Pochi luoghi al mondo possono incarnare meglio l’idea di wilderness come l’Oceano, luogo altro per eccellenza, dove la nostra vita di umani non è prevista, e che ha sviluppato un immaginario potente da sempre, passando dai viaggi alle avventure dei pirati, alle opere di scrittori come Melville, London, Conrad, Hemingway che ne hanno cercato di esplorare misteri e immensità. Ma lui, l’oceano, che ne pensa?
Immagine: Ahmed Muhiddin Piri (Piri Reis), Mappa della costa Est della Calabria, 1467/1554 circa.
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Oceano antropocenico
I cratoni sono zone delle terre emerse passate indenni dalle fusioni e separazioni dei continenti per almeno 500 milioni di anni. I più antichi sono quello di Kaapvaal in Sudafrica e di Pilbara, nella parte occidentale dell’Australia. Sono gli unici resti della crosta terrestre originale e, 3,3 miliardi di anni fa facevano parte del primo continente, chiamato Vaalbara dall’unione dei loro due nomi. Da allora esistono le terre emerse e la nostra attenzione di animali terrestri si concentra volentieri su di loro, lasciando in secondo piano il fatto siano emerse da qualcosa. Quel qualcosa è quello che viene chiamato mare. Ma da quanto tempo esiste il mare? Sembra che l’acqua allo stato liquido sia presente sul pianeta da 4,4 miliardi di anni e ha preparato l’ambiente per lo sviluppo della vita, le cui prime prove arrivano 2,7 miliardi di anni fa, proprio all’interno di quel misterioso largo oceano da cui emerge una Vaalbara totalmente asciutta, probabilmente tormentata e, pare, priva di qualsiasi forma organica vivente.
Mandando avanti la moviola del tempo arriviamo a meno 2,33 miliardi di anni. C’è chi si organizza e scopre come usare al meglio l’oceano e l’altra cosa che ha a disposizione, la luce. Li chiamiamo cianobatteri, sono quelli che hanno inventato la fotosintesi. Loro stanno meglio, ma per tutti gli altri è una catastrofe, la prima della storia della vita. Il problema è che la fotosintesi libera nell’atmosfera un gas letale per chi non sa usarlo, si chiama ossigeno e ha altri effetti secondari, il cielo diventa azzurro e la temperatura comincia a scendere dappertutto, fino a quando, tra 715 e i 579 milioni di anni, tutto il pianeta, sia l’oceano che il megacontinente che nel frattempo si è trasformato in quello che viene chiamato Rodinia da 1,3 miliardi di anni, congela almeno tre volte completamente, trasformandosi in una immensa palla di neve orbitante intorno al sole. Nel frattempo il megacontinente emerso si trasforma concentrandosi nella zona del polo Sud dando origine, tra i 600 e i 540 milioni di anni, alla Pannotia. È in quel periodo che nell’oceano appaiono i primi sistemi multicellulari complessi, forme completamente differenti da quelle che conosciamo, una linea della vita ancora molto misteriosa chiamata fauna di Ediacara, che si estingue quasi completamente 541 milioni di anni fa. È dai superstiti di quella catastrofe che derivano tutte le forme viventi odierne, comprese quelle che intorno a 443 milioni di anni fa iniziano a lasciare le acque per popolare le terre asciutte che si stanno muovendo a formare l’ultimo megacontinente, la Pangea, 290 milioni di anni fa.
Da allora molte cose sono cambiate, e nella prospettiva geologica in cui ci siamo mossi sinora, i sei milioni di anni in cui gli ominini hanno iniziato il percorso fino all’arrivo di Homo Sapiens appena 300 mila anni fa, sono un’inezia. Eppure la nostra specie, almeno da quando ha deciso di diventare stabile e ha iniziato a spartirsi le terre emerse e i mari, è stata in grado di interferire fra quegli equilibri delicati che legano indissolubilmente ogni cosa si muova o stia ferma sul pianeta in un lasso di tempo infinitesimale pari a poco più di 10.000 anni, con una accellerazione notevole negli ultimi due secoli. La parola che abbiamo trovato per indicare questo periodo, che in uno strato geologico corrisponderebbe a meno dello spessore di un foglio di carta, è Antropocene.
