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Relazioni complicate

Una recensione di Marxismo e sociologia di Diego Giachetti


Cecilia Vicuña, Karl Marx, 1972
Cecilia Vicuña, Karl Marx, 1972

È recentemente uscito per i tipi di Punto Rosso il saggio Marxismo e sociologia. Prove di dialogo negli anni Cinquanta e Sessanta, scritto da Diego Giachetti.

 Lo discute qui Stefano Valerio.


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Quando, ormai quasi vent’anni fa, mi capitò per la prima volta di calcare le aule della Facoltà di Economia nelle vesti di matricola universitaria, rimasi particolarmente impressionato dalla sbrigatività con cui oltre duecento anni di elaborazione del pensiero economico venivano liquidati e condensati in una sola ora di lezione, quella introduttiva del corso di «microeconomia». Smith, Ricardo, Marx, Sraffa – per dirla con le parole che compongono il titolo di un recente libro di Riccardo Bellofiore – trattati alla stregua di orpelli di un passato da rievocare rapidamente, per poi passare a concentrarsi sulle «immutabili»e «naturali» leggi che governerebbero la produzione, il consumo e lo scambio nell’eterno presente dell’economia.

Un problema, questo, che evidentemente sembra affliggere l’insegnamento anche in altri campi disciplinari delle scienze sociali, se è vero, come ricorda Diego Giachetti nelle conclusioni dell’appena uscito Marxismo e sociologia. Prove di dialogo negli anni Cinquanta e Sessanta (Edizioni Punto Rosso, 2025), che «secondo Luciano Cavalli, lo studio dei classici, della riflessione teorica e metodologica ha perso rilevanza a scapito delle sociologie specifiche e di settore» (p. 178).


Il libro di Giachetti arriva dunque a colmare questo vuoto nel quale sembra galleggiare la formazione odierna di chi aspira ad esercitare il «mestiere» della sociologia, oggi travolta da un certo individualismo metodologico cui si affianca un empirismo apparentemente attento ai fatti e fenomeni sociali, ma nella sostanza incapace di avanzare una teoria generale della società, ricadendo così in una perpetuazione o giustificazione dello status quo. Una situazione, questa, che a ben vedere non è così diversa da quella che Giachetti ricostruisce nel suo libro quando descrive lo stato della disciplina sociologica alla fine dell’Ottocento, quando iniziavano a moltiplicarsi da una prospettiva positivista studi e statistiche su problemi di carattere sociale senza, però, offrire una visione complessiva dei rapporti sociali entro i quali i fenomeni indagati avevano luogo. È anche per questo motivo, afferma l’autore, che il rapporto fra marxismo e sociologia, in Italia, è sempre stato a dir poco controverso, tendenzialmente connotato da un aperto disprezzo da parte della cultura marxista «ufficiale», incarnata dalle strutture del PCI, nei confronti degli strumenti analitici e concettuali offerti dalla sociologia praticata in Francia, Germania e Stati Uniti.



Lavoro, composizione di classe e rimozione del soggetto

Disprezzo verso una disciplina particolarmente coltivata nel territorio del nemico statunitense e una lettura tutta idealistica di Marx: nella ricostruzione densa e di lungo periodo operata da Giachetti, sono questi gli ingredienti principali del cocktail micidiale con cui il marxismo dei partiti storici del movimento operaio italiano ha «accolto» la sociologia prima e dopo l’ultima (per ora) guerra mondiale, al punto da negarne lo status di disciplina scientifica. E così, per anni si è assistito a un marxismo del tutto slegato dalla realtà, caratterizzato da un’interpretazione dell’opera di Marx meccanicistica e incapace di comprendere le trasformazioni tecnologiche e organizzative del capitalismo.

Da un lato, il meccanicismo: l’idea che l’evoluzione delle forze produttive e lo sviluppo della tecnologia avrebbero sicuramente condotto al socialismo portava il marxismo ufficiale italiano ad abbracciare la sciagurata idea che progresso tecnico e progresso sociale potessero coincidere, o che quantomeno lo sviluppo tecnologico fosse qualcosa di neutro.

Dall’altro, l’idealismo, inteso come lettura ideologica della classe operaia, delle sue caratteristiche e delle sue aspirazioni. Un approccio, questo, che tendeva a rimuovere del tutto la realtà del soggetto della classe operaia, ignorandone le concrete condizioni di vita e di lavoro. Era chiaramente un’attitudine in linea con lo stalinismo, incapace di vedere e di capire, per esempio, le ragioni della rivolta della classe operaia dentro e contro lo stesso socialismo reale, come nel caso dei fatti di Berlino Est nel 1953.

Con un «marxismo» così, che bisogno di sociologia c’era? E infatti, come ricorda Giachetti, «un primo ostacolo da superare consistette nell’abbandonare l’identificazione metafisica del partito e del sindacato con la classe operaia» (p. 30). Solo così è stato possibile dare finalmente forma al dialogo richiamato nel sottotitolo del libro fra marxismo e sociologia.

Un dialogo che si è sviluppato non a caso all’incrocio fra gli anni della destalinizzazione e la costruzione dei primi governi di centro-sinistra in Italia, grazie all’opera di una serie di figure provenienti più dal milieu del PSI che del PCI. Senza dimenticare, ovviamente, l’apporto critico di figure collocate a sinistra dell’uno e dell’altro, che hanno reso possibile il recupero e l’uso dell’inchiesta come strumento di indagine della realtà operaia dentro e fuori la fabbrica, animando le esperienze di Quaderni Rossi e Classe operaia.

