Per andar oltre l’«irresponsabilità dei privilegiati»
Paul Vangelisti
Introduzione
Una delle caratteristiche di chi occupa una posizione di privilegio è la possibilità di non doversi ritenere responsabile e quindi di non dover rispondere del vantaggio tratto dalla condizione di svantaggio altrui. Joan Tronto ha efficacemente definito questo fenomeno «privileged irresponsibility» [1]. Una volta compresi la natura del privilegio e i suoi effetti sociali, mi propongo di analizzare qui i meccanismi attraverso i quali viene prodotta l’irresponsabilità dei privilegiati.
L’ignoranza delle condizioni di ingiustizia strutturale che sorreggono i privilegi è la principale fonte di legittimazione dell’atteggiamento di incuria e negligenza dei privilegiati verso le sofferenze sociali che esse possono contribuire a creare. Una delle caratteristiche del privilegio – come vedremo – è il suo carattere inconsapevole: «Non essere consapevoli del privilegio è un aspetto importante del privilegio» [2]. Da questo punto di vista l’irresponsabilità dei privilegiati ha prima di tutto una natura epistemica, caratterizzata da vizi quali la chiusura mentale, l’arroganza e la pigrizia epistemica [3]. Di fronte al fenomeno della loro ignoranza attiva nei confronti della sofferenza sociale, come si può richiamare i privilegiati alla responsabilità verso la giustizia sociale? Come si può parlare di responsabilità rispetto agli effetti di azioni inintenzionali? Può essere sufficiente agire sui singoli muovendosi su un piano psicologico, morale e/o pedagogico? Se – come vuole la tradizione pragmatista – la riflessione inizia da una situazione problematica, un ruolo fondamentale è rivestito dalla capacità degli oppressi di prefigurare attraverso una politica di protesta una diversa geografia morale della responsabilità, che imponga una rinegoziazione delle ragioni dell’impegno a stare insieme, entrando in frizione con le norme esistenti in base alle quali è organizzata la cooperazione e la divisione sociale del lavoro al suo interno e, se necessario, gli stessi fini ritenuti di valore [4]. La produzione di immaginari di resistenza presuppone, tuttavia, a sua volta, un lavoro di self-care [5], self-recovery, self-healing [6], su cui di rado è stata posta la necessaria attenzione. Si tratta – come vedremo – di una cura di sé che poco ha a che fare con la retorica neoliberale della responsabilizzazione e dell’investimento su di sé del soggetto imprenditore – una retorica, quest’ultima, che può piuttosto ascriversi tra le modalità con cui nel contesto contemporaneo chi occupa una posizione di privilegio può sentirsi esonerato dal peso della responsabilità sul piano politico e collettivo [7].
Privilegio e oppressione
Possiamo definire il privilegio come l’insieme di vantaggi sistematicamente attribuiti dalla società ad alcuni individui in virtù della loro appartenenza ai gruppi sociali dominanti, vantaggi che derivano dall’accesso a risorse materiali e simboliche e a un potere istituzionale da cui sono tagliati fuori coloro che non appartengono a tali gruppi [8]. Contrariamente a quanto sostenuto dalle teorie dell’individualismo moderno, con la loro retorica della scelta e del merito, l’esistenza di privilegi legati al fatto di appartenere ad un determinato gruppo sociale mostra il peso che nella vita di ogni individuo hanno variabili ascrittive, per le quali non si può chiamare in causa la dimensione volontaristica della scelta. L’appartenenza ai gruppi sociali dominanti si rivela, infatti, più importante delle abilità e degli sforzi individuali per l’accesso ai vantaggi di cui socialmente si gode. Riconoscere questa realtà vuole dire in qualche modo fare i conti con il fatto che, sotto questo profilo, l’età moderna non è stata realmente capace di operare una rottura radicale rispetto all’età pre-moderna, perché fattori ereditari e di status continuano a giocare un ruolo essenziale nella vita degli individui. La società moderna ci invita a pensarci come individui, ma alcuni hanno più difficoltà di altri a immaginare se stessi come scissi dal gruppo sociale al quale appartengono, non per scelta ma, prima di tutto – come direbbe Iris Marion Young –, in virtù del fatto che la maggioranza li getta al suo interno [9], riuscendo a vederli solo attraverso la lente distorcente degli stereotipi associati al gruppo sociale del quale si trovano così a fare parte [10]. Chi è membro dei gruppi sociali dominanti, tuttavia, difficilmente riconosce questa situazione. L’appartenenza ai gruppi privilegiati fa emergere in chi ne fa parte un senso di superiorità sociale che rafforza le gerarchie e le divisioni sociali. Quando anche il gruppo dominante sia disponibile a riconoscere lo svantaggio del gruppo oppresso, raramente accade che riesca ad ammettere che esso si traduce in un vantaggio di cui profitta socialmente. Così un uomo può arrivare a riconoscere l’esistenza del c.d. «soffitto di cristallo» all’interno del mondo accademico e, tuttavia, al tempo stesso continuare a credere nel mito del merito individuale quale unico fattore che determina i destini individuali.
