Thomas Berra
In questi anni l’idea di foresta si è rivelata un ricco serbatoio a cui attingere, forse proprio per la sua peculiarità, che è, e rimane, un essere altro da noi, inconoscibile e custode del selvatico, dell’animale, del tempo profondo da cui siamo arrivati. Restia ad ogni investigazione razionale, se ne può cogliere il profumo forse solo attraverso l’arte. Mali Weil è una piattaforma artistica costituita da Elisa Di Liberato, Lorenzo Facchinelli e Mara Ferrieri, di base a Trento. Dal 2012 sviluppa una ricerca come motore di creazione e diffusione di immaginario politico attraverso azioni che vanno dalla performance al design, all’audiovisivo. Tra queste, il progetto Forests, un processo polifonico di afforestazione che connette produzione artistica e ricerca scientifica per delineare pratiche di social dreaming.
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Free up your mind … Help us re-imagine the world in richer terms that will allow us to find ourselves in dialogue with and limited by other species’ needs, other kinds of minds … The struggle to think differently, to remake our reductionist culture, is a basic survival project in our present context. I hope you will join it.
Val Plumwood
Forests are good to think because they themselves think. Forests think. I want to take this seriously and I want to ask, what are the implications of this claim for our understanding of what it means to be human in a world that extends beyond us?
E. Kohn
Foresta è una parola bellissima.
Da qualche tempo sono diventata intima con questa parola, con lo spazio e con la selva di immagini che essa sottende.
Devo ringraziare per questo il progetto Forests, una ricerca che mi sta impegnando da qualche anno e che attraverso il connubio di linguaggi diversi tra loro come quello delle arti performative e visive, del design, ma anche della filosofia e del diritto, mi ha portata a indagare lo spazio concettuale e fisico della foresta e ad entrarvi in intima risonanza. Un duplice movimento: perimetrare e perdersi mi ha sempre accompagnata. Un approccio scientificamente rigoroso, che mappa le discipline connesse agli studi sulla foresta e – per contro – un abbandono quasi narrativo alle immagini che da secoli essa richiama in noi abitanti della cultura occidentale.
In questo mio peregrinare, mi sono da subito resa conto di quello che ormai è assodato, ovvero che la foresta e l’intreccio relazionale da cui essa è costituita si situano a livello epistemologico al centro di alcuni tra i più interessanti cambi di paradigma degli ultimi decenni. Per citarne alcuni: la presa di coscienza della multisensorialità e dell’intelligenza delle piante, o dell’importanza del network di radici e micorrize che connette gli alberi, il riconoscimento della simbiosi come elemento fondamentale per l’evoluzione della vita sulla terra che sostituisce l’idea di un mondo biologico strutturato su un modello di tipo predatorio, fino all’attuale messa in crisi da parte della filosofia del concetto di specie. Parallelamente mi sono anche resa conto come la foresta costituisca tuttora un efficiente laboratorio di sviluppo e messa alla prova di un diverso ma coerente immaginario politico. Di più di come sia strettamente necessario «passare la foresta», ovvero di come sia il momento di sottoporre determinati concetti e paradigmi politici e sociali su cui siamo soliti fare affidamento al vaglio di un nuovo modello relazionale, aperto al rapporto con differenti accezioni della parola alterità. Un modello che emerge prepotentemente divenendo intimi con la foresta.
Dato per assunto che la foresta è e rimane un «oggetto impossibile» che non possiamo far a meno di desiderare, quello che vorrei fare in queste pagine è provare a intrecciare i fili delle molteplici immagini di foresta che mi sono costruita fin qui, per vedere in azione questo «dispositivo per fare cose», in particolare nel plasmare i rapporti nel comune spazio politico che abitiamo con gli altri dall’umano. E’ infatti sempre più diffusa la sensazione di trovarsi in un impasse epocale per quel che riguarda la capacità di gestire le relazioni transpecifiche da parte degli esseri umani e la mia idea è che questo blocco sia legato a un deficit immaginativo. Per una serie di ragioni che non affronterò in queste pagine, stiamo vivendo uno stato di «underimagination». [1] In particolare credo che siano due i nodi del pensiero occidentale che ci rendono così difficile rinegoziare i nostri rapporti con l’alterità: la difficoltà di ricondurla alla forma logica della «persona» e l’impossibilità di concepire una mediazione che non poggi sulla forma del linguaggio umano. Per questo proverò a dispiegare la mia riflessione su due terreni: il diritto come modo per istituire ma anche per scardinare la nozione di persona giuridica e alcune ricerche antropologiche e filosofiche su linguaggio e semiotica. Diritto e linguaggio non sono certo le uniche vie, ma considerare la foresta come dispositivo giuridico e proto linguistico, e vederne le implicazioni, sono modalità ancora poco esplorate ma efficaci per – e qui azzardo – liberare la nostra immaginazione e le nostre narrazioni dall’incapacità di vedere diversamente il futuro.
