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Nature morte. Paradossi etico-politici della conservazione



Hunting Still Life with a Velvet Bag on a Marble Ledge_Willem van Aelst (c. 1665) ©Sarah Campbell Blaffer Foundation, Houston

Una riflessione sul rilievo del paesaggio, sulla sua protezione e su come sia variato in tal senso l’impegno europeo nel corso del Novecento, sino ad oggi.

 

* * *

 

1. Il rilievo del paesaggio

Rainer Maria Rilke diceva, in riferimento alla pittura classica antica[1], che allora si guardava agli esseri umani con lo stesso fascino con cui, più tardi, i pittori dell’età moderna sarebbero stati catturati dal paesaggio (Rilke, 2020)[2]. Prima era il corpo, poi la natura. Nella contemporaneità, quando ancora disumano riesce a essere l’occhio che si rivolge tanto ai propri simili quanto all’ambiente circostante, viene difficile talvolta dire quale bellezza resti da contemplare. 

Eppure, strenuo, sopravvive il mito occidentale, divinamente culturale come tutti i miti, del bel paesaggio e della bella natura[3]. Nel contesto italiano, come pure in altri paesi europei, dopo un’intensa, e forse troppo breve, stagione ambientalista[4], torna in auge la retorica del paesaggio come «volto amato della patria»[5]. Aspro e irrisolvibile pareva il conflitto tra i due campi, quello dell’ambiente, dell’ecologia, delle discipline cosiddette dure e quello del paesaggio, dell’estetica, degli studi umanistici. Nonostante ciò, l’epoca è tale per cui anche gli antipodi si avvicinano, sfiorandosi. La sintesi pare a portata di mano: le due narrazioni, scientifica e artistica, possono quasi armonizzarsi, compenetrarsi, sostituirsi l’una all’altra. Considerando la questione con cinica schiettezza, si tutela uno specifico paesaggio perché è gradevole, piace e dà sollievo ai sensi colti e urbanizzati[6], tanto quanto perché è utile[7], fornendo quei «servizi ecosistemici» (Haines-Young e Potschin, 2018; Della Valle et. al., 2024) di cui noi, rispetto alle altre specie, saremmo i principali beneficiari. Le odierne battaglie per la protezione di questo o di quel luogo si preoccupano, a buona ragione, di assicurarne il capitale sia naturale che culturale. Il primo, in quanto capacità produttiva degli ecosistemi, è oggetto ormai anche di valutazioni in termini monetari (Farley, 2012); il secondo, se oggettivato nel patrimonio, sussiste come tale solo in relazione a una collettività che se ne appropria, intrecciandosi spesso con il capitale simbolico (Bourdieu, 1979), ossia quell’insieme di narrazioni, discorsive e non, in grado di accrescere, così come di compromettere, l’attrattiva dei luoghi e la loro notorietà (Harvey, 2018).

Il ’900, per quanto atroce, è un’epoca particolarmente impegnata nella difesa del paesaggio e dell’ambiente. Nella cultura europea della prima metà del secolo scorso tra le ragioni di tutela sembrava predominare la bellezza della natura, che nutriva, attraverso lo sguardo, i sentimenti di orgoglio nazionale, gli appetiti del turismo, così come la cultura dei più eruditi (Piccioni, 2014). Si sarebbe poi imposto, al tramonto degli anni ’60, l’ardore indignato della coscienza ecologica a segnalare i limiti di quello sviluppo che il modello economico capitalista e consumista degli anni del cosiddetto «boom» prometteva invece come infinito. Oggi, in un certo senso pacificate nella nozione di patrimonio, le ragioni degli uni equivalgono a quelle degli altri: la conservazione si è strutturata nel tempo come una questione parimenti estetica ed etica.

 