Stando all’etimologia del termine, i privilegi sono il frutto di norme sociali ritagliate sulla condizione di uno specifico gruppo sociale (privilegium deriva dal latino privus = singolo, solo, e ligium, dalla stessa base di legem che significa legge), norme che riconosco diritti particolari a coloro che appartengono a quel determinato gruppo sociale. Nella realtà a sorreggere la dimensione del privilegio, nell’accezione negativa che questo termine ha quando si utilizza per analizzare i fenomeni del sessismo, del razzismo, dell’eterosessismo, dell’abilismo e della bianchezza, è il fatto che il gruppo sociale dominante sia stato e sia ancora in grado di imporre la norma ritagliata a sua misura quale norma universale, con l’effetto di produrre così ingiustizie strutturali, esclusione, marginalizzazione e oppressione. In questo senso il privilegio ha un ruolo essenziale nel creare e mantenere nel tempo sistemi di dominio e oppressione [11].
I gruppi privilegiati non godono del semplice vantaggio di poter accedere a risorse essenziali per la costruzione della loro capacità di agire in un determinato ambito, il loro privilegio sta in effetti nella possibilità di cumulare vantaggi [12]. Allo stesso modo lo svantaggio dell’oppresso non è mai circoscritto a un’unica dimensione, distributiva o relativa al riconoscimento, e delimitabile all’accesso a un unico bene: l’oppressione si traduce nella riduzione sistematica delle opzioni disponibili e nel fatto che ognuna di esse comporta una qualche forma di censura, deprivazione o stigmatizzazione [13]. Per Young, l’oppresso può arrivare a sperimentare fino a una combinazione di cinque diverse condizioni di oppressione: lo sfruttamento, la mancanza di potere, la marginalizzazione, la violenza e l’imperialismo culturale [14]. A più gruppi oppressi una persona appartiene maggiori sono le possibilità che sperimenti tutt’e cinque le facce dell’oppressione.
Peggy MacIntosh, riferendosi al «privilegio bianco», scrive che esso è una sorta di «zaino invisibile e senza peso» contenente un insieme di «dispositivi speciali, assicurazioni, strumenti, mappe, guide, cifrari, passaporti, visti, vestiti, bussola, equipaggiamento di emergenza e assegni in bianco» [15], insomma tutte le risorse che possono aiutare chi le possiede a orientarsi nel mondo così da trovarsi sempre a proprio agio nella maggior parte delle situazioni che si sperimentano nella vita ordinaria e quotidiana. L’assenza di peso dello zaino sembra rimandare, da un lato, al fatto che chi appartiene ai gruppi privilegiati non ha fatto nulla per guadagnare l’insieme dei vantaggi che sono a sua disposizione, dall’altro, al fatto che chi lo indossa può ignorarli, non averne consapevolezza. Sara Ahmed utilizza un’immagine diversa che restituisce, tuttavia, un’idea vicina a quella di MacIntosh: definisce infatti il privilegio sociale come «an energy saving device» [16]: non tutti devono fare lo stesso sforzo e spendere lo stesso tempo per arrivare agli stessi obiettivi; per alcuni corpi anche solo rimanere in piedi, sopravvivere, è faticoso ed estenuante. Il privilegio offre un «sistema di sostegno», una sorta di «zona cuscinetto» [17], che attutisce l’impatto di eventuali cadute, che «riduce i costi della vulnerabilità, così che se qualcosa accade, se cadi, è più facile che ci sia qualcuno che si prenda cura di te» [18].
Privilegio, ignoranza epistemica e incuria
Il privilegio dei gruppi dominanti – sostiene ancora MacIntosh – è una licenza che consente loro di ignorare, dimenticare, essere arroganti e distruttivi. I vizi epistemici dei privilegiati, cui MacIntosh accenna soltanto, sono stati oggetto di un’analisi attenta da parte di José Medina in The Epistemology of Resistance. Medina definisce i vizi epistemici come difetti «strutturali e sistematici», che si radicano in atteggiamenti cognitivi e nella struttura della personalità, arrivando a condizionare tanto la relazione con se stessi che quella che si ha verso gli altri, impedendo di correggersi e di apprendere dal contatto con l’altro [19]. Secondo Medina, questi vizi che affliggono i potenti derivano «non solo dal fatto di godere in modo sproporzionato del privilegio del sapere (o, piuttosto, di presumere di sapere), ma anche dal fatto di avere il privilegio di non sapere o di non aver bisogno di sapere. A volte ci sono interi domini con cui le persone in posizione di privilegio possono fare a meno di familiarizzarsi» [20].
