Potenza inattuabile
- Adriano Bertollini; Francesco Lodato; Lorenzo Leonardo Pizzichemi; Marco Valisano
- 7 giorni fa
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Paolo Virno nei ricordi degli allievi

Di seguito, quattro ricordi di Paolo Virno scritti da allievi che l'hanno conosciuto negli anni di insegnamento a Roma Tre.
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La musica è finita di Adriano Bertollini
Per me Paolo Virno è stato innanzi tutto un professore universitario. Mi era stato consigliato di iscrivermi a Roma Tre proprio perché lì insegnava quest’uomo alto e dallo sguardo di ghiaccio, con un passato leggendario sepolto in un mondo che non c’era più. Come me tanti altri, motivati dalla brillantezza delle sue idee tradotte in oltre venti lingue, più che dal successo del cursus honorum accademico (incredibile a dirsi, al momento della pensione era ancora professore associato). Quando, nel marzo del 2011, per la prima volta me lo trovai di fronte nell’aula 22, capii il perché di quel consiglio.
Virno era un oratore formidabile e un docente scrupoloso. Sempre puntuale e incurante di quel vezzo vagamente autoritario chiamato «quarto d’ora accademico», era solito riguardare i suoi appunti fino a pochi secondi prima della lezione. In alcuni casi, durante la pausa tra un’ora e l’altra, continuava a rileggere quelle pagine stropicciate come se avesse paura di dimenticare qualcosa, lui che invece aveva sempre le parole giuste per scalare le vette più arcigne della filosofia. Oppure usciva con la sua andatura dinoccolata e si sedeva in cortile a fumare. Non una sigaretta, ma due, che consumava fino al filtro perché diffidente di qualsiasi forma di moderazione. Durante quel suo primo corso dedicato ad Austin, Arendt e Benveniste provai la strana sensazione di sentirmi a casa nel pensiero, questo luogo pubblico dove si è invece sempre un po’ stranieri. Virno era in grado di riportare le questioni più astratte della metafisica al loro nucleo terreno, al grumo di vita umana e quotidiana da cui prendono sempre il via. Una volta, molti anni dopo, disse a me e Marco Mazzeo che la filosofia è sempre antropologia filosofica, cioè il tentativo di afferrare la nostra umanità con il linguaggio. Era qualcosa che ci aveva già insegnato attraverso l’esempio, quando, durante le lezioni, il tono della voce si alzava infuocato e quasi atterriva, dando l’idea di quanto per lui riflettere su Wittgenstein o Saussure fosse una questione di vita e di morte, non un lavoro ristretto alle aule universitarie.
Virno è stato un classico vivente e lo è ancora di più oggi che ci ha lasciato. Un tesoro inesauribile o, come avrebbe detto lui, una potenza inattuabile, che a ogni rilettura e a ogni ora passata ad ascoltarlo rivelava qualcosa di imprevisto ma allo stesso tempo fatale, tanto le sue parole erano limpide, consequenziali e precise. E così, per noi studenti ventenni degli anni Dieci, lo sfondo politico della sua ricerca si è rivelato nel corso dei semestri, lentamente ma inesorabilmente, come quel centro di gravità silenzioso che dà peso alle meditazioni più aeree. In quegli anni aveva già pubblicato e metabolizzato uno dei suoi capolavori, Quando il verbo si fa carne, che a questo centro di gravità aveva dato la forma di un metodo che molti di noi ancora oggi provano a usare. Un laborioso e meticoloso intreccio tra il «da sempre» e il «proprio ora», fra la metastoria e le propaggini più selvagge del capitalismo contemporaneo.