Questi ragionamenti si intrecciano al progetto Forests e alle sue forme artistiche, ma li articolerò in due diverse parti e in due diversi testi. La prima, che leggete in questo articolo, si muove sul filo di questioni giuridiche, la seconda si avventurerà su quello, sottile, del linguaggio, una ricerca per me ancora al suo inizio. Tante cose sono già state fatte con e sulla foresta, e nulla in realtà la scalfisce. Questa sarà solo una in più.
1. Parole
Foresta come dicevo è una parola bellissima.
La sua etimologia la colloca da subito nel mondo del diritto, allontanandola da quello della botanica, dove forse ci aspetteremmo di essere immessi.
Originando dal latino foris, fuori, la foresta dichiara immediatamente la sua natura giuridica e di conseguenza politica. È lo spazio da cui siamo chiamati a stare fuori. Nata nell’alto medioevo dalla parola del re che avoca a sé un bosco per farne riserva di caccia e impone agli altri di starne fuori, la foresta rivela, per rovesciamento, di essere un tempo stata un luogo a noi intimo, familiare. Prima del bando, evidentemente, eravamo al suo interno. Prima di diventare foresta, il bosco era legato agli esseri umani da secoli di consuetudini, raccolte sotto il nome di usi civici. Raccolta di legna, di ghiande, di noci e castagne, di torba e muschio, diritto di pascolo, di pesca. Diritti comuni che regolavano l’accesso alle risorse, sovrascrivendo e negoziando costantemente i diritti di proprietà.
2. Legàmi
Per dare conto di quella natura sociale e intima della foresta potrei dimenticare re e leggi e perdermi in storie di radici intrecciate a reti fungine trasportanti nutrimenti e messaggi da un albero all’altro. Potrei seguire salmoni e orsi, indigeni e fiumi che vivono di un ritmo comune, oppure raccontare come gli abeti di douglas incontrano nematodi (minuscoli vermi cilindrici che ne divorano l’interno), che incontrano coleotteri cerambicidi, i quali a loro volta li trasportano nella propria trachea da un abete all’altro. Sono legami come questi che mi hanno rivelato la foresta come dispositivo relazionale. Ma per comprenderla come tale, devo prima assumere un concetto, quello di assemblage, nell’accezione dell’antropologa Anna L. Tsing. Gli assemblaggi sono aggregati dal finale aperto tra esseri di specie e regni differenti. Sono modi di vivere che si intrecciano producendo mondi. Incroci di temporalità e ritmi diversi che si incontrano nel bel mezzo dei vari tentativi di sopravvivere in tempi – come i nostri – danneggiati. Certo sono l’abete, il nematode e il coleottero. L’albero madre, il salmone e le micorrize. Ma anche ecosistemi allargati, combinazioni di esseri e fenomeni eterogenei, relazioni biologiche e sociali che istituiscono continuamente foreste come efficaci prototipi politici. Nella foresta innanzitutto, ma anche fuori da essa, l’assemblaggio è l’unità relazionale (e narrativa) minima delle storie che serve raccontare.
3 Storie
All’inizio de Il cacciatore celeste Calasso scrive: «Se nel mito avviene tutto ciò che poi si ripete nella storia, allora la nascita del singolo avvenne in una foresta, quando vi apparve il cacciatore». [2]
Calasso si riferisce al distaccarsi del singolo dalla propria collettività: «è quello il primo profilo solitario distaccato da ogni tribù, che ci viene incontro dalla natura. Sullo sfondo animali e piante» [3]. In qualche modo però sta anche descrivendo l’aprirsi della ferita relazionale tra umani e non umani che sembriamo incapaci di rimarginare, quel lasciarli sullo sfondo che continua a caratterizzare la politica del presente.