Incapaci di accorgersi della propria condizione di privilegio, i privilegiati ignorano la loro ignoranza, o – come direbbe Medina sono «meta-ignoranti». La presunzione di sapere li rende arroganti, privi di umiltà, di capacità di ascolto e di apertura all’altro. Il privilegio, però, non si manifesta solo nella presunzione di sapere, ma anche nel fatto di non sapere, non aver bisogno di sapere e, piuttosto, nell’aver bisogno di non sapere. Come sottolinea Eve Kosofky Sedgwick, e con lei i teorici dell’epistemologia dell’ignoranza [21], si sbaglia ad associare il potere solo con la conoscenza: «[···] L’ignoranza è altrettanto potente e multiforme della conoscenza. [···]. L’asimmetria epistemologica delle leggi che regolano lo stupro, ad esempio, privilegia gli uomini e l’ignoranza, nella misura in cui non ha alcuna importanza ciò che vuole e prova la vittima fintanto che lo stupratore avanza la giustificazione di non averlo capito (ignoranza alla quale la sessualità maschile viene istruita con cura)» [22].
Sono molti i meccanismi con cui l’ignoranza dei potenti è costruita. Uno dei più classici è la costruzione di confini. Il confine tradizionalmente tracciato tra sfera pubblica e sfera privata, e la riduzione del privato alla dimensione di affetti e bisogni naturali, è uno degli espedienti che nella modernità ha consentito alla classe dominante dei maschi bianchi di liberarsi dal peso del lavoro di cura, assegnandone la responsabilità alle donne e alle persone di colore. L’esonero guadagnato, grazie a questa strategia della separazione e alla naturalizzazione della cura, da tutto l’insieme di gravose e monotone attività quotidiane che comporta la cura dei minori, degli anziani fragili e delle persone non autonome, il mantenimento e la riproduzione della vita ha liberato le energie maschili per altre attività, senza che gli uomini sentissero il bisogno di riconoscere la loro dipendenza da quelle stesse attività, senza che dovessero riconoscere il lavoro di cura, sessuale e affettivo da cui dipendeva la loro stessa esistenza quotidiana [23]. In altri termini, grazie all’invenzione della c.d. tradizione delle sfere separate, ovvero della separazione tra sfera pubblica e sfera privata, gli uomini hanno potuto non solo fare a meno di apprendere lo sforzo e la fatica necessari per svolgere il lavoro di cura, essi in realtà hanno anche avuto in qualche misura bisogno di non saperne e non riconoscerne il valore ai fini della riproduzione sociale, perché questo non sapere ha consentito loro di continuare a immaginarsi come individui indipendenti e autosufficienti, di mantenere in piedi il «mito dell’autonomia» [24]. La svalutazione e talvolta persino il disprezzo per tutte le attività legate alla cura dei corpi e alla soddisfazione dei bisogni umani – possibile in virtù del fatto di potersi permettere di non sapere, e quindi della mancanza di curiosità di sapere – sono risultati funzionali a scaricare sulle donne e su altri gruppi sociali oppressi il costo del lavoro di riproduzione sociale. «L’ignoranza in questo caso – come scrive Medina – funziona come un meccanismo di difesa che è usato per conservare il privilegio» [25].
Un meccanismo altrettanto importante per mantenere la condizione di vantaggio sociale dei privilegiati è la svalutazione sistematica della conoscenza e della voce dell’altro, riconducibile al fenomeno che Miranda Fricker ha definito «ingiustizia testimoniale»: il fatto di minare e sabotare la credibilità, l’autorevolezza, la capacità di ragionare e di pensare dei gruppi oppressi è un espediente potente per naturalizzare un sistema di oppressione e declinare ogni forma di responsabilità verso le ingiustizie su cui esso poggia. Storicamente, la rappresentazione delle donne quali isteriche e dei popoli colonizzati quali selvaggi, per fare alcuni esempi, sono stati potenti strumenti per costruire rigidi confini simbolici a protezione del soggetto che soltanto poteva aspirare alla pienezza dei diritti di cittadinanza: il maschio bianco. Questi meccanismi sono ben visibili e attivi ancora oggi in una molteplicità di contesti. Basti pensare agli episodi ricorrenti di pestaggi e torture nelle caserme e nelle prigioni di cui sono vittima persone la cui vita è marchiata da termini come «drogato», «carcerato» [26] o «clandestino»: la stigmatizzazione che questi termini producono crea socialmente uno svantaggio testimoniale cui si contrappone un eccesso di credibilità [27] di cui gode chi rappresenta le istituzioni e le forze dell’ordine, che può essere il terreno su cui crescono abusi e violenze.