Virno è stato un pensatore dell’amicizia, a cui in Avere ha dedicato pagine memorabili, e che considerava non un problema morale, ma di filosofia prima: il luogo d’incontro tra gli amici è infatti la stessa terra di nessuno, dunque di tutti, nella quale dimorano il linguaggio e il pensiero. Per questo, condividere la vita con l’amico non significa specchiarsi in un alter ego in cerca di conferme o dare conforto alla propria fragile identità mediante quella di un altro. Al contrario, gli amici abitano in comune la stessa distanza che li separa da ciò che hanno di più caro: un film americano sul poker, l’Etica Nicomachea di Aristotele, il mare di Capri. L’intimità amicale si costruisce solo a patto di non affezionarsi a se stessi come a un feticcio, ma lasciando sempre uno spazio bianco perturbante che l’altro può sovrascrivere in modo imprevisto. Una questione di individuazione, una questione di stile. Il suo, di stile, era formidabile, e forse uno dei luoghi in cui si rivela ai massimi livelli sono i commoventi ricordi, pubblicati sul manifesto, dei compagni scomparsi, con molti dei quali aveva condiviso «troppo tempo e poco spazio». Attorno a Virno – che per pudore abbiamo continuato a chiamare per cognome anche se ci davamo del tu – è sbocciata l’amicizia tra i due Francesco con Lorenzo e Flavio, e poi quella tra Marco e Marco. Con lo stesso pudore, alcuni di noi oggi si dicono virniani e ricordano con gioia e dolore quel giorno in cui in aula Verra avevamo i brividi mentre ci spiegava perché Heidegger era nel torto su paura e angoscia; o perché la negazione linguistica è una cosa diversa dalle immagini mentali, e contiene in sé la possibilità tanto del misconoscimento più radicale, quanto quella della solidarietà più spassionata. Qualcuno una volta disse che per l’estro, la libertà e il rigore del suo pensiero, quello di Virno è un jazz filosofico. Parole che mi sono tornate in mente sabato mattina, quando mi sono svegliato col torcicollo e, prima ancora di sapere, canticchiavo, chissà perché, una canzone malinconica: «Ecco… la musica è finita, gli amici se ne vanno…». La musica è finita, è vero. Ma continua a rimbombare. Come i grandi classici, come un jazz senza tempo.
L'uomo buono di Francesco Lodato
L’uomo buono era tanti uomini insieme. La sua voce roca risuonava nell’aula come se uscisse da un megafono o da un amplificatore, restando però stranamente aggraziata. Ogni volta che si fermava nel mezzo di una frase per ghermire una parola, si aveva la certezza che niente fosse tanto risoluto come quell’esitazione. Risultava simpatico anche quando – ossia molto spesso – con la raffinata ironia di cui era provvisto modulava una nota irriverente. Era altissimo, benché camminasse un po’ gobbo. Faceva pensare, più che a uno scaltro ma tutto sommato prevedibile ossimoro, a una folla di inattese, spavalde avversative.
Lo studente ne fu subito conquistato. Eppure tentò di resistere all’incantesimo. Era convinto, a ventiquattro anni, di sapere già tutto, e che il suo altarino intellettuale fosse al completo. Si era iscritto alla facoltà di filosofia per addomesticare un amore per la letteratura che secondo la famiglia finiva in un vicolo cieco. Adesso fu costretto ad ammettere che non solo non era riuscito a domarlo, ma che era inutile difendersi dai sortilegi dell’uomo buono: gli sembrava di avere di fronte un personaggio letterario, l’eroe di un romanzo russo. In certi momenti avrebbe giurato di vedere direttamente un’astrazione – un’idea altissima un po’ curva su se stessa.