2. L’impegno europeo

Il consolidarsi nel nostro continente di una tradizione a difesa del paesaggio-ambiente e la risonanza delle spinte d’oltreoceano[8] portano la Comunità economica europea sin dagli anni ’70 e poi l’Unione europea, con sempre maggiore fermezza negli anni ’90 e 2000, a impegnarsi nella definizione, costantemente aggiornata, di azioni mirate alla protezione e alla valorizzazione delle risorse naturali[9]. Sempre più incisiva e ambiziosa diventa la politica europea negli ultimi anni, come mostra la recente approvazione della Nature Restoration Law[10]. La dibattuta legge sul ripristino della natura punta (Art. 4) a rimettere in salute entro il 2030 almeno il 30% della superficie totale degli habitat compromessi, entro il 2040 il 60% della superficie di ciascun tipo di habitat in cattivo stato e il 90% entro il 2050: prioritarie risultano le zone facenti parte del sistema di aree protette «Natura 2000». A testimoniare l’impegno europeo in materia vi erano già anche le misure previste dal «Green deal» del 2019, con la messa a punto di nuove strategie tematiche, rivolte al prossimo futuro del 2030 e riguardanti la biodiversità[11] e le foreste[12]. Nell’incipit del dossier dedicato a queste ultime, si legge che sia le foreste sia le superfici boschive «sono essenziali per la salute e il benessere di tutti gli europei» (p. 1); proseguendo nell’encomio di questi luoghi, si asserisce che per molte specie costituiscono «il rifugio e l’habitat ideali» (Ibidem), in particolare, a noi animali umani, offrono l’occasione di «connetterci con la natura, aiutandoci a migliorare la nostra salute fisica e mentale» (Ibidem).

 

3. Oltre il bel paesaggio: A. Holland

Del paesaggio europeo propone ben altra lettura la regista polacca Agnieszka Holland nel suo ultimo film Zielona Granica, tradotto con l’inglese Green Border, di recente uscito anche nelle sale italiane. Più o meno volutamente, la pellicola sconsacra il mito della bella natura e trasforma l’immaginario collettivo della foresta[13] da locus amoenus a locus horridus. I due tòpoi, in quanto stereotipi e cliché, sono modi ricorrenti e codificati di rappresentare il reale, che individuano ambiti di senso contrari, attingendo a profonde «memorie filogenetiche concettuali» (Pozzi, 1984, p. 396). La vividezza con cui si oppongono i due luoghi letterari aiuta a comprendere immediatamente il potenziale offerto da questa opera cinematografica. Riprendiamo per sommi capi la trama.

Luogo principe dell’azione è la foresta transfrontaliera di Białowieża, metà polacca, metà bielorussa. Grandiosi alberi di conifere e di latifoglie, tra i più antichi d’Europa, l’hanno resa famosa per essere una delle poche foreste primarie superstiti. Sotto queste fronde rischiano la vita gruppi di migranti pur di trovare asilo in Europa. Scacciati bruscamente dall’auto che avrebbe dovuto condurli in salvo a passare il confine bielorusso, entrano nella fitta maglia di altissimi fusti e avanzano con i bagagli sulla spessa coltre di fogliame. Orientati dalle mappe dei telefoni procedono fiduciosi nelle buone sorti del loro viaggio, per essere via via cupamente smentiti dal corso degli eventi. Il giorno e la notte si avvicendano nella remota foresta. Il tempo comincia a farsi duro. Quasi esausti, si imbattono in una pattuglia di guardie di frontiera bielorusse, pensando così di trovare salvezza. Illusi con l’inganno, vengono scortati come fossero turisti sulla buona strada, quella giusta, che va verso la Polonia. La destinazione non è come immaginata. Nascosto nella moltitudine serrata di alberi giganti, all’ombra delle loro fronde, corre per chilometri e chilometri un confine verde. Verde perché, quasi impercettibile, si mimetizza nella massa di vegetazione, fatto di sottilissime spirali luccicanti di filo spinato, attraverso il quale vengono scagliati i migranti, scomodi visitatori. Spinti o lanciati, sopra o sotto, non importa. Una volta in Polonia, al fittizio riparo della sospirata Unione europea, nulla cambia, tutto si ripete. Brutalmente respinti dalle guardie di frontiera polacche, i rifugiati vengono riportati a forza in Bielorussia. Inizia allora un altro viaggio, stremante, di dolore muto e assordante che risuona nella foresta micidiale.

Nel 2021 erano i tempi, oramai maturi, del deterioramento della democrazia per effetto delle politiche autoritarie di Alexander Lukashenko; lo sono ancora (Figuera, 2023), come suggerisce la pellicola in bianco e nero, voluta così, atemporale, dalla regista. Il dittatore bielorusso favoriva il transito nel suo paese delle rotte migratorie verso l’Occidente (Moscatelli, 2021), utilizzando come varco anche l’appartato parco di Białowieża, provando, forse invano, a scalfire l’Europa e ad acuire quella «curvatura permanente della geopolitica contemporanea» (Caracciolo, 2014, p. 18) che è la guerra fredda, segmento di storia ancora non fino in fondo consumato. La Polonia gli rispondeva con una brutalità sorda e granitica, rifiutando chiunque provasse a entrare, progettando nuovi muri d’acciaio[14] per barricarsi contro l’infelice strategia della Bielorussia di utilizzare i migranti come «strumento di pressione e di ricatto» (Livi Bacci, 2022). Irrisi, umiliati, maltrattati, derubati, isolati, uccisi dai bielorussi e dai polacchi indistintamente, trapela così la vacuità di quel confine.