La stessa ontologia individualista può essere considerata strumentale al mantenimento della condizione di privilegio del maschio bianco e proprietario, essa fa sì infatti che l’attenzione si focalizzi sui singoli ostacoli, o – come direbbe Marylin Frye – le singole sbarre della gabbia, che rappresenta la condizione di oppressione, senza vedere l’insieme, senza rendersi conto che c’è qualcuno rinchiuso al suo interno e che quel qualcuno non è un individuo, ma interi gruppi sociali, la cui categorizzazione, la cui identità sociale è costruita dai gruppi dominanti così che per loro sia impossibile sfuggire alle barriere che li immobilizzano e riducono ai margini della società [28]. La lettura in chiave individualista della condizione dell’oppresso, anche in questo caso, non ha solo l’effetto di invisibilizzare la condizione di privilegio; essa ha un ulteriore effetto distorsivo: responsabilizza l’individuo appartenente al gruppo oppresso per gli svantaggi di cui è vittima e in questo modo lo stigmatizza, lo rende più vulnerabile socialmente, e quindi più facilmente oggetto di violenza, misconoscimento, marginalizzazione, mancanza di potere o sfruttamento, mentre, al tempo stesso, giustifica i potenti nel loro atteggiamento di deresponsabilizzazione e incuria verso la sofferenza sociale vissuta da quanti appartengono ai gruppi svantaggiati.
L’estremizzazione del framework individualista introdotta dalla visione neoliberale ha acuito questi esiti. Il neoliberalismo come forma di organizzazione dell’economia e della società produce – come osserva Judith Butler – «condizioni di negligenza sistematica» [29], dà luogo ad una «accresciuta sensazione di sacrificabilità» [30]. L’appropriazione neoliberale del concetto di responsabilità ha comportato la sua declinazione in direzione della necessità di divenire imprenditori di sé stessi e di operare per la propria autosufficienza. Questa appropriazione ha fatto della responsabilità uno strumento per la creazione di soggettività incapaci di pensare alla responsabilità verso gli altri. Una volta che l’assunto «che gli individui dovrebbe curarsi solo di se stessi e non degli altri, o che l’assistenza sanitaria non costituisca un bene pubblico, ma una merce» cessa di apparire «una sciocchezza», come accadeva nella «cornice nominale della socialdemocrazia» [31], diviene possibile legittimare forme di «privatizzazione della cura» che aumentano la precarietà sociale e creano nuovi «soggetti dispensabili», verso i quali le politiche agiscono con un atteggiamento di «negligenza sistematica» [32]. Butler esemplifica le implicazioni sul piano affettivo, prima ancora che politico, del frame sotteso alle politiche neoliberali con un esempio eloquente: quando, durante un congresso del Tea Party, il deputato Ron Paul disse che chi era malato e non aveva potuto pagarsi un’assicurazione, o aveva scelto di non sottoscrivere una polizza assicurativa, meritava semplicemente di morire, dal pubblico in sala si levò un urlo di plauso [33]. Una reazione ingiustificabile se non alla luce di una visione in cui si dà per scontato che non tutte le vite abbiano lo stesso valore e al tempo stesso si ha la presunzione di appartenere a coloro che sono legittimati a pesarne il valore differenziale.
La cura di sé degli oppressi come prefigurazione di modi di vita alternativi
L’ignoranza dei privilegiati produce irresponsabilità, ignoranza e insensibilità verso le condizioni di sofferenza sociale vissute dai gruppi oppressi. È molto difficile per i gruppi che occupano una posizione privilegiata abbandonare il proprio stato di torpore, prendere coscienza dei propri vizi epistemici e acquisire un senso di responsabilità verso le ingiustizie strutturali su cui i propri privilegi poggiano. Il cambiamento difficilmente può avvenire grazie alla trasformazione sul piano psicologico e morale di singoli individui. Anche se la storia e la letteratura insistono spesso sul ruolo di eroi ed eroine – sul ruolo, per fare un esempio sul fronte dei privilegiati di figure come quella dell’avvocato Atticus Finch in Il buio oltre la siepe e, per contro, sul fronte degli oppressi, di figure quali Rosa Parks –, il genere di cambiamenti che può portare al superamento di ingiustizie strutturali sembra richiedere tempi lenti e masse critiche decisamente importanti – come mostrano, d’altra parte, il permanere di fenomeni quali il razzismo e il sessismo. Per stimolare un cambiamento su questo terreno è basilare l’emergere e il rafforzarsi della volontà di resistenza dei gruppi oppressi, per vedere emergere personaggi e figure come quella di Rosa Parks è necessario, ed è stato storicamente necessario, il lento lavoro sotterraneo di un intero movimento, la sua azione di tessitura di relazioni di interdipendenza e la sua capacità di creare reti di sostegno sul piano comunitario [34].
