo tentativo di allargare epistemologicamente l’ambito del disastro viene fatto dalla sociologia. La catastrofe non è più solo e soltanto un problema materiale, ma una questione essenzialmente sociale, anzi sociologica. L’esempio forse più celebre è il concetto di «rischio» formulato da Ulrich Beck nel 1986. L’avvento della produzione industriale, le modalità con le quali questo fenomeno sia divenuto strutturale per l’umanità intera, ha creato secondo il sociologo una corrispondenza fra la produzione sociale della ricchezza e la produzione sociale del rischio. Si tratta in fondo di un’altra prospettiva da cui inquadrare uno dei problemi centrali di tutta quanta la modernità: il progresso, un’idea di benessere collettivo e di emancipazione che, purtroppo, contrariamente a quanto annunciato, è stata pervertita nel suo esatto contrario. Per dirla in termini più tecnici, siamo di fronte all’eterogenesi dei fini, ovvero ad uno dei temi centrali della riflessione di Horkheimer e Adorno [7] a proposito del pensiero illuminista. E in fondo cos’altro è l’Antropocene se non la conferma geologica di questa perversione? Crisi climatica. Crisi ambientale. Sparizione di habitat. Prospettive di estinzione. E pensare che ai tempi tutto questo fu venduto come la somma realizzazione della condizione umana.

Più recentemente, l’Antropologia ha offerto un’ulteriore pista di riflessione prendendo in conto il fattore strettamente umano della catastrofe, in particolare nell’ambito delle conseguenze. Pensandoci bene, in maniera generale, cos’altro è la catastrofe se non una brusca alterazione antropologica e filosofica delle nostre esperienze spazio-temporali? Si tratta di un ambito estremamente ricco, che dovrebbe coinvolgere altri saperi.

Nonostante questo, ancora troppo sporadiche e discontinue sono quelle riflessioni che indagano il disastro da un punto di vista culturale e filosofico, ovvero le modalità con cui questi fenomeni, nella loro dimensione immateriale, influenzano la nostra cultura e il nostro modo di pensare noi stessi e il mondo. «Le catastrofi spingono tutti gli uomini forti e intelligenti alla filosofia», affermava lucidamente Honoré de Balzac. È qui che nasce allora l’esigenza di pensare al disastro come un oggetto anche culturale, attraverso una complessa e costante relazione fra la sua materialità spesso violenta, traumatica, tragica, e la sua idealità, le sue istanze immateriali ed il loro ruolo nella definizione dello Zeitgeist.

Un primo e fondamentale tassello di questa riflessione è costituito dall’opposizione fra l’idea di «continuità» e quella di «rottura». Come si è detto, il nostro senso comune ci porta a considerare il più delle volte i disastri e le catastrofi come una «rottura», una brusca e tragica interruzione di una traiettoria che consideriamo lineare, alla quale attribuiamo – ovviamente a torto – un’idea di normalità. Da questo punto di vista, spesso e volentieri, le catastrofi segnano in modo netto un prima e un poi. Talvolta, a torto o a ragione, siamo portati a formulare ragionamenti del genere: «dopo questo avvenimento nulla più è stato e mai sarà come prima». Ma a guardar bene la storia dei disastri, soprattutto quelli legati allo sviluppo tecnologico e industriale, ci si rende conto che le cose sono un po’ più complesse.

In un modo o nell’altro, un avvenimento catastrofico costituisce sempre e comunque una rottura. Tutto sta nel capire che cosa sia esattamente una rottura e quali ambiti coinvolga. Gregory Quenet afferma che «la catastrofe è sempre un discorso a posteriori che si inserisce in una narrazione, poiché non esiste alcuna catastrofe che sia percepita come tale nel momento in cui essa avviene» [8]. A determinare allora l’impatto di un avvenimento del genere sul nostro modo di pensare, interviene l’immaginario. Come tutti i fenomeni umani, anche le catastrofi possiedono il loro immaginario, un loro specifico patrimonio intertestuale ed intersoggettivo fatto da racconti, testimonianze, immagini, analisi, ecc. che determinano il modo con il quale un disastro si radica nel nostro pensare collettivo. Spesso e volentieri, è proprio l’immaginario che determina il carattere di rottura che a posteriori attribuiamo o meno a un disastro. Ma la cosa più interessante è che spesso questo processo è radicalmente disgiunto dai fattori materiali, dalle conseguenze tangibili e quantificabili (le vittime e i danni). Il disastro, inevitabilmente, innesca una serie di processi culturali dialettici che interessano il rapporto fra materialità e immaterialità.

