
Questo articolo è una versione rivista di una puntata di The Perfect Song, il podcast, in cui Daniele Funaro racconta quelle che per lui sono alcune delle migliori canzoni mai scritte. The Perfect Song è disponibile su Apple Podcast, Spotify, e tutte le principali piattaforme di pubblicazione.
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Uno spettro si aggira per l’America. È lo spettro della cattiva coscienza e delle politiche repressive. È lo spettro dell’ultraliberismo e dell’assenza di uno stato sociale degno di questo nome. È lo spettro di chi lotta per affermare i propri diritti e per non cedere alla disperazione.
Questo spettro ci tormenta dal 1939, quando uno dei più grandi scrittori del XX secolo lo ha raccontato per la prima volta nelle sue pagine più epiche, poi uno dei più grandi registi lo ha portato sullo schermo, uno dei più grandi cantastorie lo ha messo in musica e, nel 1995, il protagonista della storia di oggi ne ha fatto una nuova versione che continua a vivere e a cambiare.
È un autore che rientra in una lunga tradizione di poeti, cantanti e cantastorie che parte da uno dei più grandi poeti della storia americana, Walt Whitman, prosegue con un altro grande narratore, Woody Guthrie, passa per un cantastorie premio Nobel come Bob Dylan e arriva a lui, che da quasi cinquant’anni fa saltare il pubblico di tutto il mondo e racconta le storie dei più deboli con il linguaggio del rock. E che con questa canzone perfetta riprende una delle storie più potenti e attuali dello scorso secolo.
È una canzone perfetta perché è il frutto di una lunga tradizione di narratori e di narrazioni.
È una canzone perfetta perché riprende un classico. E i classici sono classici perché sono sempre rilevanti e sempre attuali.
È una canzone perfetta perché una ballata come questa è difficilissima da trovare.
La canzone perfetta di oggi è The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen.
Rimasero acquattati in silenzio nel buio della caverna di rovi. Ma’ disse: «Come faccio a sapere cosa ti succede? Capace che t’ammazzano e io manco lo so. Capace che ti fanno male. Come faccio a saperlo?»
Tom fece una risatina imbarazzata. «Be’, magari è come diceva Casy, che uno non ha un’anima sua ma solo un pezzo di un’anima grande… e così…»
«E così che, Tom?»
«E così non importa. Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutt’i posti… dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, be’, allora sarò negli urli di quelli che si ribellano… e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito… be’, io sarò lì. Capisci? Perdio, sto parlando come Casy. È che lo penso tutt’il tempo. Certe volte è come se lo vedo».
È uno dei momenti più intensi di Furore di John Steinbeck. In Italia abbiamo potuto leggerlo in questo modo solo a partire dal 2013, dopo 73 anni dalla prima edizione. Il romanzo era uscito negli Stati Uniti nel 1939 ed è stato pubblicato qui l’anno seguente. È la storia di una famiglia dell’Oklahoma che è costretta a lasciare la propria terra e la propria casa a causa della crisi economica e che deve affrontare la povertà, il razzismo e un sistema economico spietato e ingiusto. Il regime fascista aveva deciso di far uscire questo romanzo in funzione antiamericana ma lo aveva censurato pesantemente. La scena qui sopra avviene quasi alla fine, nel capitolo 28. Tom Joad, uno dei personaggi principali, è in fuga dalla polizia dopo aver ucciso un vicesceriffo, che a sua volta aveva ammazzato il predicatore diventato sindacalista Jim Casy durante uno sciopero di braccianti agricoli in California.