Prima che le esperienze negative degli oppressi possano trasformarsi nella prospettiva di chi le vive in quel «grido di dolore» [35] che porta alla denuncia delle ingiustizie sociali e nel tempo ad una ridefinizione delle regole di distribuzione delle responsabilità e quindi dei confini della comunità, come sappiamo dall’esperienza di numerosi movimenti sociali, dai neri alle donne, alle persone con disabilità, alle persone lgbtqi+, ai nativi, è fondamentale che si inneschi un processo interno agli stessi gruppi oppressi, un processo di «cura di sé». Un processo carsico, lento, quotidiano e comunitario che avviene, per così dire, dietro le quinte, prima che sia mostrato nella sua crudezza sulla scena pubblica il volto di ingiustizie precedentemente invisibili alla maggioranza. Sul significato di questo lavoro di cura di sé, come parte essenziale di un movimento di resistenza, – come dicevo nell’introduzione – si sono soffermate autrici quali bell hooks, Audre Lorde e Sara Ahmed. La sua importanza ha portato in tempi recenti a rideclinare la stessa idea di giustizia e a parlare di «healing justice».
L’atteggiamento di negligenza sistematica cui dà adito l’ignoranza dei privilegiati nei confronti di chi è costretto a vivere in una condizione di oppressione, descritto nei paragrafi precedenti, mette bene in luce la potenza e la radicalità di una frase molto amata e citata di Audre Lorde: «Caring for myself is not self-indulgence, it is self-preservation, and that is an act of political warfare» [36]. Per chi fa parte di un gruppo sociale che viene considerato dalla maggioranza come «dispensabile», avere un corpo, delle relazioni, il sostegno di una comunità, è un atto rivoluzionario, una rivendicazione del proprio diritto ad esistere. La necessità di assumersi la responsabilità per la propria cura di sé, di agire in modo inventivo per poter sopravvivere, per aggirare norme sociali che rendono certe vite impossibili, non offrendo loro un sistema di sostegno, d’altra parte, – come scrive Ahmed – rende creativi, dà vita a nuove forme di vita, a inedite forme di relazioni sociali. Quest’azione di «self-recovery» è una parte indispensabile di una pratica politica liberatoria, volta al successivo impegno nella lotta politica [37].
Questa visione della cura di sé ha una valenza chiaramente politica. Dobbiamo stare attenti a confonderla con la retorica neoliberale della cura di sé [38], una cura di sé individualista e privatizzata, che è divenuta una tecnologia di governo, che passa dal consumo (di creme, di terapie, di chirurgia estetica, ecc.), dall’inseguire modelli di felicità, di salute e di benessere e di successo standardizzati, pensati sulla base di una serie di assunti normativi impliciti su cosa è famiglia, amore, amicizia, sentirsi bene e in pace con se stessi. Modelli destinati a creare malessere, senso di inadeguatezza, autosfruttamento, frustrazione e ad alimentare quell’«archivio di sentimenti» negativi di cui parla la storia delle minoranze oppresse, schiacciate da norme sociali disegnate su corpi che non erano i loro e su vite diverse dalle loro [39]. Confrontandosi con l’ideale di felicità proposta da quella che oggi viene definita una vera e propria «industria della felicità» [40], femministe e attivist* lgbtqi+ non possono sottrarsi dalla responsabilità di alzare una voce dissonante, una voce che politicizza la loro esperienza personale, privata, e trasforma quella politicizzazione in un gesto di cura di sé, pur nella consapevolezza che ciò li porterà ad essere percepiti come killjoy [41], guastafeste e rompiscatole. La cura di sé degli oppressi non può permettersi di assecondare i sentimenti della maggioranza, di smussare gli angoli, di evitare gli attriti, di rimanere silenziosa: «La cura di sé in un mondo che ti nega la cura significa rivoltarsi contro l’ineguale distribuzione della vita e della morte, della salute e della malattia, della qualità della vita e della sofferenza, dei ruoli di prestare e ricevere cura, così come sono fissati dal patriarcato, dal suprematismo bianco, dal capitalismo globale e da altri sistemi di dominazione e sfruttamento» [42]. La cura di sé – come osserva ancora Michaeli –, in questo caso, parte dalla politicizzazione della cura e dalla politicizzazione del sé, dal riposizionare entrambi al di fuori del contesto individualista e astorico.