Aveva sentito dire che la biografia dell’uomo buono fosse, in effetti, piuttosto romanzesca. Leggendo gli articoli in rete si rese conto che vi accadevano troppi eventi, e troppo significativi, perché un romanzo solo potesse contenerli. Quasi senza accorgersene iniziò a invidiare l’uomo buono, che era stato tra i protagonisti della rivoluzione italiana e pareva aver sperimentato le vittorie e le sconfitte più grandi. Tutta la gioia, ma anche tutto il dolore. Insieme ai suoi compagni aveva intimorito chi per mestiere intimoriva, terrorizzato chi per natura incuteva terrore. Insieme a loro era finito in galera: non per essersi accontentato di rendere un po’ più giusto il mondo, ma per aver provato a sovvertirlo. Invecchiando, aveva guardato le fotografie di quegli anni gloriosi e si era chiesto quali futuri alternativi attendessero gli uomini e le donne che vi erano ritratti, quale avvenire li avrebbe riscattati. Aveva scritto libri di filosofia che si distinguevano da tutti gli altri perché sembravano celare dei messaggi in codice, armi da disseppellire nella prossima battaglia. Una volta, commentando l’opera di uno scrittore marxista, aveva parlato della cattiveria necessaria a chi intende evadere da quella prigione a cielo aperto chiamata lavoro salariato.
Lo studente, che era forse un tipo troppo sentimentale, non tardò a passare dall’invidia alla vergogna. Si vergognava di quello che era stata la sua vita finora, e anche del modo in cui, presumibilmente, avrebbe vissuto. Sentiva che il futuro anteriore gli stava col fiato sul collo, nonostante l’uomo buono gli avesse svelato le sue virtù, i suoi poteri magici.
Passarono gli anni. Si era laureato, ormai lavorava. Aveva perso di vista l’uomo buono, ma poiché non smetteva di leggere i suoi libri, gli piaceva considerarsi ancora uno studente. Le uniche notizie di prima mano le riceveva da un suo amico ricercatore. Entrambi sapevano benissimo, senza bisogno di dirselo apertamente, che la loro amicizia era germogliata intorno all’uomo buono e aveva resistito alle intemperie degli anni grazie a quell’ossessione condivisa. Ne parlavano di continuo, rievocando il tumulto di quella voce meravigliosa, la danza delle mani con cui catturava i concetti. La sensazione che al termine di un suo corso niente fosse rimasto immutato, nemmeno le nuvole. Che in una goccerella di grammatica non si condensasse soltanto un’intera filosofia, ma la possibilità di una nuova forma di vita. Che l’unica risposta legittima ai problemi etici, alle istanze della buona vita, fosse l’azione politica. E forse intuivano che quell’amicizia sarebbe stata, un giorno, un suo involontario lascito.
Il materialista luminoso di Lorenzo Leonardo Pizzichemi
Venerdì 7 novembre è scomparso Paolo Virno, il più grande filosofo dei nostri tempi. Ha dischiuso nuovi orizzonti per la comprensione della natura umana, del linguaggio, e di questioni tutt’altro che marginali come la scaturigine dei giudizi sintetici a priori, lo statuto della negazione, il valore esistenziale della sintassi logica e il carattere del motto di spirito. Tra i rari esempi di stile sublime, il suo rigore è insuperabile, sovrastato soltanto dalla sua umanità. Negli anni a seguire verrà celebrato come maestro di prosa e di pensiero da chi finora è stato deliberatamente distratto. In realtà è già tra gli autori più letti e tradotti all’estero. Ha restituito al linguaggio il posto che merita all’interno della filosofia, che — a differenza di qualche ingenuo americano — non ha mai inteso solo come genere letterario, ma anche come prerogativa biologica. In questo rispetto il suo contributo è stato incalcolabile. Novello Socrate, è stato condannato ingiustamente dal regime della peggiore canaglia. A chi lo ha frequentato ha indicato la via della gentilezza. Non ha mai separato la didattica dalla ricerca: le sue lezioni erano parte dello svolgimento del suo pensiero. Di puntualità proverbiale, infaticabile belva da seminari, ha insegnato a pensare, e non una particolare dottrina. Il suo materialismo è luminoso e convincente: ciò che è condizionato può retroagire sulle condizioni che lo condizionano; di ogni categoria pura e a priori esiste un corrispondente tra le cose sulle quali inciampiamo, per quanto esse siano minute o umili. Senza troppi clamori al seguito si manifesta dinnanzi ai nostri occhi la nostra natura. Interprete eccezionale di testi classici, i suoi lavori si possono leggere come una radicale riscrittura, capitolo per capitolo, della Critica della ragione pura, nella ferma convinzione che l’Analitica dovesse precedere l’Estetica. Ha affrontato con una grazia che suscita ammirazione situazioni che avrebbero gettato altri nella disperazione. Anche in ciò è stato di una esemplarità abbagliante. Ironico e generoso al limite dell’imprudenza, i suoi ascoltatori e i suoi lettori sono divenuti tra loro amici.