È il momento della nascita del fantasma protagonista della canzone di oggi: nel romanzo è l’ultima volta che vediamo Tom, ma questo è solo l’inizio. Steinbeck scrisse The Grapes or Wrath per raccontare dei migranti che cercavano con scarso successo di sopravvivere attraversando gli Stati Uniti verso la terra promessa sul Pacifico, quella California che rappresentava sia la mitica frontiera del mito di fondazione americano, sia la loro unica speranza per sopravvivere in un mondo in cui il capitale è l’unico interesse che deve essere tutelato a ogni costo e con ogni mezzo. Aveva viaggiato con loro, aveva ascoltato le loro storie e aveva deciso di raccontarle con la loro voce e i loro dialetti. È una storia epica, di quelle che rientrano a pieno nella definizione di «grande romanzo americano», ma è anche una storia disperata di razzismo, odio, povertà, repressione e speranza di riscatto. Ed è una storia dannatamente attuale: quello che leggiamo nelle pagine di Furore lo troviamo tutti i giorni nei quotidiani e nei telegiornali, con la Route 66 che è diventata la rotta balcanica in cui si viaggia nei camion o sotto di essi, o il tratto di mare che separa la Libia dalla Sicilia, o la foresta che separa Polonia e Bielorussia. Il libro è stato uno dei best seller del 1939, ed è stato premiato con il Premio Pulitzer. Nel 1962, Furore è stato uno dei fattori decisivi nell’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura a Steinbeck.
Dalle pagine di Steinbeck il fantasma di Tom Joad inizia a vagare e come sempre accade, iniziano i suoi avvistamenti: il primo avviene sul grande schermo, con il volto di un giovane Henry Fonda nell’adattamento cinematografico uscito nel 1940 con la regia del più epico dei registi della Hollywood classica, quel John Ford che aveva codificato il western. Il film ricalca in modo abbastanza fedele la trama del romanzo, almeno per quanto riguarda le vicende della famiglia Joad, eliminando solo qualche scena che sarebbe comunque caduta sotto i tagli della censura, come l’enigmatico finale. Mancano anche alcuni riferimenti politici – che in alcuni tratti del romanzo sono piuttosto espliciti – e le parti in cui Steinbeck descrive con la sua prosa inesorabile le vicende generali dei migranti. Il film di Ford ottiene due premi Oscar, per la migliore regia e per la miglior attrice non protagonista a Jane Darwell, che interpretava Ma Joad, il pilastro che tiene unita la famiglia di fronte agli ostacoli della sorte. Nel 1989 è stato uno dei primi 25 film scelti dalla Library of Congress per essere inserito nel National Film Registry, una specie di arca dei migliori film americani di sempre.
Oltre ai premi, il film ottiene un ottimo successo di pubblico: tra i suoi spettatori ce n’è anche uno molto particolare. Si tratta di Woody Guthrie, il più grande cantore dell’America della prima metà del ’900, forse il più grande in assoluto. Un uomo che viaggiava con i migranti, hobo si chiamavano all’epoca, sui loro stessi vagoni merci, che partecipava agli scioperi e che ne scriveva e ne parlava nel suo show radiofonico. Un uomo che quando si imbarcò sulle navi mercantili di appoggio all’esercito americano durante la Seconda Guerra Mondiale, finendo anche in Sicilia dopo un naufragio, scrisse sulla Gibson L-0 che si portava dietro «This machine kills fascists». È uno dei protagonisti principali della nostra storia.
Tra le tante cose, Woody Guthrie è l’autore di This Land Is Your Land, una specie di inno non ufficiale degli Stati Uniti, in cui oltre alla bellezza del paese vengono narrate – in due strofe che spesso vengono omesse nelle esecuzioni «ufficiali» – anche le difficoltà dei poveri costretti a chiedre il sussidio di disoccupazione e il fatto che la proprietà privata sia solo un ostacolo da superare. Dopo aver visto il film di John Ford, Guthrie scrive una lunga ballata intitolata Tom Joad in cui racconta la storia del film, e in cui il fantasma di Tom Joad torna a farsi vedere. Lo fa in maniera abbastanza fedele alla storia del film, ma con una differenza fondamentale: dove Steinbeck afferma, evocando le idee di Ralph Waldo Emerson e di Walt Whitman, che tutti sono parte di una grande anima che unisce tutti gli uomini, Guthrie dice che tutti possono essere parte di una grande anima. Per farne parte, è necessario lavorare, serve essere dalla parte giusta. Non è una posizione ecumenica, è una posizione politica di un artista profondamente e dichiaratamente politico, anche se gran parte del pubblico e della critica attuale preferisce non ricordarlo.