La politicizzazione del sé è legata al suo carattere situato: è il sé degli oppressi. La politicizzazione della cura deriva, d’altra parte, non solo dal suo posizionarla come valore centrale nell’ambito della riproduzione sociale e attività irrinunciabile per la riproduzione e il mantenimento della vita [43], ma anche dal riconoscere la necessità di inventare nuove e autonome pratiche di cura. Da questo punto di vista, ha un valore paradigmatico nella storia dei movimenti femministi l’esperienza della politicizzazione del trauma della violenza nei confronti delle donne e nella storia del movimento lgbtqi+ la battaglia per la depatologizzazione prima dell’omosessualità e poi della transessualità o ancora la politicizzazione della lotta contro l’AIDS. Come ricordano Serena Cangiano, Valeria Graziano, Maddalena Fragnito e Zoe Romano [44], la storia dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, dal movimento dei neri, a cominciare dall’esperienza delle Pantere nere, a quello delle donne, delle persone con disabilità e dei popoli indigeni è stata una storia di battaglie politiche e civili che sono andate da subito a intrecciarsi con rivendicazioni che toccavano l’ambito della salute e della cura, il decentramento dei servizi sanitari e un controllo comunitario del sapere medico, delle terapie e delle risorse di cura. Ancora oggi, d’altra parte, atti di cura come il soccorso prestato dalle Ong ai migranti o quello di un’organizzazione come Women on the Waves, che «organizza missioni nautiche per garantire aborti sicuri in acque internazionali» a donne per le quali sarebbe illegale l’opzione di ricorrere a pillole abortive [45], sono percepiti come azioni di ribellione. Sia nel primo che nel secondo caso, chi presta cura diviene un vero e proprio «pirata della cura» [46], entrando in conflitto con un ordine istituito che nega, criminalizza e rende illegale, l’accesso all’assistenza da parte di determinati gruppi sociali [47].
Politicizzare la cura significa anche sottrarla all’immaginario mainstream che la lega allo spazio delle relazioni familiari, all’ambito delle competenze mediche e ad una serie di attività volte «a calmare se sessi e ad apparire calmi agli altri, creando un illusoria sensazione di benessere» [48]. Nella vita di molti movimenti contemporanei la politicizzazione della cura passa da esperienze orizzontali di mutuo aiuto, da un lavoro di sostegno, cura reciproca e risposta a bisogni vitali per la sopravvivenza, tanto poco visibile quanto essenziale. Un lavoro attraverso il quale si sviluppano competenze in termini di partecipazione, cooperazione e decisione e si dà vita a momenti di co-creazione [49]. Questa attività di mutuo aiuto e collaborazione all’interno dei movimenti si riversa poi nell’energia espressa in momenti corali quali le occupazioni degli spazi pubblici e le performance che in essi si svolgono, attraverso la danza, il canto, l’urlo, il pianto, la manifestazione della propria rabbia e la volontà di corpi resistenti di apparire ed affermare – come scrive Butler – «l’istanza corporea di un insieme di condizioni economiche, sociali e politiche più vivibili, sottratte a forme indotte di precarietà» [50]. Un’istanza che appare sempre più forte di fronte alle sfide poste dalla crisi economica ed ecologica, dal cambiamento climatico antropogenico, dalla crescita delle disuguaglianze ora ulteriormente aggravate dalla sfida rappresentata dal Covid-19. Solo dalla frizione e dal confronto tra questa prospettiva e quella di coloro che occupano una posizione di privilegio può venire una speranza che questi ultimi assumano consapevolezza dei danni prodotti dall’ignoranza e dalla mancata assunzione di responsabilità politica per le implicazioni che dovrebbero derivare dalla nostra condizione di interdipendenza e dalla nostra dipendenza da sistemi di sostegno collettivo. Quelle condizioni che emergono inequivocabilmente alla luce in particolari situazioni di crisi, quali i disastri naturali e le pandemie, ma che sono ben visibili anche in tempi ordinari se si guarda il mondo dalla posizione epistemica di coloro la cui vita è considerata dispensabile, da coloro per i quali la cura di sé è una conditio sine qua non per la sopravvivenza stessa in un mondo che distribuisce in modo differenziale vulnerabilità e precarietà, lasciando che alcuni corpi più di altri corrano il rischio dell’abbandono, dell’incuria e della violenza.
