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Vita reattiva

Un’ontologia semiotica del presente




Vita reattiva. Un'ontologia semiotica del presente
Alexander Rodchenko, Autoritratto caricaturale, 1922

Sarà presto disponibile per i tipi di DeriveApprodi il libro Vita reattiva. Per un'ontologia semiotica del presente di Adriano Bertollini, di cui oggi pubblichiamo premessa, introduzione e un capitolo.

Il libro approfondisce alcune delle linee di ricerca che lo stesso autore e Marco Mazzeo hanno portato avanti curando la sezione «sintomi» di Machina. Il tema della ricerca e del conseguente libro è sicuramente non banale: è possibile una semiotica non postmoderna, un lavoro di ricerca sui prodotti culturali che non si limiti a classificare gli eventi di senso secondo criteri più o meno raffinati, ma che li inserisca in una cornice teorica dichiaratamente critica nei confronti dell’attuale ordine globale? Come orientarsi nel mondo del linguaggio messo al lavoro? Come fare per non soccombere nel mare di segni in cui siamo quotidianamente immersi?


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Premessa

Negli ultimi quattro anni, insieme a Marco Mazzeo, ho preso parte a un esperimento di ricerca collettivo curando la sezione filosofica della rivista online Machina, edita da DeriveApprodi. A partire dal 2020, in piena pandemia, abbiamo pubblicato contributi diversi ma accomunati dall’intento di riflettere in modo critico sul presente (molti dei quali sono anche confluiti nel volume Sintomi. Per un’antropologia linguistica del mondo contemporaneo, DeriveApprodi 2023). In linea con i tempi caotici in cui viviamo, la collezione di scritti è eterogenea e tratta di argomenti per certi versi arbitrari, sicuramente contingenti: un romanzo pubblicato da poco, una serie televisiva, un libro di filosofia, una nuova tendenza musicale. Trait d’union degli articoli lo sforzo di muovere da un prodotto o fenomeno culturale dell’odierna società dello spettacolo per meditare sulle forme di vita contemporanee. Si trattava di mostrare le ambivalenze dell’oggi: tanto le passioni tristi che lo agitano, quanto le occasioni nascoste per immaginare un futuro diverso. Dolori e gioie, scenari apocalittici ma anche spiragli di redenzione. Le pagine che seguono nascono da questa esperienza, di cui offrono una sorta di sistematizzazione metodologica. Tuttavia, la posta in palio è di portata più generale e riguarda la possibilità di una semiotica non postmoderna, un lavoro di ricerca sui prodotti culturali che non si limiti a classificare gli eventi di senso secondo criteri più o meno raffinati, ma che li inserisca in una cornice teorica dichiaratamente critica nei confronti dell’attuale ordine globale, che è anche un ordine ideologico e dunque semiotico. La convinzione di fondo è che solo uno sguardo distaccato – proprio perché critico – sull’attualità sia in grado di darne conto in modo adeguato. Che sia necessario rifiutare il presente allo scopo di comprenderlo.

 

 

Introduzione

Cominceremo soffermandoci sul grande classico del postmodernismo italiano, Il pensiero debole, pubblicato nel 1983 a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti[1]. Malgrado siano passati oltre quarant’anni dall’uscita, il libro è ancora attuale e proficuo per pensare il nostro tempo. Sia perché per molti aspetti non molto è cambiato dagli anni Ottanta ad oggi: allora come oggi siamo in piena controrivoluzione neoliberale[2]. Ma anche perché uno degli autori più illustri ad aver preso parte a quel volume è Umberto Eco, il maggiore semiologo italiano[3].

La tesi di fondo è arcinota: il secolo che volgeva al termine e il nuovo di là da venire non appartengono più a un tempo metafisico, la riflessione filosofica deve rinunciare alle sue pretese di dominio della realtà. Anacronistico, ora come allora, peregrinare alla ricerca di un fondamento stabile del sapere, universale e necessario, incontrovertibile. Come suggeriscono i due principali riferimenti teorici di Vattimo, Nietzsche e Heidegger, Dio è morto e la metafisica si è compiuta nella tecnica. Il che significa che sono crollati i sistemi di valori e punti di riferimento tradizionali e che il controllo del mondo è affidato a scienza e tecnologia (su questo torneremo diffusamente in seguito, cfr. § 11).