La canzone viene pubblicata divisa due parti in Dust Bowl Ballads: è l’unico vero e proprio album di Woody Guthrie, visto che tutti gli altri sono raccolte, ed è una specie di concept ante litteram. Tutte le canzoni raccontano la dura vita dei contadini che sono stati costretti dalle banche e dalle tempeste di polvere ad abbandonare le proprie case negli stati del Midwest e andare a cercare fortuna all’Ovest. Lo fa con rabbia, frustrazione, ma anche con lo spirito di chi, per far rinvenire la moglie svenuta per la sete, le tira un secchio pieno di polvere. La destinazione dei migranti è sempre quella, la California, ma la terra promessa non è tanto promessa, se non si hanno i soldi per poter vivere.
Da questo momento, il fantasma si nasconde e sarà necessario evocarlo per farlo tornare. Ma nel frattempo la sua influenza si farà sentire. Woody Guthrie serve come principale fonte di ispirazione per una figura fondamentale nella storia della musica. Appena arrivato a New York dal nativo Minnesota, il giovane Robert Allen Zimmerman si recò al New Jersey Hospital dove Guthrie era ricoverato vittima della Corea di Huntignton che lo avrebbe ucciso nel 1967. Il giovane, che si esibiva con il nome di Bob Dylan, voleva conoscere il suo idolo e gli dedicò anche una canzone. Nora Guthrie, una delle figlie di Woody, racconta di aver sbattuto la porta in faccia a questo ragazzo che aveva bussato durante American Bandstand. Fu suo fratello Arlo ad aprirgli e a mettersi a chiacchierare e suonare con lui. Anni dopo, quando la Folkways mise insieme una compilation di omaggio a Guthrie, Dylan decise di suonare una delle canzoni di Dust Bowl Ballads, e precisamente Pretty Boy Floyd. A proposito di fantasmi, eccone un altro. Charles Arthur Floyd era un rapinatore ucciso nel 1934 dagli agenti federali che lo inseguivano, ma era diventato anche una specie di figura mitica, quello che Marino Severini dei Gang definirebbe un Bandito Senza Tempo. In Furore, Ma Joad chiede a Tom se il periodo che ha passato nel carcere di MacAlester lo ha incattivito come è successo a Floyd, e Woody Guthrie lo racconta come una specie di Robin Hood, che rapinava le banche, ma non colpiva mai i poveri, anzi lasciava banconote da cento dollari per un pasto caldo o faceva arrivare carri carichi di cibo per gli indigenti.
In quello stesso disco troviamo anche Bruce Springsteen che rende omaggio a Guthrie, con due canzoni tratte proprio da Dust Bowl Ballads, I Ain’t Got No Home e Vigilante Man. Due anni prima, nella sua raccolta di Live con la E Street Band, il Boss aveva inserito una bella versione di This Land Is Your Land, spiegando che, come aveva letto nella biografia di Guthrie scritta da Joe Klein, era una canzone arrabbiata, nata come risposta a God Bless America di Irving Berlin. Nella sua esecuzione, le due strofe più controverse non ci sono, ma torneranno in una performance ancora più iconica. Il 18 gennaio 2009, durante le celebrazioni per l’insediamento di Barack Obama come quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti, Pete Seeger con suo figlio Tao si unirà a Springsteen per eseguirla sui gradini del Lincoln Memorial. In quell’occasione, nella più istituzionale delle situazioni possibili, Seeger in jeans, camicia a quadri e cappello peruviano, fa cantare a tutti anche le due strofe sugli uffici dell’assistenza sociale e contro la proprietà privata. Un momento rivoluzionario in un momento rivoluzionario.