Un esempio chiarisce bene questo concetto. Quello del Titanic viene considerato il naufragio per eccellenza. Il piroscafo inaffondabile, l’oggetto che forse più di ogni altro incarnava la modernità trionfante, si inabissa nell’Atlantico a causa di una banale collisione. Le vittime furono circa 1500. Così come a Lisbona a tremare non furono soltanto le viscere capricciose della terra, quella notte di aprile affondò insieme al Titanic una parte delle illusioni di un mondo che viaggiava forse troppo veloce verso un futuro che sfuggiva di mano. Anno 1945. Un altro mare. Un’altra notte. La Germania nazista è ormai avviata alla sconfitta. A est l’Armata Rossa incalza. Il 30 gennaio il transatlantico riconvertito in nave ospedale Wilhelm Gustloff lascia il porto di Gotenhafen con a bordo un numero impressionante di passeggeri costituiti per lo più da profughi tedeschi, ma anche da soldati allo sbando. Poco dopo, tre siluri centrano il piroscafo che affonda rapidamente nelle acque gelide del Baltico. I morti sono almeno 10.000. Ad oggi, quello del Gustloff è considerato il più grave naufragio della storia per numero di vittime.

Perché, nel nostro immaginario, i 1500 morti del Titanic pesano assai più dei 10.000 del Gustloff? La risposta è semplice. Laura Azzolini [9] ci ricorda che il naufragio dell’inaffondabile piroscafo della White Star Line ha dato vita a non meno di 6000 pubblicazioni, senza contare i film, i documentari, le canzoni e perfino il teatro.


«La nave è fulmine, torpedine, miccia

Scintillante bellezza, fosforo e fantasia

Molecole d’acciaio, pistone, rabbia

Guerra lampo e poesia.

In questa notte elettrica e veloce

In questa croce di Novecento

Il futuro è una palla di cannone accesa

E noi lo stiamo quasi raggiungendo».


È il 1982 quando il cantautore De Gregori scrive queste parole. Settant’anni dopo, il Titanic continua a nutrire il proprio immaginario. A pensarci bene, l’idea di rottura si costruisce anche e soprattutto attraverso un complesso processo di storicizzazione e di interpretazione che solo il tempo rende possibile. Quello di Lisbona, si è detto, non è stato né l’unico né il più grave dei terremoti. Arriva però al momento giusto. Al centro di una riflessione intellettuale fondamentale e alla vigilia delle rivoluzioni industriali. I contemporanei di certo non lo sapevano. Anche se possiamo dire che Rousseau aveva ben intuito che qualcosa stava cambiando. E in fondo lo stesso vale per il Titanic. Due anni dopo, i progressi della scienza e della tecnica avrebbero manifestato tutta la loro perversione sui campi di battaglia del primo conflitto mondiale e poi del secondo, con l’industria del genocidio su larga scala e con le gioie dell’atomo sperimentate su due città densamente popolate.

Per dirla in modo più semplice, anche le catastrofi, per lasciare il segno, hanno bisogno di un certo tempismo. E talvolta è proprio il tempismo a spuntarla sul numero di morti. Banalmente, allora, possiamo dire che i diecimila e più sventurati del Gustloff, scelsero un pessimo momento. C’era la guerra. I massacri erano all’ordine del giorno. Le navi affondavano di continuo. Le città bruciavano così come i cadaveri nei forni. E poco importa allora la statistica. La memoria del Gustloff si perde nell’atroce e inevitabile continuità della morte in massa della guerra moderna.