A contrastare l’ora più buia nella selva maledetta irrompono i passi risoluti e vigili degli attivisti (Brocada e Piana, 2022). Non una volta mancano di portare il loro soccorso, arrischiandosi come meglio possono, ricordando il senso di quei mirabili diritti umani fondamentali, dei quali l’Unione europea si vorrebbe garante. La storia continua il suo corso con episodi tanto crudeli quanto tragici e concede barlumi di tenace speranza. Holland delinea il prototipo di un esodo troppe volte iterato in cui si muore mille volte, come canta la musica in coda al film[15].

 

4. Oltre il bel paesaggio: M. Pollack

A Białowieża la luce arriva tenue, passando tra i fitti e svettanti alberi; il cielo sparisce nelle loro chiome. Abeti rossi, pini silvestri, carpini bianchi, tigli, farnie raggiungono nella foresta vette di oltre 40 metri. Sull’altezza di questi antichi alberi il canto dei poeti ha costruito il mito patriottico di una selva incontaminata[16]. Il termine polacco Puszcza significa qualche cosa di più di una foresta, configurando un microcosmo arboreo inviolato (Ascherson, 1990). Dispersiva e caotica si presenta per lo straniero questa «fustaia disetanea con alberi di dimensioni colossali, spesse volte sradicati e caduti a terra, con le grandi ceppaie sollevate» (Pedrotti, 1980, p. 181). Le radure si fanno campi troppo esposti da evitare e i fossi diventano ostacoli che occorre guadare; gli acquitrini paludosi inghiottono i corpi stanchi di chi fugge. Il paesaggio si fa complice degli avvenimenti. Ancora una volta nella storia di Białowieża corre il sangue sotto il suo colonnato verde.

Come suggerisce lo scrittore austriaco Martin Pollack, se la bella natura, in un gioco tutto soggettivo di sensazioni, immaginazione e memoria, allieta come un’infanzia felice a cui tornare, nel corso del tempo sono stati fatti altri usi del paesaggio (2016; 2021). Il concetto che ne abbiamo andrebbe maneggiato criticamente e con cautela.

Il secolo scorso, in particolare modo durante i regimi totalitari, ha modellato una topografia della violenza, disseminando l’Europa di massacri. Alcuni di questi luoghi sono oggi ricordati con cimiteri, monumenti, memoriali; ne è un esempio il Parco nazionale polacco dei Bieszczady, ricordato da Pollack per le cupe sensazioni che suscita quando si scorgono in lontananza i «piccoli cimiteri militari della Prima guerra mondiale inseriti delicatamente nel paesaggio» (2016, p. 21). In disparte, silenziosi e invisibili ne rimangono altri, l’autore li chiama «paesaggi contaminati» (Ivi, p. 26). Tali sono non per via della presenza di qualche agente inquinante, quanto piuttosto perché lì, nell’apparenza idilliaca del paesaggio, si sono voluti nascondere e obliare i corpi degli eccidi, le tracce delle uccisioni. Si perde in questi casi memoria delle forme del paesaggio; si imboschisce per mimetizzare (Ivi, p. 28). Lo scrittore austriaco imposta una mappatura dei paesaggi resi complici (Ivi, pp. 30-34), tra i quali indica: la foresta russa di Katyn, il bosco bielorusso di Kurapaty, il bosco lituano di Ponary, le foreste slovene di Kočevski Rog. A questi potremmo aggiungere i territori della Venezia Giulia occupati da Tito[17]. I paesaggi delle uccisioni di massa e delle fosse comuni, spesso occultati dalla morfologia e dall’orografia dei luoghi, si sovrascrivono alla fisionomia innocente del paesaggio europeo. Di questi paesaggi, più o meno contaminati, il mondo contemporaneo continua, in un certo senso, a produrne anche oggi. 