Note
[1] Cfr. J. Tronto, Chilly Racists. Paper presentato in occasione dell’Annual Meeting of the American Political Science Association, San Francisco, California, 30 August - 2 September 1990 ed Ead., Caring Democracy: Markets, Equality, and Justice, New York University Press, New York 2013. Si vedano anche: M. Zembylas – V. Bozalek – T. Shefer, Tronto's Notion of Privileged Irresponsibility and the Reconceptualisation of Care: Implications for Critical Pedagogies of Emotion in Higher Education, «Gender and Education», 26, 3, 2014, pp. 200-214 e Pease 2020) e B. Pease, From Privileged Irresponsibility to Shared Responsibility for Social Justice. The Contribution of Joan Tronto and Iris Marion Young to Critical Pedagogies of Privilege, in C. Morley – P. Ablett – C. Noble – S. Cowden, a cura di, The Routledge Handbook of Critical Pedagogies for Social Work, Routledge, New York 2020, pp. 165-174.
[2] B. Pease, Undoing Privilege: Unearned Advantage in a Divided World, Zed Books, New York 2010, p. 9.
[3] Cfr J. Medina, The Epistemology of Resistance. Gender and Racial Oppression, Epistemic Injustice, and Resistant Imaginations, Oxford University Press, Oxford 2013., pp. 30-40.
[4] Cfr. ivi e C. Hayward Rile, Responsibility and Ignorance: On Dismantling Structural Injustice, «The Journal of Politics», 79, 2, 2017, pp. 396-408.
[5] A. Lorde, A Burst of Light. Essays, Sheba Feminist Publishers, London 1988; S. Ahmed, Selfcare as Warfare, «Feminist Killjoy», 25 August 2014: https://feministkilljoys.com/2014/08/25/selfcare-as-warfare/; I. Michaeli, «Self-Care: An Act of Political Warfare or a Neoliberal Trap?», «Development», 60, 2017, pp. 50-60; H. J. K. Hobart e T. Knesse, Radical Care. Survival Strategies for Uncertain Times, «Social Text», 38, 1, 2020, pp. 1-16.
[6] B. Hooks, Sisters of the Yam. Black Women and Self-Recovery, Routledge, New York 1995.
[7] Cfr. J. Butler, L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, trad. it. di F. Zappino, nottetempo, Milano 2017 e Y. Mounk, The Age of Responsibility. Luck, Choice, and the Welfare State, Harvard University Press, Cambridge-London 2017.
[8] Cfr. B. Pease, Undoing Privilege: Unearned Advantage in a Divided World, cit.
[9] I. M. Young, Le politiche della differenza, Presentazione di L. Ferrajoli, trad. it. di A. Bottini, Feltrinelli, Milano 1996, p. 59.
[10] A. E. Cudd, Analyzing Oppression, Oxford University Press, Oxford 2006.
[11] Cfr. M. Frye, Oppression, in Ead., The Politics of Reality: Essays in Feminist Theory, Crossing Press, New York 1983; A. Bailey, Privilege: Expanding on Marilyn Frye’s ‘Oppression’, «Journal of Social Philosophy», 29, 3, 1998, p. 107.
[12] E. Anderson, The Imperative of Integration, Princeton, NJ: Princeton University Press, Princeton, NJ 2010.
[13] A. Bailey, Privilege: Expanding on Marilyn Frye’s ‘Oppression’, cit., p. 107.
[14] I. Young, Le politiche della differenza, cit., cap. II.
[15] P. McIntosh, White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack first appeared in Peace and Freedom Magazine, July/August, 1989, pp. 10-12.
[16] S. Ahmed, On Feeling Depleted, «Feminist Killjoy», 17 November 2013: https://feministkilljoys.com/2013/11/17/feeling-depleted/ (ultima consultazione: 23 settembre 2020).
[17] S. Ahmed, Selfcare as Warfare, «Feminist Killjoy», 25 August 2014: https://feministkilljoys.com/2014/08/25/selfcare-as-warfare/ (ultima consultazione: 23 settembre 2020).
[18] Ibidem.
[19] J. Medina, The Epistemology of Resistance, cit., p. 31.
[20] Ivi, p. 53.
[21] S. Sullivan e N. Tuana (a c. di), Race and the Epistemology of Ignorance, State University of New York Press, Albany 2007.