Quando noi Sapiens siamo apparsi, il mondo era più o meno come lo conosciamo oggi, ma noi non lo sapevamo. Abbiamo dovuto percorrelo, esplorarlo, andando a piedi, facendoci aiutare da altri animali e costruendo strumenti per navigare. Zattere, canoe, piccole e grandi imbarcazioni, la storia della navigazione coincide con quella della scoperta del mondo e con l’immenso e fantastico immaginario che si porta dietro. Qual è la forma del mondo? Ce lo siamo chiesti da sempre e abbiamo iniziato a disegnarlo, e quella forma, quelle linee che tracciavamo erano sempre il confine fra l’acqua e la terra, fra l’immenso oceano e i luoghi che noi possiamo abitare. La storia della forma del mondo è quella dei confini fra terra e mare che tracciavano i primi navigatori, una storia di resoconti di viaggi che nessuno poteva dire se reali o immaginari, di libri persi come Sull’Oceano di Pitea il Marsigliese di cui Strabone e Polibio dicevano si fosse inventato quel viaggio che verso il 350 a.C. l’aveva portato fuori dalle colonne d’Ercole, a Nord attraverso il Mare Esterno fino al mare di latte di quella che non si chiamava ancora Groenlandia. Storie di viaggi su commissione, come quelli promossi dal re normanno di Sicilia Ruggero II che volendo una «descrizione della terra fatta tramite diretta osservazione e non seguendo i libri», incarica un gruppo di fedeli di fare il giro del mondo con un seguito di disegnatori. Una volta tornati, questi hanno il compito di raccontare e mostrare al geografo Al-Idrisi ciò che avevano visto coi propri occhi e lui quello di redigere in bella forma i loro resoconti in quello che sarà il Libro del piacere di chi anela varcare gli orizzonti, più conosciuto come Libro di Ruggero, redatto nel 1153. Che trasformazione hanno avuto quei luoghi passati dagli occhi dei navigatori e trasformati in racconti e disegni fino ad arrivare ad Al-Idrisi che per scriverne avrà dovuto reimmaginarli? Qual è il confine fra resoconti di viaggio e letteratura fantastica? Cos’hanno visto i viaggiatori e cosa inventato o immaginato di vedere? Quelle visioni, vere o immaginate, danno forma al mondo descrivendo l’ignoto nei termini della meraviglia e traducendole in mappe di un reale fantastico, come fece Hartmann Schedel, nel Liber Chronicarum stampato a Norinberga nel 1493 sulla base del Collectanea rerum memorabilium di Gaio Giulio Solino che dal 250 a.C. ha influenzato la forma del mondo fino a tutto il Medioevo.
Oggi, tra le isole dell’Antropocene, i viaggiatori di Ruggero ne troverebbero una immensa nell’Oceano Pacifico, con le medesime caratteristiche di imprendibilità e impossibilità a essere definita, alcuni dicono grande come la penisola Iberica mentre altri parlano di 10 milioni di km quadrati. E il nostro viaggiatore non riuscirebbe a riconoscere il meraviglioso materiale di cui è composta perché ai suoi tempi ancora non c’era, sarebbe stato inventato e prodotto solo negli anni trenta del Nocevento, e chiamata popolarmente plastica. Una materia dalle caratteristiche invidiabili, pressoché indistruttibile, capace di prendere qualsiasi forma, resistente, con la quale poter fare cose immense e minuscole, che per di più invece che costare moltissimo come si converrebbe a una materia così piena di risorse, costa meno di qualsiasi altra, una vera meraviglia. Ma continuando a viaggiare scoprirebbe che praticamente ogni mare ha la sua isola di plastica, arrivando a contarne almento sette. Certo i viaggiatori di Ruggero si chiederebbero come mai un materiale così prezioso venga gettato via, e soprattutto come mai, essendo indistruttibile venga usato per cose che devono durare un giorno o una volta sola, ma non faticherebbe a trovare la risposta, l’avidità era nota anche ai loro tempi.
Ai tempi di Google Map, invece, il mare antropocenico ha poco a che vedere con viaggi ed esplorazioni e molto di più con lo sfruttamento di chi lo abita. Secondo i dati Fao ogni anno circa duecento milioni di tonnellate di pesce ci forniscono la media dei 20 chili che consumiamo a testa. Di questi, 9 prevengono dalla pesca e 12 da un’acquacoltura. Perfettamente in linea con le colture intensive degli altri animali, le acquacolture rilasciano annualmente quarantatré milioni di tonnellate di gas serra consumando acqua, ossigeno e elettricità, producendo rifiuti e liquami che vengono naturalmente scaricati in mare, ma soprattutto consumano moltissimi farmaci perché negli ambienti in cui vivono, i pesci sono costretti a un sovraffollamento che è causa continua di malattie, esattamente come avviene negli allevamenti a terra. Dal 2013 inoltre tra i mangimi sono diventati legali quelli prodotti da farine animali, un terzo dei pesci allevati diventa forage fish, serve a fornire alimentazione per altri pesci e per bovini e suini. Nella pesca la situazione non è migliore, ci sono specie a rischio estinzione e zone ormai esaurite, la pesca del tonno per esempio è aumentata di mille volte negli ultimi sessant’anni.