È dentro questi tentativi di lavoro politico e al tempo stesso scientifico, lungo il crinale talvolta scivoloso dell’inchiesta e della conricerca, che è stato possibile far avanzare lo stesso marxismo in Italia, fino a scoprire che la classe operaia degli anni ’60 non era più quella dei Nino Parodi, capaci e desiderosi di far proseguire la produzione durante l’occupazione delle fabbriche del 1920, ma poteva includere anche gli Alfonso Natella, portatori di un’estraneità alla cultura del lavoro e della razionalità organizzativa. Senza questo passaggio di riflessione sulla composizione di classe, nessuna comprensione dei fenomeni sociali in corso sarebbe stata possibile. Ed è qui, a giudizio di chi scrive, il merito di chi in quegli anni si cimentò nell’impresa di verificare gli assunti del marxismo nella realtà sociale, non per abbandonare Marx, ma al contrario per dargli ancora più sostanza.



Trento e oltre

La ricostruzione di Giachetti non si ferma a quelle che lui definisce le prime «fioriture» sociologiche post-guerra. Il viaggio prosegue e arriva fino a Trento, dove all’inizio degli anni ’60 ebbe luogo un’interessante intersezione fra la prima istituzionalizzazione ufficiale della disciplina sociologica, con l’ingresso della materia nel campo dell’università attraverso una sua specifica Facoltà, e il contemporaneo tentativo del Movimento studentesco trentino di partecipare attivamente alla definizione del piano di studi dei giovani sociologi in formazione. Si trattava, di fatto, di un primo grande esercizio di riflessività, in virtù del quale la figura del ricercatore o della ricercatrice in sociologia si interrogava sul suo stesso ruolo nella società, aprendo la strada a una critica radicale e continua di tutte le istituzioni della società del controllo, università inclusa, con l’obiettivo di contribuire in modo diretto al cambiamento di quelle stesse istituzioni dentro cui il sociologo prestava il proprio servizio.

Un percorso ambizioso, quello di Trento, capace di focalizzare l’attenzione e gli studi anche al di fuori della classe operaia, prendendo dunque in considerazione l’esistenza e le istanze di rottura con lo status quo espresse dai nuovi movimenti sociali.

Non è un caso, dunque, che oltre Trento l’opera di Giachetti prosegua e si concluda analizzando quella che già all’alba degli anni ’70 veniva definita, nonostante la giovanissima età della disciplina, come la «crisi della sociologia». Una crisi, a ben vedere, tutta interna al campo di chi, anche generosamente, si poneva il problema di coniugare intervento politico e ricerca sociale, incontrando così difficoltà teoriche e pratiche nella messa a punto di metodologie di indagine che potessero essere rigorose e contemporaneamente al servizio di un approccio militante. Si trattava di un compito improbo, che figure come Gian Antonio Gilli e Vittorio Capecchi hanno provato a risolvere in un caso addirittura prospettando il «suicidio» del sociologo e della sociologia, nell’altro attraverso la costruzione di nuove ipotesi redazionali come la rivista «Inchiesta».

Si ferma dunque qui il viaggio di Diego Giachetti, lasciando però aperto lo spiraglio per una riflessione che, come vedremo, pone una serie di questioni tuttora aperte.



Uno sguardo al presente

Che ne è oggi della sociologia? Anzi, che ne è oggi del rapporto specifico fra marxismo e sociologia?

Nel 2020, in piena pandemia, lo studioso Maurizio Atzeni ha pubblicato un breve articolo in cui invita gli specialisti della sociologia del lavoro e delle relazioni industriali ad abbandonare quella forma di feticismo per cui la gran parte delle ricerche in corso si concentrerebbe ancora sui soggetti sindacali, incastrati fra crisi della socialdemocrazia e tentativi di rivitalizzazione. Atzeni invita al contrario a «riscoprire la classe», per concentrarsi su quei processi in cui vecchi e nuovi lavoratori, in diverse parti del mondo, danno luogo a forme di organizzazione autonoma, anche al di fuori del sindacato stesso e della classificazione ufficiale di lavoratori subordinati.

In questo senso, risulta molto interessante una serie di studi emersi proprio a cavallo della pandemia, che hanno concentrato l’attenzione sull’ascesa del capitalismo delle piattaforme digitali. Marta D’Onofrio e Bruno Cattero, per esempio, hanno indagato l’organizzazione del lavoro nella logistica di Amazon, arrivando a parlare di neofordismo digitale. Altri studiosi ancora, come Marco Marrone e Nicola Quondamatteo, hanno ibridato l’esperienza della ricerca sociale con quella dell’attivismo sindacale nell’ambito delle lotte dei rider: emblematico, in tal senso, il titolo di un loro articolo, «Fra cronaca e ricerca». Francesco Sabato Massimo ha dato vita ad un’etnografia delle condizioni di lavoro ancora nei magazzini Amazon, ispirandosi agli studi di Michael Burawoy.

Sono solo alcuni esempi e indicazioni che qualcosa ancora si muove nel magma di una disciplina che, per altri versi, ha bisogno di riscoprire un suo ruolo pubblico, per dirla proprio con Burawoy. Anche perché, come ricorda Giachetti, si tratta di una disciplina per sua natura politica, in cui la scelta degli stessi strumenti e oggetti di indagine non può non incidere anche sulla loro potenziale trasformazione, rendendo la sociologia un campo di battaglia in continua ridefinizione.


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Stefano Valerio lavora a Torino presso un ente privato di ricerca dove si occupa, in particolare, delle trasformazioni sociali prodotte dalle piattaforme digitali. Ha pubblicato il libro Saluteremo il signor padrone. Favola sociale (Buendia Books, 2023).

                 

 

 

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