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Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi»



Quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita di Raniero Panzieri, romano di nascita e torinese di adozione, prematuramente scomparsa a soli 43 anni. È stata una figura eclettica, dal punto di vista teorico e politico: dirigente del Partito socialista, direttore di «Mondo operaio», traduttore del secondo libro del Capitale, collaborare della casa editrice Einaudi, fondatore dei «Quaderni rossi», Panzieri è stato uno dei principali intellettuali e organizzatori del movimento operaio italiano nel secondo dopoguerra. Fin dalle sue «Tesi sul controllo operaio», scritte insieme a Lucio Libertini, ha dato un contributo importante alla rilettura di Marx; analizzando l’uso capitalistico delle macchine, ha messo a critica l’ideologia oggettivistica del movimento operaio, evidenziando l’intima connessione tra scienza, tecnologia e sviluppo dei rapporti di sfruttamento. In questo articolo MarcoCerotto ricostruisce alcuni dei tratti principali della biografia politico-intellettuale di Panzieri, soffermandosi sui lasciti e sulla sua eredità. Per un approfondimento rimandiamo al suo libro Panzieri e i «Quaderni rossi», fresco di stampa nella collana Input di DeriveApprodi.


Il 21 gennaio, poi, verrà pubblicato nella sezione «scavi» un dossier, a cura di Alessandro Marucci e Sergio Bianchi, dal titolo «Raniero Panzieri: prima, durante e dopo “Quaderni Rossi”»; seguirà, il 25 gennaio nella sezione «reflex», il film di Alberto Zola e Maurizio Pellegrini «Il decennio rosso. Torino, 1959 - 1969. Dai Quaderni Rossi a Lotta Continua», con voce narrante di Romolo Gobbi.


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1. La formazione politico-culturale

Raniero Panzieri, nato a Roma nel 1921, fu un militante politico del Partito socialista italiano e un raffinato intellettuale marxiano, che animerà la discussione sul controllo operaio negli anni più critici del movimento operaio inaugurando la stagione operaista italiana. Laureatosi all’Università di Urbino nel 1946 con una tesi su L’utopia rivoluzionaria nel Settecento dedicata a Etienne Gabriel Morelly, occupò immediatamente un ruolo di spicco nel Psi, al quale si iscrisse nel 1944 per la vicinanza ai gruppetti universitari socialisti coordinati principalmente da Lelio Basso e Carlo Andreoni. Eppure Panzieri, più che da Basso, fu fortemente influenzato da Rodolfo Morandi, dal quale mutuerà la concezione del partito-strumento e la sensibilità verso le istanze gestionali del potere operaio, ossia la democrazia diretta, che di fatto lo allontaneranno dalla visione comunista e terzinternazionalista del partito-guida.

I primi scritti di Panzieri sono riconducibili al 1944 ed emerge chiaramente la volontà teorica di concentrare lo studio sull’utopia rivoluzionaria premarxista, deducibile dai suoi recenti interessi accademici, e sul marxismo riformista che ancora contribuiva a inficiare la scientificità del materialismo dialettico. È interessante osservare come entrambe le ricerche conducano all’esaltazione gnoseologica della scienza marxiana, dal momento in cui sia il pensiero politico del comunismo utopista, sia la deriva dell’austro-marxismo non presuppongono l’emancipazione umana discendente dalla liberazione della schiavitù economica. Se la critica al giusnaturalismo e all’utopismo rivoluzionario riflette l’esordio teoretico panzieriano, la critica al socialismo riformista enfatizza invece il primo approccio politico nell’ambiente del movimento operaio. Infatti, dopo l’esito del XXIV Congresso socialista del ’46, Panzieri rivolse sulla rivista del partito «Socialismo» una feroce critica alla visione saragattiana, riconducibile al revisionismo europeo della corrente austro-marxista, poiché riduceva la storia ad un «movimento ininterrotto» e affidava al proletariato il ruolo di difensore di quei valori «eterni» e «universali», i quali rispecchiavano le astratte libertà della democrazia borghese [2].