Che fare, dunque, se bisogna rinunciare al sogno fondativo? Come si dovrà muovere chi desidera seguire il celebre motto hegeliano e «cogliere il proprio tempo col pensiero»? Bisognerà partire dalla fatticità, dall’assoluta contingenza del reale e prendere atto che è tramontato il progetto moderno di un edificio del sapere puro. I principali filoni della modernità – uno su tutti: la dialettica – avevano tentato di costruire quell’edificio partendo da un «cominciamento» al riparo da ogni dubbio, un terreno logicamente solido su cui il pensiero potesse muovere i suoi passi senza temere inciampi o cadute. Il cominciamento era cioè situato fuori dalla storia, al riparo dal corso tumultuoso degli eventi, di cui costituiva piuttosto la condizione di possibilità e pensabilità. Quell’epoca è tramontata, il Novecento ha mostrato che ogni inizio è storicamente determinato, un evento tra gli eventi che ha avuto luogo, ma avrebbe anche potuto non essere[4]. In altre parole, la riflessione prende sempre il via da un qui e ora particolarissimo di cui è doveroso tenere conto. Si è fatta impura, debole. Debolezza da rivendicare sul piano teorico, proprio come fanno i curatori nei loro saggi e nell’introduzione al volume.

C’è da chiedersi se questa debolezza sia consustanziale all’impresa semiotica. Per farlo, interrogheremo il saggio di Eco, intitolato L’antiporfirio, provando a capire se sia davvero in linea con il postmodernismo di Vattimo. Proveremo cioè a far dialogare i due autori, trattandoli come rappresentanti eminenti dei rispettivi filoni filosofici. Non tanto per proporre una ricostruzione storiografica, quanto per offrire una chiave di lettura di portata speculativa, che metta in risonanza i nodi teorici più sensibili.

 

Semiotica debole?

L’antiporfirio è uno scritto molto tecnico che si occupa di un problema specifico. Propone una semiotica debole, anche se in un senso diverso rispetto a quello di Vattimo. Eco vuole confutare il «pensiero» linguistico «forte» (Eco 1983, p. 52), cioè il tentativo di rendere conto dei fenomeni linguistici secondo tre assi: da un lato abbiamo l’oggetto da spiegare, cioè il funzionamento delle (1) lingue naturali. Per farlo, si ipotizza (2) «un linguaggio-modello (posto in condizioni di laboratorio)» (ivi, p. 54, corsivo mio), di cui si discute attraverso un (3) metalinguaggio teorico che mostri le omologie strutturali tra il modello e i casi singoli, cioè gli idiomi impiegati in concreto dai parlanti. Per illustrare adeguatamente questo procedimento ci si può servire del teorema di Pitagora, che «sancisce […] un comportamento necessario del mondo-modello delle entità geometriche» (ivi, p. 53) e permette anche di «determinare comportamenti di certi aspetti del mondo naturale, per esempio la costruzione di solidi tridimensionali su superfici piane come quella terrestre» (ibidem). Secondo Eco, funzionano in questo modo «le semantiche formali dei linguaggi naturali, […] le grammatiche generativo-trasformazionali, […] le semantiche generative» (ivi, p. 54), che costituiscono dunque il bersaglio teorico dell’articolo.

L’argomentazione è incentrata sulla semantica e inizia dichiarando che una teoria del significato forte richiederebbe due clausole. Ci devono essere: un complesso di regole esprimibili in un metalinguaggio teorico; e «un insieme finito di espressioni correlate a un insieme finito di contenuti» (ivi, p. 55). Si pone dunque il problema di come correlare quelle espressioni – suoni, significanti – ai contenuti relativi – pensieri, significati. La via classica, caratteristica di una concezione forte, vede nella definizione la risorsa principale con cui porre in essere questa correlazione: e così il suono «uomo» esprime il contenuto «animale bipede implume», o «animale razionale», ecc. In altri termini, la definizione sarebbe lo strumento metateorico con cui mettere a fuoco le condizioni d’uso delle parole del dizionario che ognuno di noi usa quando parla una lingua naturale. Se fosse possibile una semantica di questo genere, potremmo descrivere l’italiano o l’inglese in modo non dissimile a quello di una scienza forte, come la chimica inorganica, che quando definisce in un certo modo una sostanza, - l’acido cloridrico come HCl - è interessata «solo a quelle caratteristiche o proprietà del composto che possono permettere calcoli circa la sua combinabilità con altri composti e deve ignorare i vari usi a cui viene adibito industrialmente, le circostanze della sua scoperta, [ecc.]» (ibidem). In questo modo, la chimica definisce l’acido cloridrico con alcuni termini elementari (H e Cl) e in base alle sue leggi specifiche è in grado di descrivere il comportamento delle sostanze. Ma è possibile una simile operazione con le parole che usiamo nella nostra vita quotidiana?

