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Pillole

Sulla condizione depressiva, individuale e collettiva



Pastiglie per viaggiare e pastiglie per dormire e Pastiglie per mangiare e pastiglie per sognare e Pastiglie per il bene e pastiglie per il male e Pastiglie ad ogni ora in mille mille forme


Sister staccala dal blister Siamo più selvagge di tutte queste altre artiste


Chadia Rodriguez



1. Colazione. Economia politica della psicopatologia

Se per esercizio mentale indossassimo per un attimo i soli occhiali della crisi esistenziale – individuale e collettiva – che si è approfondita durante l’ultimo anno della pandemia globale, e ci sforzassimo di accettare queste come uniche lenti per analizzare il sistema sociale, potremmo descriverne così cultura, organizzazione, soggetto: psicopatologizzazione del discorso collettivo, industria psichiatrica, malato-massa.

Si tratta di una provocazione, ciononostante una cosa è sicuramente vera e un’altra lo è solo in parte. La prima è che il tempo pandemico ha scavato negli individui i solchi di una crisi che da sociale è pienamente entrata nelle vite private, accolta dal lockdown direttamente in sala o in camera da letto, fondendo dentro sé una quotidianità inscindibile nelle sue parti, solitamente chiamate lavoro, studio, tempo libero, riposo. La seconda è che questo processo non è unicamente legato alla pandemia, infatti la precede e probabilmente sopravvivrà alla pandemia stessa. Va detto però che la questione psicopatologica non è sempre stata così definita e degna di attenzioni, per centralità nell’immaginario pubblico, numeri e intensità del fenomeno.

Negli ultimi anni si è consolidato l’intrecciarsi di almeno due processi tangibili: da una parte la parola neoliberale individualizzante e auto-normativa attraverso la quale il discorso psicopatologico si è fatto chiave di lettura dei problemi sociali, mangiando progressivamente spazio al discorso politico, divenendo linguaggio comune e metro di misura identificante; dall’altra un aumento spropositato di stati depressivi, d’ansia, stress, insonnia, psicosi e affini, diagnosticati, auto-diagnosticati, rivendicati, sbandierati.

A questo punto probabilmente va sottolineata una cosa, prendendo in prestito il lessico che di questi tempi è in voga: il punto non è il negazionismo della malattia mentale o del disagio psichico nei suoi diversi livelli di gravità, ma le questioni che l’epidemia depressivo-esistenziale (da Covid o meno) ci proietta di fronte.

Il fuoco non è neanche su cause, sintomi post-traumatici o speculazioni mediche: l’arduo compito lo lasciamo, per non scontentare i responsabili, alla filiera degli esperti nel settore. (Spoiler: di solito la causa è il rapporto con la madre.) Piuttosto ciò che preme è smarcarsi proprio dal discorso psicopatologico come centro della soluzione, appassionante virus di questi tempi incerti, e impugnare il piccone per frammentare l’industria della psichiatria - sempre più - di massa. Sul campo rimangono i cadaveri dell’emergente mercato psichiatrico in via d’espansione e delle sue innumerevoli scuole o correnti e, in secondo luogo, generazioni di disagiati psico-medicalizzati. Che venga prima il disagio e poi il mercato o viceversa poco importa, ciò che importa è leggere il tipo di rapporti che li legano e come si sostanziano i due termini.


Viviamo in una società che produce solitudine, tristezza, follia. Negarlo e non leggere le radici del disagio psichico in una più complessiva crisi di civiltà sarebbe non solo sbagliato ma anche stupido. Così come sarebbe sbagliato e stupido non vederne le forti ricadute sulle generazioni più giovani. Di conseguenza non stupisce che il settore della cura psicologica finisca per assumere non solo un presidio centrale (almeno in linea teorica), ma anche i connotati di una vera e propria emergenza socio-sanitaria.

A questo punto chiudiamo tutto e diamo la parola ai professionisti. Oppure ribaltiamo il tavolo, cambiamo prospettiva, ci facciamo insultare un po’ da quelli dotati di buon cuore e buon senso e proviamo a costruire un altro punto di vista, necessario per non annegare insieme ai depressi e ai frustrati nel mare della passività e della compassione. Perché una domanda si pone spontanea e magari qualcuno la deve pur fare: quando è successo che passare mesi a rompersi i coglioni davanti a Netflix è stato equiparato ai traumi prodotti da una guerra mondiale? Perché si, a un certo punto è successo. Allo stesso modo – in realtà succede da qualche tempo – è successo che a migliaia di bambini vivaci sono stati diagnosticati disturbi da deficit dell’attenzione, a migliaia di adolescenti tormentati sono state prescritte gocce di alprazolam (Xanax), migliaia di giovani studenti hanno iniziato ad assumere Adderall per ri-uscire. Migliaia di persone sono depresse e si identificano con questa etichetta.