Nel periodo immediatamente successivo al dopoguerra gli intellettuali del marxismo teorico rivolgono la propria attenzione alla delicata problematica della transizione socialista che si ritiene inevitabile nei paesi con un elevato sviluppo capitalistico, collocando la democrazia socialista nel percorso lineare dell’eredità della cultura politica liberale, ossia ricercando la possibilità di un superamento positivo della democrazia borghese con la meta socialista, che rappresenterebbe una continuità storicamente necessitante. In Panzieri prevale una posizione teorica completamente dissonante rispetto alla cultura gramsciana prevalente nel marxismo ortodosso, che invece risente della notevole influenza del magister politicus dei neomarxisti italiani, ovvero Galvano Della Volpe. Con l’opera del ’46 La libertà comunista [3], il filosofo romagnolo si distingue nettamente dall’ambiente del marxismo teorico dominante, in quanto la sua elaborazione innovativa di Marx enfatizza il carattere di rottura che assume il materialismo dialettico nei confronti delle impotenze assiologiche precedenti, come ad esempio l’hegelismo e i suoi precursori proto-romantici, impostandosi piuttosto come una critica scientifica capace di mediare il rapporto tra soggetto e predicato, tra causa ed effetto, e che trova la risoluzione nel problema della praxis, dal momento che il materialismo marxiano assegna una reciprocità nel condizionamento tra le circostanze e gli uomini, e questi nel condizionarle a loro volta. Tuttavia, aggiunge Merli, in Panzieri «è vivo un momento che non è in Della Volpe», perché ereditato da Morandi, e cioè il «momento della soggettività, dell’azione come arma di critica e di metodo di ricerca» [4], che condizionerà fortemente l’attività teorico-politica con i «Quaderni rossi» e la successiva stagione operaista, risultando tout court la specificità politica dell’operaismo italiano.

Siffatta specificità politica, ossia la particolare attenzione rivolta al soggettivismo di classe, emerge vivamente sin dalle prime esperienze di lotta che videro occupato Panzieri in Sicilia nei primi anni Cinquanta, quando esplosero le occupazioni contadine e bracciantili delle terre incolte. Anche se non si trattava del soggettivismo operaio, è tuttavia in questo preciso contesto di tensione sociale, definito argutamente il «nostro punto di Archimede», che Panzieri maturò la convinzione della necessità di contrastare i burocraticismi dei partiti di classe, i quali concorrevano a frazionare seriamente il rapporto tra la base e il vertice nell’esperienza siciliana, tentando di delineare i presupposti idonei per lo sviluppo di un’organizzazione operaia realmente posta al servizio della classe. Sandro Mancini definisce questa eredità panzieriana come legata fortemente ai caratteri di un socialismo «classista» e «liberatorio», propedeutica per comprendere lo sviluppo e l’evoluzione matura del suo pensiero politico, collocandolo infatti verso i moderni sviluppi politici della «nuova sinistra» e distanziandolo invece dalle interpretazioni teleologiche della Terza internazionale, che paralizzavano il movimento operaio tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

Nell’arco temporale del quadriennio 1953-57 Panzieri viene nominato responsabile della sezione centrale stampa e propaganda del Partito socialista, il cui ruolo lo impegnerà a intraprendere una moderna battaglia culturale nei difficili anni dello dzanovismo e dello stalinismo italiano. A tal proposito, i convegni organizzati dal ’54 al ’55 si collocano coerentemente in questa delicata operazione politico-culturale, la cui finalità può essere inquadrata nell’intenzione di districare la dialettica politica-cultura dalla logica terzinternazionalista e di proiettarla verso un’impostazione positiva, che concepisse l’indipendenza della ricerca dai condizionamenti ideologici. Panzieri condivideva, infatti, con il filone del «marxismo neoilluministico» la ripulsa verso ogni concezione che si proponeva di guidare dall’esterno la lotta operaia, dal momento che tale impostazione provocava uno svilimento delle potenzialità antagonistiche e una pericolosa oggettivazione del soggetto di classe, ma anche il rifiuto della partitarietà della cultura accomunava il militante socialista con i cosiddetti «milanesi» vicini alle istanze libertarie di «Ragionamenti». Tuttavia, le principali dissonanze teorico-politiche con questi si palesarono con la visione panzieriana del partito-strumento, la quale identificava nell’organizzazione il trait d’union indispensabile per tradurre sia le esigenze politiche della classe operaia nei principali momenti conflittuali, sia per coordinare il lavoro culturale degli intellettuali che, come il partito, doveva porsi anch’esso al servizio della classe.