Le cose diventano assai più complesse quando ci troviamo ad analizzare quelle catastrofi che, in un certo senso, sono divenute strutturali per il nostro modo di esistere come società. L’ambito dell’industria, della produzione di energia, dell’estrazione di materie prime, ci pone di fronte a eventi dalla violenza inedita. E non solo. Agli eventi «esplosivi» e puntuali, si aggiunge la contaminazione, le cui conseguenze si diluiscono su temporalità lunghe, lunghissime. Chernobyl, da questo punto di vista, costituisce un esempio perfetto. Un’ecatombe nucleare. Una contaminazione senza precedenti. Una catastrofe senza tempo nella quale anche le dimensioni spaziali sfuggono ai nostri schemi consueti. Come affermava Patrick Lagadec [10], siamo entrati in un’era nella quale non è più possibile circoscrivere il disastro in un tempo e in uno spazio determinati. L’immaginario prodotto dall’esplosione di Chernobyl è in tal senso ricchissimo e si fonda sulla disgregazione di una serie di mitologie che vanno dall’idea di un atomo utilizzato a fini di pace (in contrasto con gli orrori di Hiroshima e Nagasaki), fino all’intera esperienza del socialismo reale. Non è un caso che, fatto inedito, la rottura filosofica e culturale si sia manifestata anche attraverso la creazione di un’estetica propria. Eppure, a pensarci bene, poco importano le fotografie, i racconti, i premi Nobel per la letteratura e le serie tv di successo. L’unica vera rottura auspicabile avrebbe dovuto riguardare la produzione di energia nucleare. E invece no. L’umanità, incurante di un immaginario di rottura, è andata avanti e avanti a sancire un’incrollabile continuità che si è manifestata in modo impietoso con il disastro di Fukushima del 2011 avvenuto nel mondo libero, in un paese teoricamente incline alla trasparenza e alla sicurezza. Ma al di là delle fenomenologie puntuali ed esplosive, il nucleare continua a segnare il nostro mondo con l’accumulazione di tonnellate di scorie radioattive che prolungheranno il disastro per migliaia, anzi per centinaia di migliaia di anni. Si tratta di un ragionamento che possiamo applicare all’intero sistema industriale, il quale, con o senza i suoi sussulti catastrofici, porta avanti silenziosamente il suo processo autodistruttivo attraverso la contaminazione, attraverso l’emissione di sostanze di cui paghiamo gli effetti a livello ormai globale.

Anche volendo rimanere all’interno di un paradigma stabilizzato, quello che ci porta a considerare i disastri come dei fenomeni puntuali e circoscritti nel tempo e nello spazio, non possiamo non interrogarci sul senso stesso dell’idea di rottura. Basta percorrere a ritroso la storia di tutto quello che è andato storto nell’ambito dell’industria e dell’energia per dare un senso nuovo alla dicotomia fra continuità e rottura. Spesso e volentieri ci troveremo di fronte a una serie di disastri quasi del tutto privi di immaginario. Eventi talvolta assai gravi che poco o nulla hanno scalfito la nostra memoria. Eppure, sono cose che sono successe, che succedono di continuo e che verosimilmente continueranno a succedere.

Da un punto di vista storico-materiale, siamo lontanissimi dall’idea di un avvenimento puntuale che sconvolge tragicamente una normalità presunta, una realtà in cui tutto va come deve andare, nella quale l’umanità, per dirla alla maniera di Beck, controlla e gestisce il rischio secondo un criterio di accettabilità, cedendo solo di tanto in tanto a un capriccio imprevedibile. Non è così. La storia del disastro industriale è segnata da una sconcertante continuità, accompagnata inoltre da un costante aggravamento delle nostre capacità distruttive. In fondo, siamo partiti da qualche frana in miniera – che tuttalpiù produceva orfani e vedove fra il proletariato –, per arrivare sino a prospettive assai più nefaste, dal carattere potenzialmente definitivo.

E allora, in conclusione, un’epistemologia del disastro, seppur embrionale, non può in alcun modo prescindere da quella complessa dialettica che mette in relazione la materialità della catastrofe con il suo immaginario, provocando spesso dei corto-circuiti interpretativi e cognitivi di non poco conto. Occorre inoltre rinnovare i nostri paradigmi e abbandonare l’idea che il disastro sia un evento circoscritto nel tempo e nello spazio che «rompe» una normalità presunta. In fondo cos’altro sarà l’Antropocene se non la conoscenza di un disastro senza tempo e senza frontiere?



Note [1] F. Walter, Catastrophes. Une histoire culturelle XVIème-XXIème siècle, Seuil, Paris 2008.

[2] Voltaire, Il terremoto di Lisbona, a cura di Livio Crescenzi, Mattioli, Fidenza 2017.

[3] G. W. Leibniz, Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal, 1710.

[4] Voltaire, Poème sur le désastre de Lisbonne, ou examen de cet axiome, tout est bien, 1756. [5] J. W. Goethe, Voltaire, in Encyclopaedia Universalis.

[6] A. Gramsci, A., Quaderno 4, § 17, L’immanenza e il Saggio popolare in quaderni.gramsciproject.org.

[7] M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 2010 (1944).

[8] G. Quenet, Les tremblements de terre aux XVIIème et XVIIIème siècles. La naissance d’un risque, Seyssel, Champ Vallon 2005.

[9] L. Deperthes, L. Mazzolini, Storie di Naufragi, , Odoy, Bologna 2001.

[10] P. Lagadec, La Civilisation du risque. Catastrophes technologiques et responsabilité sociale, Seuil, Paris 1981.


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Alfonso Pinto, Geografo – Documentarista, Ecole Urbaine de Lyon.

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