Louisa Yousfì ha scritto un libro che si legge tutto d’un fiato. Uno spaccato crudo e appassionato sugli effetti violenti e inevitabili delle politiche di integrazione. Sulle pericolose ambiguità di un antirazzismo che vittimizza, sui rischi sempre aperti della glamourizzazione della razza.
Restare barbari è una «formula magica». Non un principio estetico ma un’indicazione politica: resistere alle sirene dell’Impero. I barbari non cercano ciò che erano ma vogliono resistere a ciò che stanno diventando. È una critica senza sconti alla civiltà occidentale e i rapper di banlieue i suoi più degni interpreti: «Amico, sono selvaggio e urlo ounga wawa / Ounga ounga, la mia Glock punta la spia (…) / So di non essere integrato / Cerco il mio interesse / Le mie mani sono nella merda, ma sono state fatte per seppellirle» (PNL, Différents, Qlf, 2015).
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(...) Asciugate le lacrime. I barbari non sono selvaggi che si sarebbe dovuto frustare di meno, umiliare di meno e coccolare di più; selvaggi maltrattati dalla civilizzazione. Osservate come si sentono all’apice della critica quando lo sostengono, quando affermano che non siamo altro che la somma delle nostre frustrazioni, che non siamo altro che ciò che il loro mondo non ha voluto darci. Con falsità e astuzia, fingono di difenderci invocando la nostra vulnerabilità, la nostra follia, la nostra irresponsabilità, la nostra bestialità. Dopotutto, non giudichiamo un uomo e un animale allo stesso modo, no? Pensano di essere astuti come un avvocato ma come giudici ci condannano a rimanere vittime, le loro vittime, prive di raffinatezza morale e profondità psicologica. Questa è la loro grande scoperta: il nostro «imbarbarimento» è il fallimento dell’integrazione, dicono. Per salvarci dai nostri mostri, abbiamo bisogno di essere integrati meglio, di sederci finalmente alla loro tavola e di essere trattati con attenzione particolare. Come i bambini o le persone malate. Piccole vite spezzate, profughi. Sfortunato il barbaro che declinasse l’invito! Dall’altra parte, avvertono, ci sono i veri nemici, quelli che sostengono apertamente il contrario: che siamo colpevoli, ontologicamente colpevoli, che la colpa la ciucciamo col latte di nostra madre. Da qualunque parte guardiamo, il vizio minaccia di avvizzirci o sfigurarci. «Delle larve o dei mostri» [1]: non c’è formula più azzeccata per descrivere la tragedia della condizione barbara.
(…) Fottuti. Siamo fottuti, fottuti, fottuti. Quando crediamo di ribellarci, ci stiamo distruggendo. Quando pensiamo di affermare noi stessi, stiamo negando noi stessi (…) È un intreccio di liberazione e orrore, di bellezza e bruttezza. Provate a districarvi e vedrete. È impossibile. È un groviglio inestricabile, stretto come un pugno e come un pugno, a volte, proviamo a sbatterlo al muro. Che aria abbiamo? Quella di una banda di matti. Nel migliore dei casi, individui sospetti da tenere sotto stretta osservazione. Come possiamo non finire per credere nella nostra bruttezza e, così facendo, per arrenderci a essa? Semplicemente raccontando il determinismo sociologico di cui questo è frutto? E poi, cosa dovremmo farci? La tragedia è che già ci crediamo. Ne siamo persino intimamente convinti. Quando parliamo di noi tra di noi, lo ammettiamo con fatica. Mai davanti a testimoni, ovviamente. Ma tra di noi, lo diciamo come per dire: ci conosciamo. Quando fuori brucia qualcosa, sussurriamo tra noi stessi la solita previsione: un altro arabo, di sicuro. Ci vergogniamo un po’. Ed è vero che a volte siamo sollevati dal poter contare sulla narrazione sociologica. Raccontiamo tutte le nostre disgrazie di persone poco integrate, tutte le ingiustizie di cui siamo stati vittime. Il disprezzo, il rifiuto. Anche noi ci crediamo. Ed è vero che è vero. Da qualche parte è vero. Ma in fondo, pensiamo sempre segretamente: c’è qualcosa che non va in noi, precisamente in noi. Non siamo normali. E i poveri civilizzati devono sopportarci. È quello che dice mia mamma. Si vergogna di tutte le stronzate degli arabi in questo paese. I poveri, dice, parlando dei veri francesi, i poveri, devono sopportarci. E aspetta il giorno in cui smetteranno di farlo. Un giorno pagheremo per essere stati così brutti mentre loro erano così belli. Poi, a loro volta, potranno diventare un po’ brutti ma sarà solo per correggerci e potranno tornare a essere belli, come se non fosse successo nulla. Ne ha già fatto esperienza quando era indigena in Algeria. Ora si comporta come se non fosse successo nulla ma si ricorda qual era l’aspetto che celavano dietro le belle maniere. Lo ricordiamo tutti. Ma il più delle volte ce ne dimentichiamo. Li troviamo di nuovo bellissimi. Il trucco della civilizzazione riproduce continuamente l’illusione. Francamente, per cosa vuoi competere con l’Occidente? Hanno inventato l’innocenza. Hanno massacrato interi popoli e, nel frattempo, fondato Walt Disney. E noi, accanto, tutti patetici, tutti malmessi, come facciamo a continuare ad amarci e a rispettarci?
Come facciamo a non sprofondare nel «risentimento della vittima» o in sfoghi omicidi, come dicono tutti?