Nel frattempo, il movimento operaio risultava paralizzato dall’offensiva di classe neocapitalistica nelle grandi fabbriche industriali, nelle quali era in atto una ristrutturazione totale dell’organizzazione di lavoro e dell’intero processo produttivo, che andava allineandosi secondo il modello statunitense. L’allontanamento dalla fabbrica provocò la storica sconfitta della Cgil nel 1955 all’interno del più grande stabilimento industriale d’Italia, la Fiat di Torino, nel quale la potente federazione metalmeccanica di classe, la Fiom, perse per la prima volta le elezioni per il rinnovo delle commissioni interne. L’anno successivo, invece, l’«indimenticabile ’56» contribuì ad acuire la crisi del movimento operaio italiano, generando l’affermazione di differenti percorsi politici nei partiti marxisti italiani. Il Partito socialista sconfessò velocemente l’eredità del socialismo reale e cominciò ad affacciarsi gradualmente alla cultura politica del socialismo occidentale, dichiarando la propria disponibilità a riconoscere la Nato e il Patto Atlantico e coronando successivamente questo percorso con la formazione dei primi governi di centro-sinistra. Il Partito comunista, invece, confermava essenzialmente l’idoneità della «via italiana» al socialismo senza affrontare criticamente le ambiguità emerse col XX Congresso prima e con i fatti d’Ungheria dopo. Inoltre, la sordità teorica nei confronti delle principali novità tecnologiche apportate dal neocapitalismo non permetteva di superare l’impasse politica della crisi stalinista, concentrando la principale battaglia ancora sulle arretratezze del paese e sulla concezione del capitalismo «straccione» e stagnante tipicamente italiano, il cui sviluppo non consentiva un diffuso livello di agiatezza sociale per le classi lavoratrici.

In questo scenario descritto, Raniero Panzieri è uno dei pensatori politici dell’ambiente del marxismo teorico che maggiormente propone all’attenzione del dibattito politico-culturale la questione del potere della classe operaia, escogitandola come una valida alternativa per affrontare adeguatamente la crisi del movimento operaio; tuttavia, come annoterà argutamente Sandro Mancini, la deriva riformista risulterà «la vera vincitrice della crisi del ’56» [5]. La battaglia politica che aveva intrapreso nei primi anni del suo ruolo di dirigente culturale del Psi viene gradualmente arricchita dalla impellente necessità di rivolgere l’attenzione teorica e politica ai mutamenti della grande fabbrica industriale, come dimostra uno scritto panzieriano apparso su «Mondo operaio» nel 1957, rivista di cui fu nominato co-direttore insieme a Pietro Nenni. In Capitalismo contemporaneo e controllo operaio Panzieri enfatizza la natura dirompente del nuovo modo di produzione capitalistico e rilancia la prospettiva del controllo operaio nelle sfere produttive, in quanto il «controllo democratico dall’alto» [6], ossia dal Parlamento, non assume la stessa efficacia emancipativa della democrazia operaia che si instaura nel ciclo produttivo, laddove i soggetti produttori acquisiscono la reale coscienza di sovvertire la gestione privata dei mezzi di produzione. Nonostante Panzieri riconosca l’importanza della lotta parlamentare negli sviluppi politici della società moderna, la sua analisi puntava a dissacrare la concezione social-comunista della democrazia borghese e degli istituti che essa assicurava, poiché concepiti come luoghi funzionali all’asservimento del potere economico che stabiliva aprioristicamente in fabbrica le decisioni fondamentali.