Intanto il fantasma di Tom Joad aveva ripreso a camminare, ed era stato proprio Bruce Springsteen a evocarlo. È il 1995: il Boss vive a Los Angeles con Patti Scialfa e i figli. Ha sciolto da qualche anno la E Street Band e ha pubblicato un paio di anni prima Human Touch e Lucky Town, due album gemelli che secondo quasi tutti, sono il punto più basso della sua carriera. Sono album diversi da quelli che Springsteen ha scritto fino a quel momento, per la forma e per la sostanza. I nuovi musicisti che lo accompagnano non hanno la forza propulsiva di Little Steven e compagni e anche i temi non aiutano la scrittura. Quando viene introdotto nella Rock’n’Roll Hall of Fame, Springsteen spiega: «Devo ringraziare mio padre, perché – cosa avrei mai scritto senza di lui? Cioè, potete immaginare che se tutto fosse andato bene tra noi, sarebbe stato un disastro. Avrei scritto solo canzoni felici – ci hi ho provato nei primi anni ’90 e non ha funzionato; il pubblico non ha apprezzato». Per il disco successivo c’è bisogno di qualcosa di nuovo.
Negli anni che passa in California, Springsteen vive una situazione nuova rispetto a quella che conosceva: probabilmente è meno in contatto con la classe operaia e i danni della deindustrializzazione che aveva raccontato negli anni ’70 e ’80, ma scopre un mondo nuovo. È testimone dei riot del 1992 dopo l’assoluzione dei poliziotti che avevano pestato Rodney King, vede intorno a sé i risultati delle politiche neoliberiste di Bush padre e di Clinton ed entra in contatto con le situazioni legate all’immigrazione dal Messico, con tutti i suoi pericoli e i suoi problemi. E, visto che è una persona intelligente e che non smette mai di documentarsi, torna su Steinbeck, sul film di John Ford e su Woody Guthrie. Un’altra lettura fondamentale è Journey to Nowhere: The Saga of the New Underclass di Dale Maharidge e del fotografo Michael Williamson: il libro racconta le conseguenze della deindustrializzazione e la nascita di una nuova classe di poveri, vittime delle politiche liberiste e dell’assenza di ammortizzatori sociali, che, come i Joad negli anni della Grande Depressione, sono costretti ad abbandonare le loro case e a cercare fortuna in altri stati.
Ed è questo parallelismo a creare The Ghost of Tom Joad. L’America del 1939 non è molto diversa da quella del 1995. La caduta dei regimi comunisti e la nascita di un nuovo ordine mondiale – come aveva detto il presidente Bush – sembravano aprire un nuovo periodo di pace e prosperità per tutti, ma le politiche economiche sempre più liberiste, la spinta verso politiche sociali sempre meno ampie e sempre più restrittive e il ciclo di crisi economiche avevano di fatto continuato a colpire sempre gli stessi. Anche in quel periodo, e anche oggi, ci sono sempre persone costrette a dormire nelle macchine perché non hanno casa, che vivono sotto i ponti e si scaldano con un fuoco di fortuna, mentre gli elicotteri della polizia pattugliano la zona. Springsteen rievoca i jungle camp raccontati da Steinbeck, in cui i migranti si fermano in attesa di continuare a muoversi alla ricerca di un lavoro. C’è anche il predicatore, come il Casy di Furore, e anche lui è costretto a coprirsi con un cartone per proteggersi dal freddo. C’è però un’idea profondamente diversa dagli anni ’30: se i protagonisti di Furore viaggiavano verso la California con la speranza di una vita migliore – magari attirati da volantini stampati dai padroni per aumentare la domanda di lavoro e poter tenere bassi i salari – negli anni ’90 «nessuno si prende in giro su dove porta la strada»”, anzi «tutti sanno qual è la sua destinazione». Non si viaggia più verso la terra promessa, si va solo verso qualche altro luogo, sperando che sia un po’ meno peggiore. E nel testo di Springsteen non c’è traccia della «One Big Soul» che unisce tutti gli uomini.