Toccare con le mani gli spigoli dei concetti di Marco Valisano
Ho incontrato Paolo Virno nel 2015, quando già avevo ventotto anni. Dopo un vago e dispersivo peregrinare tra una varietà di curricula universitari ero finito a studiare scienze delle religioni all’università di Padova, ma presto avevo perso ogni convinzione. In quell’ambiente abitato per lo più da preti mancati, che fingevano di spiegare dio attraverso l’uomo facendo in realtà l’esatto opposto, cercavo perciò di riprendere il filo di ciò da cui pur ero partito: la filosofia. Mi avevano parlato dell’esistenza di questo pensatore con toni a tratti mitologici. Quindi, dovendo pur partire da qualche parte in questo mio nuovo approccio allo studio filosofico, presi in prestito un suo libro uscito nel 1999, Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, che sin da subito dichiarava il suo niente affatto dimesso obiettivo: mettere a fuoco la tonalità emotiva, oggi non solo diffusa ma addirittura dilagante, della «fine della storia».
Fu così che incappai nella scrittura di Virno, e ne rimasi colpitissimo. Anche coloro che fossero del tutto nuovi ai temi trattati in quel volume – struttura della temporalità, teoria della memoria, filosofia della storia – difficilmente si bloccherebbero su un passaggio teorico non chiaro, su un termine il cui significato risulti oscuro. Parole avvolte dall’aura – e certamente dal peso – di secoli di riflessione vi vengono usati senza nessuna servile reverenza e senza ammiccamenti di traverso, senza ambiguità di comodo; una prosa chiara, diretta, anche nella più ruvida polemica – alla quale l’autore non si sottraeva mai. «Filosofia è trattare i concetti come cose», sentii dire da Virno anni dopo. E in effetti la mia impressione, leggendo quel testo del 1999, fu di star facendo un’esperienza tattile oltre che intellettuale, di sentire con le mani gli spigoli dei concetti.
Virno era uno scrittore – e un oratore – che conosceva bene l’arte di non abusare della pazienza e dell’attenzione altrui, e non menava il can per l’aia. Anche quando, come accadeva per lo più, si confrontava con autori classici e figure ingombranti – da Aristotele a Freud, da Platone a Wittgenstein, da Hobbes a Hegel –, aveva sempre di mira dei problemi, mai delle sterili questioni filologiche. Un esempio eloquente di questo piglio filosofico – che l’accademia odierna, tenacemente e poco argutamente, pare avere in uggia – lo si può trovare in Motto di spirito e azione innovativa (2005). Il problema di Virno, qui, è capire quali siano le risorse logico-linguistiche cui attingiamo per dar vita a un’azione che si possa, a buon diritto, chiamare nuova, creativa – alla stregua, per l’appunto, di un motto di spirito che prorompe imprevisto all’interno di un dialogo. Una delle chiavi di volta dell’opera: il parallelo, che Virno rileva, tra i motti di spirito elencati da Freud nel suo Witz del 1905 e le fallacie argomentative dei sofisti riportate da Aristotele nelle Confutazioni sofistiche: «Meglio avere torto in maniera chiara che ragione con sottigliezze», aveva sostenuto altrove, durante un seminario.