 

5. La tutela dell’antica foresta di Białowieża

La Puszcza Białowieska in polacco, equivalente al bielorusso Belovezhskaya Pushcha, si estende per più di 1500 kmq[18]. La sensibilità verso la tutela della natura in Europa centro-orientale si sviluppa pressoché in parallelo con la nascita dei primi movimenti protezionisti occidentali[19]. Białowieża, foresta non più addormentata poiché già da tempo svegliatasi al bacio della modernità (Schama, 1997, pp. 45-46), viene dichiarata dalla Polonia riserva regia nel 1921 e parzialmente trasformata in Parco Nazionale nel 1932[20]. Nel 1934 viene emessa la prima legge nazionale polacca a tutela dei siti naturali di interesse scientifico, estetico e storico (Cole, 1995). Dopo gli scempi della Seconda guerra mondiale, con l’accordo di Potsdam i confini della Polonia vengono ancora una volta aggiornati (Morawski, 2014). La porzione di Parco nazionale ricadente su questa terra, «dove le frontiere avanzano e regrediscono secondo i bruschi dettami della storia» (Schama, 1997, p. 23), viene riorganizzata e riaperta nel 1947. Mentre la componente della Bielorussa sovietica, dapprima destinata a riserva di caccia delle élites, diventerà, crollati il muro di Berlino e l’Urss, un Parco nazionale nel 1991.

Oggi dell’arcadica foresta poco meno della metà si trova in territorio polacco, mentre il restante appartiene al suolo bielorusso. In Polonia solo una piccola parte è tutelata come Parco nazionale (Białowieża National Park)[21]. Diversamente, nel lato bielorusso il Parco nazionale (Belovezhskaya Pushcha National Park) protegge, fin dalla sua istituzione, quasi tutta la foresta[22]. L’area che si trova nella regione polacca dei laghi e delle foreste, ovvero nel voivodato della Podlachia, è riconosciuta come riserva della biosfera nel 1976 e come patrimonio dell’umanità nel 1979, per essere annoverata nel 2007 nella rete europea di aree protette «Natura 2000». Nel 1992 viene inclusa nella lista del World Heritage anche la parte della foresta ricadente sul territorio bielorusso, inscindibile dalla sua gemella polacca, con la viva raccomandazione ai due Stati di cooperare quanto più nella redazione dei piani di gestione e nella loro attuazione, in nome dell’unità ecologica del sito[23].

Si riconosce l’importanza di preservare Białowieża in quanto esempio di eco-regione terrestre delle foreste miste dell’Europa centrale. Dato il suo carattere transfrontaliero – non solo dal punto di vista geopolitico, ma anche fisico-geografico, poiché si trova a cavallo tra i bacini idrografici che si riversano a nord nel Mar Baltico e a sud nel Mar Nero (Pedrotti, 1980) – risulta fondamentale per la conservazione della biodiversità. Mammiferi, uccelli, anfibi, invertebrati compongono la fauna selvatica protetta, tra cui svetta l’iconico bisonte di pianura europeo, Bison bonasus, in polacco żubr.

Un’attività di tutela, quella polacca, le cui sviste sono state oggetto di rimprovero da parte della Commissione europea, ancora prima dell’acuirsi delle tensioni con la Bielorussia. La sentenza della Corte di Giustizia europea[24] già constatava gli inadempimenti della Polonia rispetto alle direttive «Habitat» e «Uccelli», essendo fortemente preoccupata per l’integrità di «una delle foreste meglio conservate in Europa, caratterizzata da grandi quantità di vecchi alberi, in particolare centenari, e di legno morto» (p. 1)[25]. Nel mentre la Polonia – la stessa Polonia che accoglieva i rifugiati ucraini in fuga dalla guerra – ha avuto modo di progettare e realizzare un possente muro di separazione dalla Bielorussia[26]. Ora che la costruzione della barriera di confine tra i due Stati è completata – impedendo transito e migrazione non solo agli esseri umani ma, più in generale, alla maggior parte delle specie animali, frammentando l’unità dell’ecosistema e alterandone al contempo la biodiversità – occorrerà verificare l’incisività che i provvedimenti europei sapranno avere per garantire la tutela della natura nella sua accezione più esaustiva.