Il fantasma di Tom Joad viene evocato, atteso e infine siede accanto al narratore, ricordando a tutti le sue parole quando ha lasciato la madre. Ovunque ci sia un poliziotto che picchia un uomo, ovunque ci siano bambini che piangono per la fame, ovunque si combatta contro l’odio e la violenza, lui ci sarà. Ovunque qualcuno lotterà per la dignità, il lavoro e per un aiuto, lui sarà lì. L’unica possibilità è stare accanto e sostenere chi soffre e soprattutto chi lotta per creare un altro mondo. Come scrive Alessandro Portelli: «Accanto al fuoco dell’accampamento dei senza tetto, il narratore prima si guarda intorno cercando Tom Joad, poi lo aspetta, e infine se lo trova accanto: un fantasma che si aggira per gli Stati Uniti come monito di una rivolta necessaria e possibile».
The Ghost of Tom Joad viene pubblicato per la prima volte come traccia di apertura del disco omonimo del 1995. L’album racconta lo stesso mondo della canzone: la perdita del lavoro e della speranza, le difficoltà legate all’immigrazione. È un lavoro diverso dai precedenti, realizzato quasi da solista e con toni acustici e folk. Si tratta di un album simile nell’approccio a Nebraska nel 1982, ma in questo caso il tono generale è ancora più oscuro, le canzoni sono meno lineari e il cantato è mixato molto basso, tanto che a volte si perde nei suoni di chitarra. Springsteen racconta storie di perdita di lavoro, di migrazione, di razzismo, ma anche di perdono e ravvedimento come in Galveston Bay. The Ghost of Tom Joad serve per far capire l’argomento generale dell’intero album, ma anche per fornire fin da subito una possibile risposta ai racconti che seguiranno. Dal punto di vista musicale, è una canzone che fa un percorso inverso rispetto a Born in the U.S.A., che in origine era una ballata nata nelle session di Nebraska e che divenne poi un anthem da stadio. The Ghost of Tom Joad nasce come pezzo rock, ma in quel momento il Boss non riuscì a trovare un buon arrangiamento e lo adattò alle atmosfere acustiche e folk dell’album. Però, come il personaggio creato da Steinbeck, anche questa idea comincia a vagare in attesa di trovare un suo posto.
Nel frattempo, il fantasma comincia a girare il mondo con un tour da solo e completamente acustico nei teatri, che riscuote un successo di critica enorme. Nei giorni del suo passaggio in Italia, fa addirittura la comparsa sul palco più nazionalpopolare che si possa immaginare. È la sera del 20 febbraio 1996, e si apre il 46° Festival della Canzone Italiana. Quell’edizione sarà vinta da Ron e Tosca con Vorrei incontrarti tra cent’anni davanti a Elio e le Storie Tese con La terra dei cachi. È un Festival ricchissimo: tra le nuove proposte fanno il loro esordio i Jalisse, Marina Rei, Petra Magoni, Silvia Salemi, Syria (che vincerà) e soprattutto Carmen Consoli. Anche l’elenco degli ospiti stranieri è di tutto rispetto: tra gli altri ci sono i Cranberries, Celine Dion, Michael Bolton, Alanis Morrissette, Tina Turner, i Take That, George Benson, Pat Metheny e i Blur. Ma il momento più alto è proprio l’apertura: Pippo Baudo è in platea e presenta – con una certa emozione – Bruce Springsteen, che, voce, chitarra e armonica, canta una versione intensissima di The Ghost of Tom Joad davanti al pubblico paludato del Teatro Ariston e agli spettatori di Rai Uno, che potranno leggere la traduzione del testo grazie ai sottotitoli. È un’esibizione semplice, che quasi stona con tutto quello che seguirà, ma che ha una forza espressiva impressionante.
Il fantasma si palesa anche grazie ai Rage Against the Machine, che nel 1997 ne fanno una versione alla loro maniera: Tom Joad percorre le sue strade grazie alla chitarra pesantissima e creativa di Tom Morello, a un ritmo stentoreo e implacabile e alla voce maestosa di Zack De La Rocha che la declama, più che cantarla, con la solita rabbia. È un cerchio che si apre e che si chiuderà qualche anno più tardi. Ne esistono cover anche dei Mumford and Sons, dei Nickelback e di Pete Seeger, che la esegue in duetto con il Boss, recitando il testo con la sua voce ricca di anni, di lotte e di America. In Italia, i Modena City Ramblers, nella versione più recente con Dudu Morandi alla voce, ne registrano una versione per il loro album di cover Tracce Clandestine del 2015. Pochi mesi fa l’ex cantante dei Ramblers, Cisco Bellotti, ne ha inciso una cover in italiano, che ricalca il testo dell’originale, ma non nomina Tom Joad se non nel titolo.