[22] E. Kosofsky Sedgwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità, trad. it. di Federico Zappino, Prefazione di S. Antosa, Carocci Editore, Roma 2011, p. 37.
[23] Cfr. J. Tronto, Confini morali: un argomento politico per l’etica della cura, a c. di A. Facchi, trad. it. di Nicola Riva, Diabasis, Reggio Emilia 2014 e J. Medina, The Epistemology of Resistance, cit, p. 32.
[24] M. Fineman, The Autonomy Myth. A Theory of Dependency, The New Press, New York 2005.
[25] J. Medina, The Epistemology of Resistance, cit., p. 34.
[26] Sull’importanza del linguaggio come strumento di costruzione della realtà sociale insistono da tempo tutti i gruppi sociali oppressi. In tempi recenti è sorto negli Stati Uniti un movimento attento anche all’uso dei termini utilizzati per descrivere le persone detenute in carcere (vedi: http://prisonstudiesproject.org/language/). Parlare di «persona detenuta» piuttosto che di carcerato o detenuto, così come parlare di «persona disabile» o «persona con disabilità» invece che di «disabile», può aiutarci a non compiere l’errore di identificare chi attualmente si trova in carcere con il reato commesso e a ricordarci piuttosto il suo essere prima di tutto una persona.
[27] Cfr. J. Medina, The Epistemology of Resistance, cit.
[28] M. Frye, Oppression, cit.
[29] Cfr. J. Butler, L’alleanza dei corpi, cit., p. 23.
[30] Ivi, pp. 28-29.
[31] Ivi, p. 24.
[32] Ivi, p. 23.
[33] Ibidem.
[34] Cfr. J. Medina, The Politics of Resistance, cit., pp. 234-249.
[35] I. Young, Le politiche della differenza, cit., p. 9.
[36] A. Lorde, A Burst of Light. Essays, cit.
[37] B. Hooks, Sisters of the Yam, cit., p. 24.
[38] I. Michaeli, Self-Care: An Act of Political Warfare or a Neoliberal Trap?, cit.
[39] La nozione di «archivio dei sentimenti» è stata elaborata da Ann Cvetkovich in An Archive of Feelings: Trauma, Sexuality, and Lesbian Public Cultures, Duke University Press, Durham-London 2003. Sulla necessità di politicizzare il sentimenti negativi degli oppressi, a cominciare dalla depressione, cfr. A. Cvetkovich, Depression. A Public Feeling, Duke University Press, Durham-London 2012.
[40] S. Ahmed, The Promise of Happiness, Duke University Press, Durham 2010.
[41] Cfr. ivi e Ead., Living a Feminist Life, Duke University Press, Durham 2017.
[42] I. Michaeli, Self-Care: An Act of Political Warfare or a Neoliberal Trap?, cit., p. 53.
[43] V. anche E. Dutton, Queering Self-Care: Reimagining The Radical Possibilities of Self-Care In Healing From Sexual Assault, «Spaces Between: An Undergraduate Feminist Journal», 2, 2014, pp. 1-10.
[44] S. Cangiano –V. Graziano – M. Fragnito – Z. Romano, Prefazione di F. Bria, Cure Ribelli. Tecnologie aperte per una cura come bene comune, WeMake, Milano 2019.
[45] Ivi, p. 101.
[46] Cfr. ivi.
[47] C’è, tuttavia, tra le vicende passate e più recenti cui accennano le autrici del libro Cure ribelli una differenza fondamentale che vale la pena rimarcare: i movimenti degli anni Sessanta avevano come obiettivo un intervento concreto sulle loro condizioni di vita materiali da parte degli stessi gruppi sociali fino a quel momento oppressi. Episodi come il soccorso di migranti in mare da parte delle Ong s’iscrivono in un contesto emergenziale e di asimmetrie di potere che – al di là delle intenzioni di chi si impegna in spesso drammatiche operazioni di soccorso – può contribuire a rafforzare l’immaginare dell’Altro come mera vittima. Su questo punto critico, si veda A. Curcio, Invertire la rotta dell’antirazzismo, «Commonware», 2 luglio 2019: http://archivio.commonware.org/index.php/cartografia/893-invertire-la-rotta-dell-antirazzismo.
[48] I. Michaeli, Self-Care: An Act of Political Warfare or a Neoliberal Trap?, cit., p. 55.
[49] D. Spade, Solidarity not Charity. Mutual Aid for Mobilization and Survival, «Social Text», 38, 1, 2020, pp. 131-151.
[50] J. Butler, L’alleanza dei corpi, cit., p. 22.
Comments