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Recensione a «Sentimenti dell'aldiqua» e «Sulla Germania totalitaria»


Quel che segue riproduce, con poche modifiche stilistiche, un post Facebook di qualche settimana fa, che mi è stato richiesto da Machina. È stato ristampato in queste settimane da Derive Approdi I sentimenti dell'aldiqua. Opportunismo, paura, cinismo nell'età del disincanto, originariamente edito da Theoria nel 1990. Su «il manifesto» del 9 giugno è comparsa una recensione, entusiastica, di Roberto Ciccarelli, con il titolo Le inquiete mappe di un laboratorio radicale e anti-capitalista. Non a caso quel capitolo viene definito da Ciccarelli una «aspra replica» dissenziente rispetto alle categorie di «defezione» e «esodo».

Quelle categorie sono sempre di moda, per esempio come chiave interpretativa rispetto alle cosiddette «Grandi Dimissioni». Siamo sempre lì, in fondo. Si tratta pur sempre di narrazioni che a priori dipingono la realtà come piace a noi. Un noi sempre vincenti, almeno in potenza. A questo punto Ciccarelli si lancia in una elaborata difesa, molto «francese» (di una certa filosofia francese, ce n'è altre), da cui, guarda un po', si confermerebbe che «nel libro emerge, in controluce, l’idea di una dialettica, quella del rapporto politico tra forza lavoro e capitale declinata a partire dagli scritti marxiani sul Frammento delle macchine e il General Intellect». Chi l'avrebbe detto: con Massimiliano Tomba qualche tempo fa, scrivemmo che proprio lì stava il problema.*

Sentimenti dell’aldiqua lo recensii 33 anni fa su «L'Indice dei libri del mese» (n. 5, 1990) assieme ad un libro di Simone Weil, Sulla Germania totalitaria. Sì, gli anni passano: ma io sono lento di comprendonio, e la continuo a pensare come allora. Credo che Rossanda avesse ragione. E Simone Weil non sta lì a caso. (R.B.)


(*Vedi: Letture del frammento sulle macchine: prospettive e limiti dell'approccio operaista e del confronto dell'operaismo con Marx, in «Quaderni materialisti», n. 11/12, 2012/2013, pp. 145-161, Mimesis)

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Sarebbe difficile immaginare due libri più lontani l'uno dall'altro. Per cominciare, l'oggetto sembra incommensurabile, per distanza di tempo e di contenuto. La raccolta di scritti curata da Gaeta, divisa in due parti, comprende le riflessioni che la Weil dedicò, da testimone diretta, al crollo catastrofico del movimento operaio tedesco ed alla ascesa al potere del nazionalsocialismo nel '32-'33, e poi all'indagine dei caratteri distintivi dell'hitlerismo. Il volume edito da Theoria presenta invece una serie di testi frutto di un lavoro seminariale e dedicati, come recita il risvolto di copertina, a «saldare i conti» con gli anni Ottanta. Obiettivo dichiarato è distillare dal «cattivo nuovo» del decennio appena trascorso, ed in particolare dai modi di essere soggettivi più segnati all'apparenza dalla rassegnazione e dall'acquiescenza, le linee di un antagonismo possibile. Gli autori, molti dei quali collaboratori assidui del «manifesto», sono Virno, De Carolis, Agamben, Bascetta, Piperno, Illuminati, Starnone, Colombo, Berti, Castellano, Castellani, Ilardi.

Il contrasto non potrebbe poi essere più marcato sul modo dello sguardo che si posa sulla realtà. La Weil cerca con insistenza una spiegazione dell'impotenza del proletariato tedesco, ma più in generale del movimento rivoluzionario: un'impotenza che non vuole rimuovere; di cui vuole anzi rinvenire le radici in una analisi sociale della crisi capitalistica e dei suoi effetti, come anche negli errori politici delle burocrazie di partito, socialdemocratico e comunista. Al contrario nel volume dedicato al nostro non allegro presente al centro vengon messe non le classi ma «i sentimenti del disincanto».

Accantonati come «nostalgici», «memoria» e «pietas» per chi non è sopravvissuto alla sconfitta, non si tratta di attardarsi a capire le ragioni di quest'ultima, ma di percepirne l'irreversibilità, e di riconoscere nell'opportunismo e nel cinismo l'ambivalenza. L'emergere, in altri termini, di soggetti metropolitani che nella caducità, precarietà, spaesamento di oggi trovano non solo i modi di socializzazione che li predispongono al lavoro postfordista e informatico ma anche una risorsa di critica pratica, di «esodo» dal lavoro salariato (verso dove, rimane nel vago; «uscita» tanto più misteriosa per chi tenga ancora alla obsoleta categoria di «totalità»).

Ci si chiede perché ormai a sinistra quando si vuol parlare di società e di politica si fa filosofia o, meglio, come dice di nuovo il risvolto, ci si mette in comune per un condiviso «interesse etico». Tutte cose rispettabili, per carità; e certamente consentono di parlare con tutti, senza scontare la solitudine di chi non condivide la koinè ermeneutica ed «etica» odierna. Ma, come a ragione osserva Rossana Rossanda in un commento a conclusione del volume, difficilmente tutto ciò può far da sostituto ad una indagine di come sono cambiati i rapporti di produzione.

E questa fretta di disfarsi del passato, che non stupisce in chi ha vinto, si capisce meno in chi ha perso: questa mancata «elaborazione del lutto», per riprendere ancora un'osservazione di Rossanda, impedisce di vedere nell'opportunismo e nel cinismo non tanto modalità da stigmatizzare moralisticamente ma, appunto, un risultato di rapporti di classe. Il portato di una sconfitta, insomma, in cui difficilmente può vedersi - come qui si vorrebbe - un «nocciolo neutro».

Nulla potrebbe essere più estraneo allo spirito del libro più recente di queste parole della Weil: «Si direbbe che i militanti temano le riflessioni demoralizzanti. Quanto a me ho già deciso da qualche tempo che, data l'impossibilità di una posizione 'al di sopra della mischia', sceglierò sempre, anche in caso di disfatta sicura, di condividere la disfatta degli operai piuttosto che la vittoria degli oppressori; ma quanto a chiudere gli occhi per indebolire la fede nella vittoria, questo lo rifiuto ad ogni costo».

Stare dalla parte degli sconfitti, seppellire e onorare i morti guardando in faccia la propria debolezza, comprendere innanzitutto le forze che ci vincono. Nulla potrebbe essere più attuale, se si vuole ritessere il filo della lotta al dominio, e al capitalismo.


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Massimo Di Felice


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Riccardo Bellofiore già docente di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo. I suoi interessi sono la teoria marxiana, l’approccio macromonetario in termini circuitisti e minskyani, la filosofia economica, e lo sviluppo e la crisi del capitalismo.



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