L’elaborazione panzieriana di una strategia operaia imperniata sulla democrazia diretta nei processi produttivi è un’eredità della lezione morandiana che, attraverso un recupero della tradizione consiliarista, da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci, rivitalizza quei caratteri del socialismo costituiti da una forte accentuazione libertaria e classista. Infatti, la lotta in fabbrica si rivela essere l’unica strategia efficiente per elevare i lavoratori a reali protagonisti della lotta socialista, per enfatizzare cioè quel soggettivismo di classe che tra gli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta rivolgeva il suo rifiuto al lavoro oggettivato nei luoghi ove manifestamente si palesavano le principali contraddizioni dello sviluppo capitalistico, consentendo in tal modo un’evoluzione positiva del problema della libertà e della democrazia in senso socialista e non meramente riformista. Tra il Congresso di Venezia (febbraio 1957) e quello di Napoli (gennaio 1959) del Psi, Panzieri deve affrontare ciò che risulta essere la «contraddizione fondamentale» delle organizzazioni storiche del proletariato italiano in questi anni, le quali avevano «rinunciato all’uso del marxismo come strumento di comprensione e previsione delle contraddizioni sociali, come teoria rivoluzionaria per la lotta di classe» e che si presentavano negli anni della delicata transizione economico-sociale «disarmati dalla teoria, ma anche frantumati nella prassi politica» [7].



2. Dalle «Sette tesi» ai «Quaderni rossi». L’analisi del neocapitalismo e la conferma del controllo operaio

Nel 1958 Panzieri e Libertini pubblicarono sulla rivista del Partito socialista «Mondo operaio» le Sette tesi sulla questione del controllo operaio, dando vita a un interessante dibattito nell’ambiente del marxismo ortodosso che presto condannò le Tesi, bollandole come «anacronistiche». Le Tesi, infatti, esaltavano il momento della democrazia operaia nelle sfere produttive, delegittimando, secondo i dirigenti delle organizzazioni del movimento operaio, il ruolo storico del partito, che si proponeva invece di guidare l’azione strategica del proletariato. Se la concezione comunista del biennio rosso poteva essere riassunta nell’importanza di aver contribuito alla sola preparazione del partito, il tema del potere della classe operaia avanzato nelle Tesi si proponeva invece di «recare armi teoriche e politiche alla battaglia della nascente sinistra» e di tentare di colmare il divario che si approfondiva tra la classe e i partiti, evitando la progressiva socialdemocratizzazione degli stessi, come chiarisce Libertini a distanza di anni [8].

Ancora una volta, dopo un’attenta analisi teoretica rivolta al neocapitalismo, la critica principale delle Tesi è indirizzata alla battaglia parlamentarista che gli organismi classisti si proponevano esclusivamente di perseguire, mentre la necessità politica per il movimento operaio in questi anni risulterebbe quella di concentrare l’azione politica nelle sfere produttive dove hanno origine i «rapporti reali e ha sede la reale fonte del potere», come viene specificato nella Tesi n. 2, La via democratica al socialismo è la via della democrazia operaia.

Nel clima arroventato del neocapitalismo italiano, descritto molto lucidamente anche dalle Tesi, emerge un particolare soggettivismo di classe che esprime un carattere fortemente conflittuale nei confronti dell’intera società neocapitalista. A tal proposito, la rivolta di Genova ’60 assume una rilevanza storico-politica straordinaria per lo sviluppo delle successive tesi operaiste, dal momento che le giornate di luglio sono animate dalla composizione di una nuova classe operaia, la quale rappresenta un’autentica novità nella storia del movimento operaio italiano. Panzieri si era trasferito a Torino l’anno precedente per iniziare a lavorare con la casa editrice Einaudi, ormai lontano dai vertici del partito e, osservando che quella «esplosione popolare non rientrava negli schemi», affermava che le rivendicazioni operaie si scagliavano sia contro la dinamicità del neocapitalismo sia nei confronti del sindacato di classe, accusato di essere lontano dalla «realtà dei rapporti di classe». La lettura panzieriana dei fatti di Genova, commentata sul periodico della federazione torinese del Psi «La città», non era influenzata dalla strategia consiliarista sviluppata in quegli anni di crisi del movimento operaio, bensì essa afferrava concretamente l’evoluzione sociale che stava plasmando gradualmente i conflitti di classe dei primi anni Sessanta. La stessa rivista del disgelo «Passato e Presente» sentenziava che la rivolta di Genova non rientrava nelle «regole del vecchio gioco», ma anzi «assumeva il significato di una rivelazione» [9] che spiegava in qualche modo gli anni nuovi del neocapitalismo, laddove si imponeva un intervento politico diretto «nelle strutture economiche e sociali» che riflettevano incondizionatamente, come rilanciava Panzieri, la radice dei «processi totalitari di potere, che dalla grande fabbrica si estendono a tutti i livelli nel paese» [10].

