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Al lettore confido un segreto


Paolo Virno durante il Festival 6 di DeriveApprodi
Paolo Virno durante il Festival 6 di DeriveApprodi

Avremo tempo e modo di tornare sulla ricchezza del pensiero di Paolo Virno. Oggi. intanto, condividiamo un ricordo scritto da Marco Mazzeo.


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All’uditorio confido un segreto. Paolo Virno era un accanito fumatore. Preferiva gli intercity ai treni veloci perché più fermate significano più soste e ogni sosta vale una sigaretta. Mai accesa nei bagni però: anche la dipendenza vive di stile, l’eccesso esige qualche misura se si vuole sia tale.

Di ritorno dai lunghi viaggi in Calabria, Paolo interrompeva gli scherzi, i commenti spietati e le discussioni circa il rapporto tra natura umana e linguaggio per guardare dal finestrino. Appena emergeva il profilo del «coccodrillo», così lo chiamava, indicava la punta ricordandomi: «quella è Anacapri». Lo faceva ogni volta, ogni volta mi impressionavo a vedere Paolo che giocava al mare insabbiato ma con la giacca gonfia di Camel. «È una giornata persa»: la frase era inevitabile se non scendeva a Napoli per correre verso il traghetto.

Tornavamo dalla Calabria, perché lì lavoravamo. Paolo Virno era un anti-accademico, dunque amava l’università. Non si confonda il fischio per il fiasco, il carattere innovativo del rito con la stanchezza della cerimonia. «Anche quest’anno li ho fregati», se la rideva. Agli studenti invece di 63 ore ne faceva 72, a volte 84, senza se ne accorgessero, per poi disertare sistematicamente riunioni di piccolo potere e appelli del microscopico sovrano locale. Faceva bene: una delle poche volte che derogò al comandamento che porta all’esodo rischiò di prendere per il bavero un professorone ossessivo dall’eloquio magniloquente e ossessivo. «Me ne vergogno» mi disse guardando, l’unica volta che io ne sappia, per terra e non negli occhi.

 

Paolo era contro il lavoro salariato e dunque sapeva contare gli euro e sapeva che gli euro contano. Finito il dottorato, mi trovai con gioia a fare un pezzetto delle sue lezioni. Erano 15/20 minuti su due ore, unità minima del pensiero verbale collettivo universitario, ne era convinto. Lezione di un’ora non è lezione. In quelle occasioni, ho imparato quasi tutto quel che so.

Ogni sera andavamo a cena a un ristorante per camionisti dal nome delicato «Ri-stop». Vicino all’autostrada Salerno-Reggio Calabria drenava stanchezza e qualche spicciolo ad autisti stremati. Nel periodo d’oro, aveva a disposizione una FIAT punto rossa prestava da un compagno generoso. Guidava lui ed era un problema: sempre col piede sull’acceleratore non riusciva scendere mai sotto i 60 all’ora. Sgommava anche parcheggiando. «Sai, ho imparato a fare così per le rapine». Scherzava, ma a esser proprio sinceri, quel sorriso lasciava qualche dubbio. Saltato il pranzo, Paolo ordinava «due di tutto». La battuta era un fatto perché la cena era alici fritte, linguine allo scoglio, pizza, impepata di cozze. Una sera gloriosa l’oste incuriosito provò a sfidarlo con una spaghettata aglio e olio finale a mo’ di dessert. Inutile dire chi vinse.

Verso gennaio, il semestre era agli sgoccioli, me lo trovo alle spalle in biblioteca. Lì e in mensa non credo fosse mai entrato. Ho sempre pensato fosse un retaggio della galera ma non gliel’ho mai chiesto. Lo guardo con stupore e piacere. Lui non mi dice nulla o forse mi dice poco. Mette sul tavolo vicino alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein una carta da poker. Era un assegno di 600 euro: «è per il lavoro che hai fatto, che l’università non ti ha pagato, lo so non è molto». L’accademia non aveva pagato, lui sì e di tasca sua.

Leggo su Nature: dal 7 novembre il mondo pare abbia subito uno spostamento d’asse di alcuni gradi. Il moto di rotazione terrestre non è lo stesso. La rivista non sa dire il perché. Noi sì.


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Marco Mazzeo insegna filosofia del linguaggio all’Università della Calabria e all'Università La Sapienza di Roma. È stato tra i fondatori della rivista «Forme di vita». Nel 2013 ha vinto il premio internazionale C. Perelman.

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