 

6. La natura come still life e i suoi paradossi

In questo paesaggio di «selva selvaggia» (Sereni, 1961, p. 53) memoria, formalmente protetto da entrambi i governi che lo spartiscono, viene garantita la vita di specie vegetali e animali di ogni sorta, per non lasciare alcun asilo a esseri umani in cerca di un posto migliore. Ciononostante, l’orgoglio nazionale dei due Stati rimane ben saldo, ancorato alla rasserenante immagine da cartolina di un parco eccezionale nel quale, opportunamente accompagnati, è possibile apprezzare quel che resta dell’arcadica foresta che copriva l’Europa centro-orientale. Proprio là, dove si vogliono salvare scampoli di una presunta natura vergine e intatta, si nega ai propri simili il diritto alla vita. Si istituiscono riserve, aree protette, parchi, ricorrendo a diverse figure giuridiche finalizzate a salvaguardare gli ecosistemi e le forme di vita che li abitano. Al contempo si istituzionalizza la violenza, non solo per la militarizzazione a cui questo «confine verde» è sottoposto (Brocada e Piana, 2022), quanto per l’ostinato mancato riconoscimento dei propri simili come tali. Vacilla così la coerenza interna di qualsivoglia politica di tutela della natura. Per la violazione di quali direttive si sollevano rimproveri tronfi, quando innanzitutto a donne e uomini che si hanno di fronte viene negato di essere donne e uomini, mettendo a tacere «il fondamento biologico della socialità della nostra specie» (Virno, 2013, p. 12)? Quale strana idea di natura si protegge quando si reitera la negazione di quell’empatia irriflessa e originaria, dovuta ai cosiddetti neuroni specchio[27]? Proprio perché abbiamo questo tipo di neuroni e non coincidiamo con essi (Virno, 2020), possiamo scegliere di far fallire il reciproco riconoscimento tra conspecifici. A Białowieża se non si muore per la fatica infernale del viaggio, come succede ad esempio nella sterminata foresta tropicale al confine tra Colombia e Panama, nei siti Unesco del Parco nazionale del Darién e di quello di Los Katíos[28], certamente si cade per i giochi di potere tra Stati antagonisti che usano come pedine tanto i rifugiati quanto le proprie guardie di frontiera.

Holland e Pollack mostrano il lato oscuro dei paesaggi che, più o meno da lontano, ammiriamo, percorriamo, abitiamo. I loro racconti aiutano a demistificare la retorica delle bellezze naturali sulla quale un secolo fa è stato costruito il mito identitario degli stati nazionali. Se è vero che anche sulle qualità dei paesaggi si forma l’identità dei popoli, delle comunità, dei singoli, allora queste qualità non possono oggi essere considerate un idillio sempreverde. Accanto a un’immagine estetizzante del paesaggio, così come a una riduttivamente naturalista, esiste la realtà dei suoi usi e delle sue storie. Una realtà a volte scomoda, alla quale i due autori sanno dare volto e voce, gettando luce sui paradossi etico-politici, per non dire ontologici, di forme di conservazione, elaborate su basi legislative a garanzia di una natura da preservare incolume, testimone di un passato edenico e promessa di un futuro paradisiaco, dove non trova però alcun riparo la vita umana e forse, più in generale, la natura come vita.

Si profila così un’idea di paesaggio immobile, composizione disinvolta di oggetti inanimati da immortalare con minuzioso realismo, che ricorda il fascino di alcune nature morte seicentesche[29], così argute nell’accostare la caducità dell’esistenza con il senso di vanità del nostro stare al mondo. Non le nature morte contemporanee, non l’anatomia astratta di Braque e Picasso, non il riserbo delle meditazioni poetiche di Morandi, né le tonalità emotive squillanti degli arabeschi di Matisse[30]. Piuttosto un naturalismo ornamentale mondano, quello dei quadri di genere, fatto per dilettare gli interni di case private, che accomuna, come suggerisce Bianchi Bandinelli, tanto la società fiamminga del XVII secolo quanto il gusto dell’«agiata classe media mercantile» nel tardo ellenismo (1991, p. 492). Alcuni antecedenti di questo genere pittorico[31], che fiorirà nel ’500 affermando l’autonomia di un nuovo soggetto, sono presenti fin dall’antichità, nella forma di piccoli dipinti da consegnare in dono agli ospiti (xénia[32]), o in funzione pubblicitaria, alla stregua di insegne commerciali presso i macella o le osterie[33], oppure ancora negli esempi di pittura parietale campana, nei motivi dei pavimenti musivi (asárotos òikos[34]) e nelle rappresentazioni di cose umili (rhyparographía[35]). Solo nella modernità, scriveva il critico d’arte Giuseppe De Logu citando Schopenhauer, si saprà guardare alle nature morte con la commozione di chi sperimenta nella contemplazione l’attrito tra ciò che è scevro di volontà e ciò che con impeto la reclama (1962). Stilleven è una natura morta, come dice l’aggettivo still, perché ferma e silenziosa, fatta di cose mute giustapposte, di oggetti che stanno a riposo, in posizione di quiete, inerti, senza tempo perché senza mutamento. Nella foresta di Białowieża, museificata a regola d’arte, irrompe però il tempo della storia, degli uomini che rischiano la vita pur di cambiarla.