Ma a ben guardare la storia è più intricata, c’è anche un altro soggetto che nasce in quella foresta, dal gesto del cacciatore: «Facendo dell’animale, prima sottratto ad ogni diritto, una cosa sua, egli (il cacciatore) realizza il primo acquisto del diritto privato: l’atto con il quale, senza alcun riconoscimento sociale, egli si costituisce unilateralmente come soggetto di diritto». [4]
La cattura dell’animale sancisce un doppio ingresso nel diritto: quello dell’essere umano che diviene persona giuridica e quello dell’animale che cessa di appartenere a se stesso e entra nella categoria di res nullius.
Il gesto di appropriazione del cacciatore serve al diritto per pensare qualcosa di inattingibile all’esperienza: la primissima forma di dominio. La cattura dell’animale sembra lasciare una traccia, un vestigium a partire dal quale i giuristi hanno potuto teorizzare quel possesso iniziale.
Nella foresta, centinaia di anni fa, vengono istituite due categorie costitutive della nostra vita di oggi: il soggetto di diritto e la proprietà privata [5].
Esse segnano l’inizio di una narrativa giuridica in cui siamo ancora prigionieri, secondo la quale l’Altro da noi esiste solo in forma di risorsa di cui appropriarsi: «ultimi testimoni dell’atto mediante il quale il primo soggetto si impadronì di ciò che è suo, gli animali della terra, dell’aria e dell’acqua sembrano correre, volare e nuotare soltanto nell’attesa del loro occupante» [6].
4. Finzioni
Ho già detto di come l’unità minima relazionale e narrativa nella foresta sia l’assemblage.
Tuttavia l’assemblage resta, in quanto figura del molteplice, invisibile proprio a quel linguaggio che ha istituito la foresta: il diritto. L’impossibilità di riconoscere giuridicamente l’assemblage e dunque tutte quelle entità che sono irriducibili alla persona e all’umano, è uno dei principali ostacoli che ci impediscono di pensare e operare diversamente le relazioni con «il mondo naturale».
Per provare ad uscirne seguo il pensiero e le parole di Michele Spanò, filosofo del diritto, che in pazienti conversazioni mi ha aiutata a vedere come il diritto privato moderno sia in difficoltà quando si tratta di pensare il molteplice. «Perché un collettivo guadagni la soglia della giuridicità, esso dovrà necessariamente diventare un soggetto individuale» [7], dovremo cioè immaginarlo e trattare come se fosse uno, assegnandogli la forma della persona (giuridica).
Questo ostacolo operativo e immaginativo ammette ai fasti del discorso giuridico solo l’universale o l’individuale, cancellando quell’infinita e mobile schiera di collettivi, di ibridi, che includono tra gli altri proprio ecosistemi, assemblaggi e foreste.
«La questione dell’assemblaggio – scrive Spanò – la possibilità cioè di far entrare in diritto un puro molteplice che non è né un soggetto né un oggetto, né cosa né persona, ma che soprattutto non è un individuo, impone una rettifica complessiva dei termini del dibattito per come li abbiamo finora conosciuti». [8]
Stiamo, insomma, chiedendo a forza al diritto moderno di oltrepassare la dicotomia tra soggetto-oggetto e di ammettere nel suo consesso forme di vita in cui cose e persone, umano e non, organico e inorganico si confondono. Quegli esseri eterogenei e plurali che a guardarci bene noi stessi siamo.
5. Una breve digressione per sapere chi siamo
La termite Mastoterme darwiniensis, conosciuta come termite gigante del nord si nutre di legno: mangia alberi, mangia case. Solo che Mastoterme darwiniensis in realtà non è capace di digerire il legno. Per fortuna nel suo apparato digerente c’è un protista simbionte, Mixotricha paradoxica, che mangia il legno di cui la termite si nutre. Solo che neanche lui in realtà digerisce il legno. Mixotricha è un organismo composto, contenente un protista e almeno 4 differenti tipi di batteri. Sono loro che digeriscono il legno. Se aggiungiamo che ogni termite vive in una comunità di termiti, dobbiamo porci urgentemente la domanda: qui chi è l’individuo? [9]
Concedetemi un ulteriore spostamento: consideriamo ora che nei piani corporei dei vertebrati, tra cui Homo Sapiens, otto su dieci sistemi di organi hanno componenti che si associano con microbi. E che i microbi sono così abbondanti nel corpo umano che il numero di cellule non umane risulta almeno uguale a quello delle cellule umane. La domanda: chi è l’individuo nel caso di Mastoterme darwiniensis vale quindi anche per noi. Siamo olobionti, siamo assemblage. Siamo foreste.