Il primo numero dei «Quaderni rossi» esce nell’estate del 1961 e, condizionato dai recenti conflitti sociali nel neocapitalismo, intendeva accelerare la «svolta» della Cgil che viveva un delicato travaglio teorico-politico tra la base e il vertice e che esigeva una strategia nuova dopo il ’55. Se i partiti della classe operaia ripiegavano in una logica riformista esasperante, il sindacato di classe veniva individuato invece dagli intellettuali dei «Qr», e da Panzieri principalmente, come l’unico organismo operaio capace di avviare una strategia realmente anticapitalistica all’interno della grande fabbrica, nella quale la formazione di un’«avanguardia interna» avrebbe determinato lo sviluppo di nuove istanze gestionali. Nonostante la notevole attenzione dedicata alle «lotte operaie nello sviluppo capitalistico», come recitava il titolo del primo «Quaderno», assume un’importanza decisiva il saggio di Panzieri Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in quanto si proponeva di criticare sia le ideologie «oggettivistiche» del movimento operaio, sia la strategia parlamentarista che veniva identificata con la «via italiana» al socialismo. L’applicazione della tecnologia e della scienza nel processo produttivo era interpretata dagli intellettuali del marxismo ortodosso come indipendente dall’uso capitalistico che la nuova organizzazione della fabbrica automatizzata presentava agli inizi degli anni Sessanta, e anzi veniva concepita come necessaria per lo sviluppo industriale e per un reale miglioramento della condizione operaia. Per quanto riguarda la lotta salariale condotta dalle organizzazioni operaie, Panzieri asseriva che essa non avrebbe condotto a una totale liberazione dal lavoro salariato, ma anzi comportava «soltanto catene più dorate per tutta la classe operaia». L’arma teorica di Panzieri per entrambe le critiche fu la riattualizzazione di Marx, in particolare del Capitale e di Lavoro salariato e capitale, leggendovi nel primo la dinamica di sviluppo capitalistico con l’evoluzione della fabbrica tecnologica e nel secondo la previsione dell’aumento salariale che ne conseguiva, soprattutto quello reale oltre che quello nominale. La reificazione della classe operaia che derivava dalla funzione degradante assunta con la nuova organizzazione di fabbrica, ossia divenendo un mero sorvegliante di un macchinario a essa estranea, necessitava consequenzialmente una strategia che minasse radicalmente lo sfruttamento capitalistico nelle sue reali strutture di potere, anziché rincorrere una prospettiva di lotta salariale funzionale alla stabilizzazione del sistema capitalistico.

Eppure, durante l’apprendistato operaista in itinere con i «Quaderni rossi», Panzieri muterà l’atteggiamento ottimistico consistente nel pensare che la lotta operaia nel neocapitalismo avrebbe svelato concretamente i dualismi di potere tra il capitale e la forza lavoro salariata, maturando invece la convinzione di analizzare scientificamente i caratteri della nuova classe operaia. Dopo la rivolta di piazza Statuto [11] le divergenze tra Tronti e Panzieri divennero insormontabili per la continuazione dei lavori con la rivista e mentre il primo teorizzava la sua «rivoluzione copernicana» e la necessità di intervenire politicamente nelle lotte operaie di quegli anni, il secondo ripensava alcuni aspetti del neocapitalismo che i precedenti numeri della rivista avevano trascurato, ma soprattutto rilanciava la dimensione del controllo operaio e la metodologia conricercante per verificare scientificamente l’idoneità della democrazia operaia negli sviluppi neocapitalistici.