Il dibattito pubblico nel nostro paese è assorto nel tentativo globale di ridurre le emissioni inquinanti e concentrato sulla modifica della Costituzione italiana, aggiornata[36] per essere all’altezza delle aspettative di riparare alla crisi climatica in atto, indicando le «future generazioni» come nuovo conclamato oggetto giuridico. In parallelo si esaltano posizioni eco-centriche moralmente superiori al bieco e consunto antropocentrismo. Eppure, dovremmo forse occuparci, con maggiore lucidità, di capire se quantomeno siamo in grado di comportarci in modo antropocentrico con coerenza, senza fare eccezioni sul valore della vita umana, provando ad avere a cuore fino in fondo il destino dei nostri simili. Così, forse, saremo anche autenticamente in grado di essere i tutori di quella montagna, di quel fiume e di quella foresta, che vogliamo così intensamente riconoscere e far valere come «personalità ambientali»[37], perché, se ora guardassimo con disincanto l’immagine della nostra cultura restituita dallo specchio che, secondo Eugenio Turri, è il paesaggio[38], potremmo forse rabbrividire nel chiederci quale uso stiamo facendo dell’idea di natura.

 



Note

[1] Ranuccio Bianchi Bandinelli ricorda che «la pittura era stata, infatti, l’arte guida (e non la scultura, come si è generalmente ritenuto) ed aveva creato una problematica artistica totalmente nuova, del tutto sconosciuta a ogni altra delle civiltà antiche fiorite attorno al Mediterraneo» (1991, p. 461).

[2] Ancora Bianchi Bandinelli a proposito del carattere umanistico dell’arte greca, testimoniato anche dalla pittura di soggetto mitologico e storico: «Una conquista, questa, del realismo connesso con il concetto razionalistico dell’uomo come centro della storia e dominatore della natura, quale andò formandosi con maggiore consapevolezza nella seconda metà del V secolo e che poi si precisò con Aristotele» (1991, p. 468).

[3] Segnala Roberto Gambino: «… se respingiamo la tentazione deterministica di considerare il parco come il semplice riconoscimento formale di un dato naturale oggettivo … i parchi assolvono una essenziale funzione retorica e comunicativa …» (1991, p. 47). Questa tesi potrebbe essere ritenuta valida più in generale per il paesaggio.

[4] Un indicatore di ciò può essere considerato il linguaggio del diritto. Nella legislazione italiana ordinaria degli anni ’80 e ‘90 (L. 431/1985 e D.lgs. 490/1999) si è preferito fare riferimento al campo semantico dell’ambiente, in accordo con la sensibilità ecologista affermatasi fin dagli anni ’60 e ’70 e in contrapposizione al tradizionale lessico, di crociana memoria, che utilizzava l’espressione «bellezze naturali e panoramiche».

[5] La metafora, da alcuni fatta risalire a John Ruskin, compare nel lessico giuridico di inizio ’900 (Falcone, 1913) per essere ripresa in testi recenti (Urbani, 2004). Sulla paternità della citazione «Il paesaggio è il volto amato della patria» si è espresso Salvatore Settis (2020), avanzando l’ipotesi che, per quanto consona al pensiero di Ruskin, sia da attribuirsi allo scrittore Robert De La Sizeranne, tra i divulgatori dell’opera del maestro britannico.

[6] L’apprezzamento estetico del paesaggio, come ricostruisce Gambino, «presuppone la sublimazione settecentesca dell’orrido naturale, la consacrazione estetica della montagna … di cui il culto del sublime è l’espressione più eloquente …» (1991, pp. 20-21).