Ma dal mare antropocenico può arrivare un effetto in grado di alterare totalmente la minuscola nicchia ecologica in cui noi umani riusciamo a sopravvivere. Attraverso le alghe e il fitoplancton gli oceani assorbono due terzi di tutta l’anidride carbonica presente sul pianeta, molto più di tutte le foreste del mondo messe insieme. Il vero polmone verde del pianeta in realtà è blu. Il probelma è che quando la temperatura degli oceani supera una certa soglia l’acqua in superficie non scende più come fa normalmente e quella più fredda in profondità smette di salire. In queste condizioni il fitoplancton non riesce a sopravvivere e muore spezzando l’equilibrio, l’anidride carbonica non viene più assorbita e le temperature del pianeta salgono uletriormente. Tradotto, uno dei veri problemi del riscaldamento globale sta nella delicatezza di questo equilibrio marino, bastano un paio di gradi in più a spezzarlo.
Pochi luoghi al mondo possono incarnare meglio l’idea di wilderness come l’Oceano, luogo altro per eccellenza, dove la nostra vita di umani non è prevista, e che ha sviluppato un immaginario potente da sempre, passando dai viaggi alle avventure dei pirati, alle opere di scrittori come Melville, London, Conrad, Hemingway che ne hanno cercato di esplorare misteri e immensità. Ma lui, l’oceano, che ne pensa?
L’oceano e la plastica
Ora che tutto è finito, ora che il gelo ritorna, mi scalda ricordare quello che è stato l’ultimo grande amore della mia vita. È passato molto tempo, molte cose sono cambiate, ma il suo ricordo continua ad accompagnarmi, costantemente, forse perché è stato proprio questo che mi fece innamorare di lei, la sua costanza, la sua presenza, più tenace di quella di chiunque altro avessi mai conosciuto. Per secoli, per millenni mi è stata accanto, poi, lentamente, anche lei si è dissolta, ma io so che non se ne è andata via del tutto, solo, non ha più il vigore e la forma di allora, si è frantumata in miriadi di scintille che continuano a vivermi dentro, come si fosse dissolta in me, siamo diventati davvero una sola cosa, uniti per sempre, o almeno questo è quello che voglio credere in questa mia assoluta, ultima solitudine.
Quando l’incontrai per la prima volta non le feci molto caso. Già allora non ero certo di primo pelo, anzi, tutti gli amori e le avventure che avevo avuto mi avevano lasciato un senso di stanchezza e delusione che mi aveva reso indifferente e freddo, alla fine ogni storia si era rivelata nulla di serio, nulla che durasse abbastanza. Avevo perso ormai la speranza di poter incontrare qualcuno adatto a me, qualcuno che avesse la tempra necessaria a starmi accanto non dico per sempre, ma almeno senza sbriciolarsi irrimediabilmente dopo pochi secoli lasciandomi di nuovo solo, come successe, per esempio, con le barche di legno.
Che sbandata, mi presi quella volta! Ancora ricordo con un brivido la prima volta che mi si appoggiò sulla pelle per la prima volta una forma completamente sconosciuta, allungata e, contrariamente a quello che succedeva con forme simili, con cui giocherellavo portandomele in giro dove più mi piaceva, questa prese invece a muoversi per conto suo, spizzicandomi la pelle intorno e cominciando a girellare a suo piacimento su di me provocandomi una sensazione mai provata ed estremamente piacevole, come una lenta carezza che non sai mai dove vada e ti tiene in una deliziosa e indescrivibile tensione erotica. Credo fu quello che fece scattare la scintilla. Ci misi poco a capire che era un’altra delle invenzioni degli Ultimi Arrivati, li chiamavamo così perché erano qui da poco, ma si davano già un gran daffare. A me importava solo di quelle carezze che diventavano sempre più lunghe e mi passavano su tutta la pelle aumentando sempre di più, cercavo di afferrarle, ma non era così facile. Erano ingegnosi, gli Ultimi Arrivati, le costruivano proprio per accarezzarmi più a lungo possibile, ma io ormai ero pazzo d’amore e le volevo possedere completamente, le volevo tutte con me, già ne custodivo molte e allora ad accarezzarle ero io, ma erano fragili, delicate, raramente riuscivano a resistere qualche secolo e anche quando gli Ultimi cominciarono a usare il metallo la situazione non migliorò, anzi, quello con qualche carezza delle mie si sbriciolava irrimediabilmente e con loro la mia passione.