Virno era un pensatore materialista, non perché si disinteressasse del mondo delle idee ma perché metteva al centro dell’indagine la loro materialità niente affatto fumosa. La filosofia, trattata come la trattava lui, non si occupava di temi magniloquenti al fine di relegarli in qualche anfratto occasionale della nostra esperienza riflessiva, come fossero strumenti superflui per un’attività degna di essere svolta giusto durante l’ora di ricreazione. I problemi classici della tradizione filosofica – la struttura della temporalità, l’essere e il non essere, il rapporto tra potenza e atto, la progressione potenzialmente infinita dei metalinguaggi – Virno cercava di chiarirli allo scopo di metterli al lavoro, non di lasciarli sotto una teca o di esibirli in un convegno accademico; cercava di imbastire, con cura e precisione, un’utile cassetta degli attrezzi che permettesse di mettere le mani non su faccende ultraterrene o insondabili, ma sulla vita sensibile. Quelle di Virno erano sempre astrazioni concrete.
In un testo come Saggio sulla negazione (2013), ad esempio, il lettore trova non solo una raffinata analisi linguistica della possibilità di negare un enunciato, ma vede profilarsi il ruolo del ‘non’ nella nostra vita quotidiana – la volontarietà di cui diamo prova quando decidiamo risoluti di non andare al bar, e che però ci lascia sospesi nella più completa incertezza di quel che, invece, faremo; l’amaro in bocca o la perentoria necessità che avvertiamo talvolta dinanzi alle doppie negazioni – «non è che non ti amo», o «non posso non andare». O ancora: in un saggio come Quando il verbo si fa carne (2003) non è contenuta solamente una indagine sulla nostra facoltà di linguaggio e sui modi in cui il discorso fa la sua irruzione nel mondo, ma pure delle acute analisi sul senso antropologico della preghiera – così come del quotidiano bestemmiare a mezza bocca quando, per l’ennesima volta, non ritroviamo le chiavi della macchina prima di uscire di casa.
Virno era uomo di sensibilità mondana, terrena, e la cosa trapela costantemente dai suoi scritti. In questo avrà certo giocato un ruolo che avesse iniziato ad occuparsi alacremente di filosofia, come lui stesso disse, solo in seguito a una sconfitta politica – quello che lui chiamava il fallimento della rivoluzione italiana del ‘77 – e al periodo della sua carcerazione. In occasione di alcuni seminari romani ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona, e ricordo di quando mi vide arrivare con ancora addosso i postumi alcolici della sera precedente. Lui – che se ne era immediatamente accorto, come se la cera del mio volto l’avesse vista o avuta mille volte –, prima che iniziassi il mio intervento in aula mi chiese sornione se volessi un goccio di whisky, «che magari ti serve».
Quando la mattina dell’otto novembre ho ricevuto il messaggio di Marco Mazzeo in cui mi informava che Virno era morto la sera prima, mi ha preso una sensazione che sul momento non riuscivo bene a capire. Certo era tristezza, intensa, ma mista a molto altro. Perché è come se questa scomparsa ci avesse adesso fatto tornare vergini, o diventare adulti; come se ora ci trovassimo tutto ad un tratto orfani e sbalzati in prima fila. Virno è stato un maestro, in senso pieno e profondo, e la sua mancanza la sentiremo molto forte. Certo ha lasciato in eredità – almeno per coloro che vorranno seguirne il metodo e il pensiero, per quelli che con un misto di timore e di vergogna si considerano suoi allievi – un modo di fare filosofia di cui potersi ben avvantaggiare; una potenza, potremmo dire, che in quanto tale non è mai del tutto attuabile. Ovviamente, non perché chi ne fa uso se ne possa fregiare. Perché non si tratta, qui, di darsi delle arie, e anzi dirsi appartenenti a una certa scuola di pensiero, a una certa tradizione, è un atto di umiltà. E anche questo ce l’ha insegnato lui.








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