(…) L’imbarbarimento è un processo di integrazione. In che modo questa espressione si discosta radicalmente dalle pessime argomentazioni che attribuiscono la violenza dei barbari allo scempio prodotto dal sistema razzista? Diranno che stiamo cavillando come ogni volta che cerchiamo di parlare della nostra dignità. Ma la differenza è davvero sostanziale. È persino un contro senso. Dire che l’imbarbarimento è un processo di integrazione non significa sociologizzare le ragioni dei nostri mostri interiori, tracciando la genealogia di tutte le nostre carenze in termini di civilizzazione, ma vuol dire: i nostri mostri non nascono da una mancanza di voi ma da un eccesso di voi – troppa Francia, troppo Impero. Nascono al vostro contatto ed è sempre al vostro contatto che prendono forma e, poco a poco, determinano la loro missione (auto)distruttiva. Ecco perché né voi né tutto ciò che proponete come narrazione della salvezza indigena attraverso l’integrazione può davvero salvarci. Nulla di questo mondo può salvarci, non solo perché una cosa non può essere al contempo il veleno e la sua cura ma anche perché non siamo noi a dover essere salvati. È la famosa storia dei sani di mente in un mondo di pazzi. Quando il mondo è malato, quelli che hanno bisogno di essere guidati non sono coloro che resistono alle sue leggi ma tutti gli altri. Al fondo dell’abisso identitario che ci impone la civilizzazione, non siamo più noi a dover essere compatiti. Cogliamo meglio le nostre possibilità: noi stiamo bene ma loro? Immaginate di essere al loro posto, gli eredi dell’Impero… Solo per pochi secondi. Tutti i demoni della Storia cadrebbero sulle nostre teste in un colpo solo. Figli di nazisti! Figli di coloni! Figli di schiavisti! Figli di genocidi. Gli studi culturali sulla loro razza – i white studies – parlano solo dei loro privilegi. Questo è fondamentalmente ingiusto. Parliamo anche di tutto ciò che gli manca. A partire dai valori di cui ancora oggi rivendicano l’originale produzione: l’umanesimo, l’universalismo, la democrazia, la fraternità, la libertà d’espressione… Si può quasi capire perché c’è chi preferisce abbracciare con orgoglio il crimine. Dopotutto, tenersi stretti i propri difetti è anche una questione di onore. Vai a sapere cosa passa per la loro testa. L’imbarbarimento dell’Europa non è solo un racconto, ci ricorda Césaire.
Ah, li sento avanzare! Dicono: quando siete brutti è un riflesso della nostra stessa bruttezza ma quando siete belli è la vostra stessa bellezza. Bell’affare!
In qualche modo hanno ragione e non posso fare a meno di sorridere quando li immagino prenderci in parola e scaldarsi per difendere il loro stesso onore. Sono commoventi nella loro insistenza. Perché anche loro tengono alla loro bellezza. Non capiscono che abbiamo un bisogno vitale di questo trip dell’ego decoloniale. Abbiamo bisogno che ci inebri di orgoglio, abbiamo bisogno che la nostra bellezza venga esaltata, iperbolizzata. Il nostro bisogno di essere fieri è impossibile da saziare. Questa narrazione, ritagliata lungo i bordi per soddisfare quella che chiamano indulgenza comunitaria, è una menzogna che dice la verità. Bisogna lasciare che colonizzi i nostri cervelli perché è l’unica in grado di competere con le forze narrative dell’Impero. L’unica che offre una fonte di luce per i nostri figli, che indica una direzione, un orizzonte. L’unica che dobbiamo seguire. Né larva né mostro. «Oh, cari miei, statemi a sentire. Laggiù, non amano il vostro collo, bello dritto senza cappio. Perciò amate il vostro collo, metteteci una mano sopra, trattatelo bene, carezzatelo e tenetelo dritto» [2].
Che i civilizzati evitino dunque di insistere sul nostro destino. Siamo noi che dovremmo piangere per loro. Siamo noi che possiamo salvarli. Non è mai successo il contrario, in nessun modo e in nessun momento della storia. Ci sono delle sfumature? Ma dai, da quando si preoccupano delle sfumature? Ovviamente, dal momento che vanno a loro favore. In Amatissima, Paul D. ha per loro una risposta. Sethe, ex schiava, gli racconta che una ragazza bianca l’ha «aiutata» a fuggire. Paul D. l’interrompe e la riprende. Non dire mai così, evidenzia le sfumature, è stata lei a essere salvata. Quando i civilizzati tradiscono la loro razza a favore dei barbari, stanno cercando la loro stessa salvezza, la loro stessa bellezza. E Dio sa quanto sia bella la loro bellezza quando appare; Dio sa come sappiamo riconoscerla e come sappiamo piangere la memoria di tutti i Fernand Iveton e Maurice Audin. Sì, esiste una storia di dignità bianca e, proprio in quanto dignità, non si affanna a sfumare la narrazione barbara della colpevolezza bianca. Illumina la storia di un padrone che ha imparato dal suo servo lo stadio più alto della dialettica: quando è lo stesso servo a insegnare al padrone il significato della libertà. Non solo della sua, negata e disprezzata, ma anche di quella del padrone, alienata in un rapporto destinato alla reciproca distruzione. Paradiso per tutti oppure inferno per tutti.
(…)
Note [1] H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie, Roma 2017, p. 83. [2] Morrison, Amatissima, cit., p. 125.
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Louisa Yousfi è giornalista e anima il blog politico «Paroles d'honneur». Figlia di algerini immigrati in Francia, con questo libro denuncia il conflitto assimilazionista che le politiche delle istituzioni francesi non smettono di alimentare da almeno mezzo secolo.
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