Racconto questi due esempi perché mi aiutano a questionare le categorie logiche di individuo, soggetto e persona, che in modi diversi ostacolano le relazioni tra esseri umani e non umani. Ma aiutano anche a capire il motivo per cui la parola assemblaggio mi è sembrata da subito fondamentale: l’assemblaggio è un valido sostituto del concetto di individuo o, sul piano del diritto, di quello di soggetto.
Tuttavia la logica del diritto moderno oppone una strenua resistenza all’ingresso degli assemblaggi nella sua sfera d’azione. Anche il diritto, che pure l’ha istituita, deve ora, in qualche modo, «passare la foresta».
È infatti in questo modo – e qui torno alla mia proposta iniziale di fare della foresta un dispositivo – che la foresta da luogo diventa strumento operativo: essa trasforma concetti ormai obsoleti, rendendoli nuovamente operativi sul piano relazionale.
Da questo punto di vista fare foresta, forestare non è solo un riconoscimento della forza della foresta nel generare conseguenze politiche ed epistemologiche, ma è un’azione incarnata nella struttura stessa dei nostri corpi.
6. Passare la foresta
Ciò che più di tutto mi affascina del diritto è il potere di portare all’esistenza ciò che nomina. E di farlo in maniera squisitamente procedurale, come dicono gli addetti ai lavori.
È proprio sul piano delle procedure, mi suggerisce ancora Spanò, che possiamo trovare uno spiraglio per negoziare la apparentemente inscalfibile logica dell’individualità del diritto soggettivo. Per escogitare come raccogliere e offrire tutela a quei «diritti senza soggetto» o diritti trans-soggettivi, che meglio descrivono dal punto di vista legale le entità non solo umane, ma ibridi, attanti, assemblaggi vari a cui il nostro futuro è strettamente intrecciato, la categoria che sembra candidarsi è quella dell'interesse. «L’idea secondo cui l’interesse sia il vero e proprio “sostrato” della persona sovverte il suo primato (ideologico) e permette nuove operazioni (tecniche)». [10] Il «soggetto di diritto» diventa, in questa manovra un centro aggregatore di interessi e di diritti, che possiamo finalmente immaginare plurale, indeterminato, liberato dalla forma della persona: «allora potrà darsi il caso in cui esistano più soggetti per uno stesso diritto e che a esserne titolari siano soggetti indeterminati». [11]
Ma le mie domande alla foresta vanno oltre il diritto: quali procedure, quali dispositivi posso immaginare per pensare, per trattare le relazioni con gli altri dall’umano? E una volta immaginatili come posso renderli operativi, reali?
7. Sguardi
Per comprendere e gestire le complesse relazioni che abitano la foresta, da sempre ci sono serviti altrettanto complessi sistemi narrativi, miti e cosmologie che si traducevano in strutture sociali, pratiche rituali, sistemi giuridici.
Quando l’antropologo Edoardo Kohn si accinse a trascorrere la notte nella foresta amazzonica, ai piedi del vulcano Sumaco, una delle sue guide locali, appartenenti all’etnia dei Runa, lo mise in guardia: «Dormi a faccia in su! Così se arriva un giaguaro, vedrà che lo puoi riconoscere e non ti attaccherà. Se dormi a faccia in giù, penserà che tu sia aicha (una preda) e ti attaccherà». [12]
Se mi sposto nelle foreste dell’India scopro che uno dei modi per sfuggire all’attacco delle tigri era indossare una maschera di un volto umano sulla nuca. Le tigri mangiatrici di uomini infatti attaccano alle spalle e la maschera le priva di questo stimolo.
Nella foresta lo sguardo dell’altro conta. Come una tigre o un giaguaro ci vedono, prede o predatori, fa la differenza tra vita e morte. Perciò homo sapiens, antico abitatore di foreste, ha elaborato una tecnologia dell’immaginazione adatta a comprendere e a gestire lo sguardo dell’altro. Una tecnologia che per millenni è stata alla base della sua sopravvivenza di specie e che ancora le popolazioni che sono in intimità con le foreste praticano quotidianamente: l’animismo, o con riferimento alla cultura amerinda il prospettivismo.