[7] A tal proposito, Gambino ricorda che la desacralizzazione della natura in chiave utilitaristica e illuministica «reca in sé i germi del funzionalismo del XX secolo, con tutte le sue involuzioni (è la dialettica negativa dell’illuminismo evidenziata da Horkheimer e Adorno …» (1991, p. 25).

[8] Fin dalla Conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite del 1972 e dall’impatto di testi come: The closing circle. Nature, man and technology, Commoner B., Alfred A. Knopf, New York, 1971; I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Meadows D. H., Meadows L. D., Randers J., Behrens III W. W., ETS Mondadori, Milano, 1972. Non trascurabile è l’influenza degli approcci ecologici nella pianificazione, dovuta agli americani Benton MacKaye (1921; 1940) e Lewis Mumford (1927; 1954). Si segnala inoltre l’incidenza del pensiero scozzese di Patrick Geddes (1915) e di Ian L. McHarg (1969), senz’altro determinanti per sollecitare l’interesse europeo verso le politiche ambientali.

[9] L’impegno europeo si evince sin dai primi programmi di azione pluriennali per l’ambiente del 1973 – di cui l’ultimo è entrato in vigore nel 2022 per «garantire il benessere di tutti, nel rispetto del pianeta» – passando per il trattato di Amsterdam del 1999 sullo sviluppo sostenibile, per arrivare alla lotta contro il cambiamento climatico, sostenuta già dal trattato di Lisbona del 2009 e ribadita dalla ratifica dell’accordo di Parigi nel 2016; questi sono solo alcuni dei passaggi chiave in materia. Numerose si contano le direttive che hanno l’obbligo di essere recepite dai paesi membri; tra queste, le più note sono relative alla conservazione di habitat naturali e di flora e fauna selvatiche (direttiva 92/43/Cee), con particolare attenzione agli uccelli (direttiva 2009/147/Ce, che sostituisce la precedente 1979/409/Cee). Molteplici sono poi le convenzioni, anche di respiro internazionale mondiale, che prevedono un’adesione volontaria da parte degli Stati firmatari, come ad esempio quelle per la conservazione delle zone umide (Ramsar, 1971), contro il commercio di flora e fauna minacciate di estinzione (Cites, 1973), per la protezione di specie migratrici della fauna selvatica (Bonn, 1979), della vita selvatica e degli habitat naturali (Berna, 1982) e della diversità biologica (Rio, 1992), fino alla notoria Convenzione europea del paesaggio (Cep, 2000).

[10] Il testo, approvato dal Parlamento europeo il 27 febbraio 2024, è consultabile al sito:

[11] Il testo della Strategia dell’Ue sulla biodiversità per il 2030 è consultabile sul sito:

[12] Il testo della Strategia dell’UE per le foreste per il 2030 è consultabile sul sito:

[13] Per una storia dell’idea di foresta nella cultura occidentale si veda: Pogue Harrison, 1992. Sugli usi progettuali e politici della foresta come metafora nella contemporaneità si veda: Di Campli e Gabbianelli, a cura di, 2022.

[14] Il muro chilometrico è stato ultimato nell’estate del 2022, recidendo ogni speranza di asilo e al contempo interrompendo bruscamente la continuità ecologica della foresta.

[15] La canzone intitolata Mourir mille fois è del rapper Youssoupha del 2015.

[16] Il poeta Adam Mickiewicz è considerato tra i padri ispiratori della protezione del paesaggio patrio. Per approfondimenti sul tema e sulle crude vicende che hanno segnato la foresta si veda: Schama, 1997, pp. 37-75.

[17] Sul tema si richiama il lavoro esaustivo dello storico Guido Rumici (2002).

[18] Per avere dei termini di paragone, Białowieża supera il Parco nazionale italiano del Gran Sasso e quello dello Stelvio, senza raggiungere invece il primo Parco nazionale istituito in Europa, quello di Sarek in Svezia (1909), che sfiora i 200.000 ettari.

[19] Slovenia, Polonia, Slovacchia e Bulgaria sono i primi paesi dell’est ad istituire aree protette e parchi nazionali. La Polonia forma nel 1919 una commissione nazionale provvisoria per la protezione della natura, che diventa permanente nel 1925, influenzando fortemente la storia della difesa ambientale nel paese, grazie anche all’apporto del noto botanico Władysław Szafer. Per un approfondimento si vedano: Depraz, 2011; AA. VV., 2003, in particolare pp. 64 e seguenti; Cole, 1995, p. 300.