La risposta di Eco è negativa. La dimostrazione, elaborata ed erudita, indugia sulla teoria della definizione medievale, ma le ragioni di fondo sono dichiarate fin dall’inizio. Il fatto è che in una lingua naturale non si può fornire una singola definizione elementare (come per H e Cl) di un termine: le qualità predicabili in una definizione e le stesse definizioni sono potenzialmente infinite. Perché «uomo» sarebbe «animale bipede implume» e non «essere umano di sesso maschile»? Oppure «maschio bianco eterosessuale»? Le diversità d’uso delle parole – la pluralità dei «giochi linguistici» (Wittgenstein 1953) - è refrattaria a una semantica forte. O, per dirla sempre con Eco, il dizionario dei termini di base non può funzionare senza riferimento a un’enciclopedia, cioè a una serie di conoscenze presupposte dai parlanti, il che costituisce un terzo vincolo, ulteriore rispetto a quelli enucleati poc’anzi[5]. Con il lessico kantiano: una linguistica forte dovrebbe essere formulata solo con termini elementari e giudizi analitici, mentre per spiegare il funzionamento delle lingue naturali è necessario ricorrere anche a giudizi sintetici.



Note

[1] Un altro classico del postmodernismo italiano, anche se meno noto rispetto a Il pensiero debole, è Crisi della ragione a cura di Aldo Gargani (1979). Entrambi i volumi muovono dall’assunto che la ragione moderna è finita: datato il tentativo di una conoscenza razionale sistematica che voglia sottomettere a sé la realtà intera. Ma sono accomunati anche dalla forma: abbiamo a che fare con raccolte di saggi provenienti da discipline diverse, il cui accostamento può a tratti sembrare arbitrario, come se la stessa struttura del testo volesse confutare quella pretesa di omogeneità e controllo che – almeno i curatori – avversano anche sul piano del contenuto. Un altro interessante punto di contatto è il fatto che in ambedue i casi sia dato uno spazio non indifferente a studi (di Lepschy, Eco e Marconi) concernenti il linguaggio, il che segnala il legame – che in questo scritto proveremo a esplorare – tra le istanze postmoderne e la crescente importanza guadagnata dalle pratiche verbali negli ultimi decenni. Tuttavia, i quattro anni che separano i libri sembrano in qualche modo aver pesato nell’elaborazione e Il pensiero debole appare più consapevole, più maturo. Mentre nella sua introduzione Gargani è prudente e si mantiene su un registro descrittivo, Vattimo e Rovatti (ma soprattutto Vattimo) sono più spregiudicati nel rivendicare un nuovo modo di fare filosofia, in aperta opposizione a quello moderno e dunque maggiormente in linea con i tempi che corrono.

[2] Per un inquadramento filosofico del neoliberalismo, cfr. De Carolis 2017. Sulla continuità tra gli anni Ottanta e il presente, si veda Mazzeo 2023. Un recente tentativo corale di ripensare agli anni Ottanta si trova in Aa. Vv. 2024.

[3] Anche gli altri contributori, che appartengono ad aree teoriche tra loro anche distanti, sono voci illustri del panorama filosofico e accademico italiano. Li cito in ordine di apparizione: Gianni Carchia, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Leonardo Amoroso, Diego Marconi, Giampiero Comolli, Filippo Costa, Franco Crespi.

[4] Da questo punto di vista sono emblematici due dei più grandi classici della filosofia del Novecento, il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein ed Essere e tempo di Heidegger (1927). Come segnala la proposizione n. 1 («Il mondo è tutto ciò che accade», Wittgenstein 1961), il primo muove dall’assoluta contingenza dei fatti, e il secondo, mettendo al centro il Da-Sein, cioè un essere situato («da» significa «lì»), a sua volta assume come punto di partenza la fatticità dell’esistenza umana.

[5] Il concetto di enciclopedia è uno degli assi portanti del pensiero di Eco. Oltre al saggio contenuto ne Il pensiero debole, si vedano anche, a titolo di esempio, Eco 1975; 1984; 1997; 2007.


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Adriano Bertollini è assegnista di ricerca in filosofia del linguaggio presso l’Università di Palermo. Co-curatore della sezione «Sintomi» della rivista Machina, per DeriveApprodi ha pubblicato Filosofia dell’amicizia. Linguaggio, individuazione, piacere (2021).

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