Al centro di questa «macchina cognitiva» [13] vi è ancora una volta il concetto di persona, ma declinato al servizio delle relazioni con i non umani:
«Secondo la visione amerindiana il mondo è popolato da diversi tipi di attanti: umani, animali, spiriti, piante, defunti, fenomeni atmosferici... quando gli animali o gli altri non-umani guardano sé stessi, si vedono come umani, come persone, mentre vedono noi umani come non-umani (di volta in volta prede o predatori, o magari come spiriti). Vedendosi come umani, gli animali, ad esempio, percepiscono il loro cibo come un alimento umano, i loro attributi fisici (pelo, becchi, penne etc.) come ornamenti e perfino il loro sistema sociale è organizzato secondo istituzioni umane (con capi, cerimonie, etc.). Ad esempio ciò che per noi è una pozza di fango, per il pecari è una casa cerimoniale. Gli avvoltoi vedono i vermi nella carne morta come pesci grigliati. Ciò che per noi è sangue, per il giaguaro è birra». [14]
La foresta è allora – anche – un dispositivo della visione che permette di vedere e di essere visti in modo differente. Di vedere anche gli altri come persone. Di mobilizzare la categoria di persona.
8. Segni
In linguistica vale l’ipotesi di Sapir-Whorf che dice più o meno questo: i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo.
È per questo che le relazioni con gli «other-than-human» sono così difficili da pensare. E più queste alterità sono lontane da noi morfologicamente, biologicamente, più entriamo in un deficit immaginativo e relazionale. Se ci sentiamo abbastanza sicuri di noi quando si tratta di stabilire relazioni con un mammifero, un cane, un gatto, uno scimpanzé, un elefante, perché siamo inclini a riconoscere in loro individualità, personalità, forme di intelligenza e comunicazione. Ma come la mettiamo con i vegetali o con i batteri che abitano il nostro corpo e con i virus che lo attaccano? E con montagne o foreste, coste e barriere coralline?
Ancora è la foresta che ci mette di fronte (o ci aiuta ad affrontare) i limiti del nostro linguaggio. È il linguaggio che ci ha costruiti come esseri umani e ha segnato i nostri confini. Il viaggio che dobbiamo intraprendere è allora un viaggio al di là del linguaggio.
Note
[1] Per una generale trattazione del problema dell’immaginare nell’antropocene rimando a Matteo Meschiari, La grande estinzione. Immaginare ai tempi del collasso, Armillaria, 2019.
[2] Roberto Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi, 2016
[3] ibid.
[4] Yan Thomas, Imago naturae. Nota sull’istituzionalità della natura a Roma in Yan Thomas, J. Chiffoleau, L’istituzione della natura, Quodlibet, 2020
[5] A ben vedere nella foresta si istituisce un doppio regime di proprietà: quello della proprietà privata ma anche quello dei commons, delle res communes, che non possono entrare nel patrimonio di alcuno. Non è un caso che uno dei primi documenti scritti in difesa degli usi civici e dei diritti di “every free man” sia proprio la Charter of the forest, firmata nel 1271 da re Enrico III d’Inghilterra.
[6] Y. Thomas, J. Chiffoleau, op cit, pag. 30
[7] Michele Spanò, Più d’Uno. La class action tra “tortificazione” del diritto civile e tramonto del diritto soggettivo, Parolechiave 2, 2018, pp 149-164
[8] Michele Spanò, “Perchè non rendi poi quel che prometti allor?” Tecniche e ideologie della giuridificazione della natura in Y. Thomas, J. Chiffoleau op cit.
[9] La storia che ho qui riportato di Mastotreme Darwiniensis è ripresa da Scott F. Gilbert, Holobiont by birth in AA.VV. (a cura di), Arts of living on a damaged planet, University of Minnesota Press, 2017
[10] Michele Spanò, op. cit. pag. 122
[11] ibid.
[12] Eduardo Kohn, How Forests think, University of california press, 2013
[13] cfr Matteo Meschiari, op.cit. pag. 39
[14] Mali Weil, The shining reveries of unruly objects. Note sugli oggetti performativi, Bruno, 2020, pag. 27
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