Ma lei no. Non si sbriciolava. Non me ne resi conto subito anche perché arrivò in maniera così discreta che feci quasi fatica ad accorgermene. Piano piano, nel corso del tempo, comparivano piccole cose dalle forme mai viste, certo opera degli Ultimi che nel frattempo si erano moltiplicati a dismisura, e con loro tre o quattro altri terrestri che gli Ultimi tenevano chiusi in recinti. A dire il vero avevano iniziato a fare lo stesso anche con chi stava da me, ma allora non ci facevo molto caso. Così una piccola cosa si aggiungeva a un’altra piccola cosa, senza chiasso, in silenzio, e stava lì, semplicemente. Io ormai ne avevo viste talmente tante arrivare e scomparire che non mi aspettavo certo che lei fosse diversa dalle altre e lo confesso, quando dopo qualche tempo mi sembrò di notare che quelle piccole bizzarre forme, invece di consumarsi e svanire come tutte le altre, continuavano a rimanere caparbiamente identiche a se stesse, anzi, acquistavano una lievissima patina che le rendeva ancor più affascinanti, feci finta di nulla. Avevo paura. Non volevo più saperne di delusioni, era inutile affezionarmi, mi avrebbe certamente lasciato solo come tutte le altre prima di lei. Sono tutte uguali, mi dicevo, prima o poi se ne vanno.
Ma lei non se ne andava. Era sempre lì, presente, costante, continuava a starmi accanto in silenzio, docile, mansueta, disponibile a tutti i miei capricci. La portavo con me dovunque andassi, si lasciava cullare nelle mie correnti, se la lasciavo da qualche parte non se ne andava via, rimaneva ad aspettare che mi tornasse voglia di giocare con lei. Mi piaceva radunarla sulla pelle formando immense isole dove giocavamo insieme all’infinito. Fu così, un giorno dopo l’altro, che la sua silenziosa presenza costante riuscì a farmi dimenticare le delusioni del passato e senza che me ne potessi accorgere, mi ritrovai perdutamente innamorato. Furono anni magnifici. Lei mi dava continue prove della sua volontà di non lasciarmi mai più e forse per quello continuava ad aumentare, a riversarsi in me con fiducia e l’accoglievo sempre a braccia aperte, senza remore, senza pensare al domani, ebbro di quell’amore tardivo che mi aveva reso indifferente a ogni altra cosa, anche al dolore che, iniziavo a rendermene conto, il nostro amore procurava a molti di quelli che mi vivevano dentro.
Sulle prime pensai all’invidia che ogni grande passione provoca. Ero accecato, non volevo vedere e in verità non me ne importava niente. Perché avrei dovuto preoccuparmi per qualcuno di quelli che mi vivevano dentro che, a detta loro, da quando lei era arrivata, avevano iniziato ad avere qualche problemuccio? Erano eoni interi che li nutrivo, qualche cosa me la dovevano pur concedere, a patto naturalmente che fosse vero ciò che si diceva, che lei, approfittando dell’amore che mi aveva reso cieco, perpetrava ogni genere di crimine insinuandosi subdolamente fra di loro, soffocando, deformando, uccidendo persino chiunque le capitasse a tiro.
Ma arrivò il momento in cui quel suo lato oscuro che mi ostinavo a ignorare iniziò a inquietarmi. Il massacro era ormai innegabile e cominciava a superare ogni limite. Dovetti ammettere che mai nulla di simile era accaduto. Molte volte durante la mia esistenza i miei viventi erano stati decimati, a volte anche in maniera drastica, tanto da arrivare all’orlo dell’estinzione, ma mai quella che ormai stava prendendo la sconcertante dimensione di una morte di massa, era arrivata in una forma così apparentemente innocua e, ormai me ne rendevo conto, inarrestabile. La cosa che più mi straziava e quella che mi aveva impedito di riconoscerla, era che la qualità che la rendeva così micidiale era la stessa che mi aveva fatto innamorare. La sua costanza, la sua durata indefinibile e potenzialmente infinita, come fosse un essere di un altro mondo, come in effetti era, una creatura del mondo degli Ultimi.
Ora che tutto è finito, ora che il gelo ritorna, quello che rimane è il ricordo di quei giochi infiniti quando lei mi galleggiava sulla pelle, variopinta e giocosa. Tutto il resto è svanito e a breve, lo sento, svanirò anche io. È solo questione di tempo.
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