3. L’eredità teorico-politica dell’ultimo Panzieri

Per analizzare esaustivamente l’attualità del pensiero politico di Panzieri, risulta indispensabile prendere in esame gli scritti del suo ultimo periodo. Con ciò non vogliamo certamente affermare che il saggio apparso sul primo numero dei «Quaderni rossi» abbia perso la valenza assiologica con gli sviluppi della società post-industriale, anzi esso rappresenta un approdo fondamentale per ogni studio marxiano sulla fabbrica automatizzata; vogliamo invece enfatizzare la funzione che assumono sincronicamente e dialetticamente Plusvalore e pianificazione (1963) e Uso socialista dell’inchiesta operaia (1964) per una comprensione totale del pensiero politico di Panzieri. Il primo saggio, pubblicato sul quarto numero dei «Qr», riflette il recente contrasto con Mario Tronti sull’esaltazione della soggettività operaia espressa negli ultimi conflitti sociali, dal momento che Panzieri proponeva di indagare le radici del processo produttivo capitalistico, vale a dire la pianificazione. Il neocapitalismo palesava la capacità autolimitativa della produzione attraverso il metodo della pianificazione, la quale riusciva ad attuare una razionalizzazione scientifica persino nella sfera circolativa, esprimendo ipso facto la caducità della tesi trontiana che riconduceva lo sviluppo capitalistico al suo «ultimo stadio». L’organizzazione capitalistica del processo produttivo non risultava quindi necessariamente incompatibile con la pianificazione economica, ma anzi essa agiva sia come una condizione idonea per affrontare le problematiche derivate dalla concorrenza, sia perché regolarizzava il «caotico movimento» della circolazione, dell’anarchia della circolazione, ma soprattutto perché riusciva persino a integrare la lotta operaia nello sviluppo capitalistico [12]. Strettamente legato a quest’ultimo aspetto risulta l’intervento pronunciato da Panzieri al seminario di Torino nel settembre 1964, un mese prima della sua prematura scomparsa e per questo motivo pubblicato postumo nell’aprile ’65 sul «Quaderno» n. 5, dedicato all’Intervento socialista nella lotta operaia. Dopo lo studio sulla pianificazione capitalistica Panzieri riteneva indispensabile indagare l’elemento antagonista, ossia la classe operaia, applicando la metodologia dell’inchiesta e della conricerca per estrapolare quei risultati scientifici che avrebbero misurato le possibilità concrete dello sviluppo di una strategia anticapitalistica.

La prima parte dell’intervento era indirizzata al dogmatismo del marxismo ortodosso che ancora tacciava la sociologia di essere una mera scienza borghese, quando invece la scienza marxiana assumeva i presupposti necessari per conformarsi essenzialmente come «sociologia concepita come scienza politica, come scienza della rivoluzione», affermava convintamente Panzieri, il quale dichiarava, nella seconda parte, la necessità di estendere l’analisi teorica dal capitale alla classe operaia per «un’osservazione scientifica assolutamente a parte» [13] che questa richiedeva negli anni di transizione della società italiana. A tal proposito, l’inchiesta veniva identificata come la metodologia più indicata per indagare sulla nuova classe operaia che il neocapitalismo aveva generato; soprattutto l’inchiesta a caldo avrebbe permesso di studiare se la classe operaia si ponesse in termini conflittuali oppure antagonistici, ossia di comprendere scientificamente le esigenze espresse dalla classe operaia sia nel momento di maggior conflitto dualistico, sia e specialmente nei periodi più statici, per analizzare infine il grado di maturità e di solidarietà della classe nell’opporre un coscienzioso rifiuto al sistema capitalistico, evitando formulazioni avalutative, e cioè ideologicamente condizionate dalla forte combattività operaia espressa in quegli anni.