[20] Sul tema si vedano: Depraz, 2011; Touring Club Italiano, 2021; Pedrotti, 1980.

[21] All’incirca 105 kmq corrispondenti al 17% della Białowieża polacca.

[22] Quasi il 97%, per arrivare attualmente a uno sviluppo di circa 150.000 ettari con l’inclusione di nuclei naturali adiacenti, superando l’estensione dell’intera foresta di Białowieża. Approfondimenti sono disponibili sul sito:

[23] Sul tema si veda il seguente sito:

[24] Il testo è consultabile al seguente sito:

[25] Un’ulteriore critica all’attività di salvaguardia svolta dalla Polonia è stata fatta dalla Commissione europea nel 2020. Per approfondire si veda il seguente sito:

[26] Sul legame tra la crisi migratoria cominciata nell’estate 2021 e la realizzazione di barriere al confine con la Bielorussia e più in generale sulla strategia difensiva della Polonia si veda: Wańczyk, 2023. Si segnala che la storia del muro innalzato nella cosiddetta «zona rossa» è raccontata anche da Kasia Smutniak nel documentario Mur del 2023.

[27] Riguardo le prime pubblicazioni sul tema si veda: Gallese et. al., 1996.

[28] Sulle tragiche storie dei migranti, provenienti non solo dal Sudamerica, che provano ad attraversare la giungla tra Panama e Colombia, diretti verso gli Stati Uniti e il Canada, si vedano ad esempio i seguenti reportage: Drost, 2021; Turkewitz, 2022; Ferrari, 2023, 2024.

[29] Come ad esempio quelle di Willem van Aelst, quasi simili a illustrazioni di botanica per l’esattezza della  rappresentazione. Sul tema si veda: Johnson, 2012.

[30] Sul tema si veda: Venturi, 1947.

[31] Sul genere della natura morta si veda: Eckstein, 1963.

[32] Sul tema si veda: Eckstein, 1956. 

[33] Nello specifico si veda: Bianchi Bandinelli R., 1991.

[34] «… il mosaico artistico segue fedelmente la pittura e può essere assunto a testimonianza di queste. Dei mosaici di Sosos viene citato quello che rappresentava un pavimento non spazzato, dopo un banchetto (asárotos òikos, donde la denominazione asárota per soggetti analoghi)» (Bianchi Bandinelli R., 1991, p. 500).

[35] Nello specifico si veda: Bianchi Bandinelli R., 1960.

[36] La legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, modifica gli articoli 9 e 41 della Costituzione. Il testo è consultabile al seguente sito:

[37] Alcuni paesi, a cominciare da quelli storicamente legati alle culture indigene, aggiornano la propria legislazione al fine di designare il paesaggio come persona giuridica; tra questi, a titolo esemplificativo, i più noti sono:

- il Parco Nazionale Te Urewera, istituito nel 1954 in Nuova Zelanda, è stato sostituito nel 2014 da una nuova entità legale autonoma (il Te Urewera Act è consultabile al sito: 

- l’Ecuador nella sua Costituzione del 2008 (Cost., Tit. II, Cap. 7°, Art. 71) conferisce alla natura diritti analoghi a quelli delle persone (testo consultabile al sito:

- la Bolivia promulga una legge per riconoscere i diritti di Madre Terra (L. 71/2010, «Mother Earth Rights Law», Art. 7), a cui fa seguito una legge quadro attuativa (L. 300/2012, “Framework Law of Mother Earth and Integral Development for Living Well”);

- nel 2017 il fiume Gange è diventato la prima entità non umana in India ad avere gli stessi diritti delle persone.

Per un approfondimento sul tema si veda: Gordon, 2018. Sui risvolti pratici contraddittori, dovuti ai forti attriti con interessi economici, delle innovazioni legislative apportate in Ecuador e Bolivia, si veda: Muñoz, 2023.

[38] Scriveva Turri: «Nel paesaggio ogni cultura si identifica, trova rispecchiata se stessa …» (1974, p. 139).



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Enrica Giaccaglia, architetto, laureata in progettazione urbana e in filosofia, è dottoranda in Paesaggi della città contemporanea. Politiche, tecniche e studi visuali presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi Roma Tre. Con attenzione alla filosofia del linguaggio come ulteriore chiave di lettura dei fenomeni territoriali, sta svolgendo ricerche sul rapporto tra le culture del progetto e la pianificazione paesaggistica.

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