Torniamo a Springsteen e a un po’ di cerchi che si chiudono. Nel 2006 esce We Shall Overcome: The Seeger Sessions, un album in cui Springsteen ripesca molti classici del folk americano e non solo con una band completamente acustica, riannodando un nodo legato alla tradizione del cantore dell’America da Whitman in poi. I concerti diventano una specie di festa campestre, e The Ghost of Tom Joad si trasforma in un pezzo quasi bluegrass, con il banjo, la lap steel, il violino e i fiati che arricchiscono lo scarno arrangiamento originale. Frank Bruno, che suona la chitarra acustica nella Sessions Band, canta parte del testo. Nel 2008, la canta nei concerti che fa a sostegno della campagna elettorale di Barack Obama. Cinque anni dopo si chiude un altro cerchio: durante un tour in Australia (e nelle date successive per il mondo) il posto di Little Steven Van Zandt nella E Street Band viene preso da Tom Morello, e The Ghost of Tom Joad trova una nuova forma, forse più vicina all’idea originale di Springsteen. La versione registrata dal vivo e contenuta in High Hopes è una potente ballad rock con un assolo finale in cui Morello mette in mostra tutta la sua capacità di far suonare la chitarra in modi inusuali e innovativi.
Nel 2018 la storia di Tom Joad non ha perso un grammo della sua attualità e The Ghost of Tom Joad torna a far parlare di sé: il presidente Donald Trump mette in atto una serie di misure inumane nei confronti degli immigrati messicani che cercano di entrare negli Stati Uniti. I figli sono separati dai genitori e sono tenuti in gabbia. Le immagini che fanno il giro del mondo suscitano, giustamente, sdegno. Springsteen è a Broadway con il suo spettacolo autobiografico: è una performance che raccoglie alcune tra le sue migliori canzoni in versione acustica alternate a racconti autobiografici. Prima di evocare per l’ennesima volta il fantasma del vecchio Tom, Springsteen dice:
Sono tempi in cui in cui abbiamo visto uomini in marcia, e le cariche più alte del nostro Paese che vogliono parlare ai nostri angeli più oscuri e vogliono evocare i fantasmi più brutti e divisivi del passato dell’America. Vogliono distruggere l’idea di un’America per tutti, è questo che vogliono. È quello che abbiamo visto nello schifo delle famiglie separate ai confini e nelle marce piene di odio l’anno scorso. Cose che non pensavo avrei più rivisto nella mia vita. Cose che pensavo fossero morte e sepolte per sempre nel mucchio di rifiuti della storia. Abbiamo lavorato troppo duramente, troppe brave persone hanno pagato un prezzo troppo alto, hanno pagato con la vita per permettere che succeda. C’è stata troppa fatica e abbiamo fattoi troppi sacrifici. C’è una bellissima frase del Dottor King che dice «L’arco dell’universo morale è lungo ma tende verso la giustizia». È importante credere in queste parole e comportarsi di conseguenza, e vivere con compassione. E avere fede nel fatto che quello che stiamo vedendo è solo un altro difficile capitolo nella dura battaglia per l’anima della nazione.
Ed è proprio questo che continua a ricordarci il fantasma di Tom Joad: ci mette di fronte al fatto che il mondo come è oggi non funziona e al fatto che oggi, come durante la Grande Depressione, è necessario ricordare e battersi per migliorarlo.
Perché «senza casa e senza lavoro non c’è pace e non c’è riposo». No home, no job, no peace, no rest.
Qui sotto è possibile ascoltare la puntata del podcast:
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