In questo scritto, seppur brevemente, abbiamo cercato di enfatizzare l’importanza del pensiero politico di Raniero Panzieri, la cui eredità teorica assume una particolare importanza soprattutto nei recenti sviluppi sociali, laddove l’ipertrofia tecnologica del processo produttivo dominante l’intera dialettica mondializzata ha realmente fagocitato l’essenza del lavoro umano, provocando una inedita scomposizione e «frantumazione» di classe. Eppure, se il contributo teoretico panzieriano sull’analisi del modo di produzione capitalistico, seguendo le orme di Marx, rappresenta una conditio sine qua non per lo sviluppo teorico e politico del neomarxismo italiano, non bisogna d’altro canto trascurare che esso inquadrava lucidamente e marxianamente il preciso grado di sviluppo neocapitalistico dell’Italia dei primi anni Sessanta. Il modo di produzione capitalistico ha subito una rapida evoluzione rispetto alla realtà descritta da Panzieri, ma sicuramente nello sviluppo industriale dell’Italia del boom risiede la matrice della società tecnologica dominante oggigiorno. Principalmente, l’eredità panzieriana potrebbe assumere una valenza molto importante sul ripensamento della nozione democrazia socialista, dal momento in cui il dominio inarrestabile del neoliberismo degli ultimi decenni ha completamente sconvolto la stessa cultura politica del liberalismo classico, esprimendo oltreché la natura «antiliberale in senso culturale», soprattutto l’essenza «antidemocratica sul piano politico» [14], come annotava intelligentemente Sweezy già negli anni Cinquanta, osservando anticipatamente il fenomeno neocapitalista negli Stati Uniti.

Dal ginepraio (neo)liberista della democrazia «formale», potrebbe risultare indispensabile ripensare a una democrazia «sostanziale» – per dirla con Panzieri – che coinvolga la sfera economica, e anzi che parta dalle sfere produttive per una riappropriazione dell’essenza umana della vita.


Note [1] M. Cerotto, Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi». Alle origini del neomarxismo italiano. [2] R. Panzieri, L’alternativa socialista, Scritti scelti 1944-1956, a cura di S. Merli, Einaudi, Torino 1982, p. 56. [3] G. Della Volpe, La libertà comunista. Con l’aggiunta dello scritto del 1962 Sulla dialettica, Samonà e Savelli, Roma 1969. [4] S. Merli, Introduzione, in S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panzieri, Dedalo Libri, Bari 1977, p. 11. [5] S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta, cit., p. 33. [6] R. Panzieri, La crisi del movimento operaio. Scritti interventi lettere, 1956-1960, a cura di, D. Lanzardo e G. Pirelli, Lampugnani Nigri editore, Milano, 1973, pp. 100-102 [7] D. Lanzardo, Introduzione, in R. Panzieri, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Sapere Edizioni, Milano 1972, p. 26. [8] L. Libertini, Introduzione, in Aa. Vv., La sinistra e il controllo operaio, Feltrinelli, Milano, 1969 p. 5. [9] Luglio, novembre e dopo, «Passato e Presente», 16-17 luglio-ottobre 1960, in G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli Editore, Roma 2005, p. 180. [10] R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei «Quaderni rossi» 1959-1964, a cura di S. Merli, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1994, pp. 19-21. [11] Per una corretta interpretazione della rivolta di piazza Statuto, si rinvia al noto testo di D. Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto. Torino, luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979. [12] R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, «Quaderni rossi», n. 4, Milano 1971, p. 271. [13] R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia, in «Quaderni rossi», n. 5, Milano 1971, p. 68. [14] P. M. Sweezy, The illusion of managerial revolution, in The Present as History, New York 1953, in B. Trentin, Le dottrine neocapitalistiche e l’ideologia delle forze dominanti nella politica economica italiana, in Istituto Gramsci, Tendenze del capitalismo italiano, Atti del convegno di Roma 23-25 marzo 1962, parte prima, Le relazioni e il dibattito, Editori Riuniti, Roma, 1962, p. 116.

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