Il mercato della psichiatria, dicevamo, ha trovato milioni di persone da diagnosticare. All’interno di questo circuito che si autoriproduce continuamente sui corpi e sulle menti del disagio, fioccano diagnosi per spiegare il mondo e le dinamiche sociali. Se negli anni della rivoluzione psichiatrica (vedi Basaglia in Italia), si tentava di portare i «matti» nella società (attenzione, qui parliamo di disabilità mentale invalidante), oggi ci troviamo all’interno di un processo di psicopatologizzazione della società stessa. Dalla politicizzazione della malattia mentale, alla malattia mentale della e nella società con l’estensione dei confini malato/sano per depoliticizzare le questioni sociali. Così oggi tutto è spiegabile e tutto è inseribile nel grande mondo della psicopatologia. Qualcuno dirà che con la normalizzazione del disagio mentale si elimina quel senso di colpa, di rifiuto e di imbarazzo di cui il malato è storicamente vittima. Qui diciamo che all’interno di questa universalizzazione del discorso psichiatrico si mistifica la malattia mentale e si accetta un discorso passivizzante, colpevolizzante e riproducente la questione dell’io contro la questione sociale, il protagonismo dell’interiorità solitaria contro la collettività, l’accettazione e la soggettivazione alle dinamiche di produzione capitalistica contro il rifiuto liberatorio ai ricatti sociali ed economici.

Qualcuno ora dirà indignato: e tu, chi diavolo sei per dire queste cose, cosa ne sai? Sono tua madre.


2. Pranzo. La psico-religione

Il disagio è imperante nella società e la psichiatria tutta si impegna a elargire diagnosi, cure, identità che ci permettono un auto-riconoscimento. Con la secolarizzazione della religione e la perdita di senso, la sconfitta di un’idea di un destino comune (in che senso?), individui tormentati cercano conforto e consiglio dal nuovo prete moderno, lo psicologo. Alla fine il punto è sempre quello: il bisogno di una morale grazie alla quale sopravvivere. Ti spiegherà come stare calmo e rilassato, come coniugare i tempi di lavoro con quelli di consumo, come volerti bene. Pagata l’indulgenza (100/150 euro?) alla fine ti assolverà. Uscirai dal confessionale in un amen e sarai pronto a incontrare le persone. Ti identificherai probabilmente con la diagnosi che ti ha fatto il pastore: “Ciao, che bella giornata oggi, piacere di conoscerti, io sono depresso, è una questione post-traumatica”; certamente rimarrai frustrato e pieno di problemi, ma va beh. Ti farà sentire comunque meglio che qualcuno ti abbia detto chi sei, perché sei qui, dove stai andando.

«Il corpo di Cristo». «Xanax».


3. Cena. Odiare i depressi

Se è vero che abbiamo descritto la questione psicopatologica legata a depressione e disagi esistenziali vari ed eventuali sotto il filtro dell’industria psichiatrica, elemento massificante che si incarna in certe figure professionali, è altrettanto vero che la massificazione di tale fenomeno si estende e si normalizza al di fuori del circuito professionale stesso. La potenza di questo processo si dispiega proprio oltre i confini sanitari, oltre la diagnosi medica, si innesta e fiorisce nel senso comune, nel linguaggio, nell’autoidentificazione di sé. La depressione diventa innanzitutto un’accettazione passiva della propria alterità. L’epidemia della crisi esistenziale diviene circolo che si autoalimenta continuamente dell’esaltazione dell’io individuale, preferendo ad una dimensione collettiva un io-malato qualora non sia possibile un io-sano.

Certo, le sfide che il tempo contemporaneo ci pone di fronte sono spesso folli, la richiesta della performance, essere all’altezza, rispondere a certi requisiti. Inadeguatezza, solitudine, ansia. Si potrebbero elencare all’infinito i motivi per stare male in questo contesto sociale, ma è un esercizio inutile se non si inizia a disprezzare, a odiare, a rifiutare convintamente proprio questo contesto sociale, e oggi sempre più, la propria condizione esistenziale.

Iniziare a odiare se stessi in quanto depressi, smettere di ricercare un proprio specialismo nell’essere sfigati significa rifiutare non solo una condizione dell’anima, ma innanzitutto un ruolo.

Qualcuno dirà che sto testo fa schifo, non ha rispetto, criminalizza il disagio! È senza cuore, non è sensibile!

Ed è vero. Ma per essere così schifosamente senza cuore, per parlare di questi argomenti senza troppe mediazioni è necessario cambiare la posizione da cui si guarda il processo in atto, provare a leggere le tendenze e le conseguenze che l’accettazione di un unico determinato ordine del discorso produce. In secondo luogo dovremmo chiarirci sul concetto stesso di sofferenza e ridefinirne i confini, perché col cazzo che siamo tutti uguali. Infine chiedersi se si accoglie o meno il metro psicologico come l’unico possibile, ossia leggere il mondo con la presunzione di riconoscere in se stessi e nella propria piccola coscienza interiore l’unico mondo possibile, fottendosene del resto.

Allora lasciate che qualcuno ve lo dica: fate schifo, presuntuosi bastardi. Non siete nulla di speciale. Odiatevi! E se già vi odiate, odiatevi meglio.

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