Milano, una città «immobile»...
- Agostino Petrillo
- 29 lug
- Tempo di lettura: 7 min

Agostino Petrillo ci guida dentro all'esplosione del «modello Milano», svelandone fondamenta e sostanza: un sistema basato su Grandi Eventi e speculazione immobiliare, che ha favorito enormemente la rendita e innescato una spirale di aumento dei prezzi delle abitazioni senza precedenti. Un fallimento che non è solo morale o legale, ma soprattutto politico: Beppe Sala, il sindaco già commissario all'Expo, ha indirizzato consapevolmente Milano su questa china, rendendo la città appetibile ai capitali internazionale ma invivibile per chi la abita.
Per approfondire la tematica, consigliamo l'articolo di Paolo Grassi, Giacomo Pozzi e Valeria Verdolini pubblicato dalla rivista e il libro da cui esso è tratto: Milano fantasma (ombre corte, 2025).
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Cosa succede a Milano? Si tratta unicamente di una faccenda locale, di un episodio di «cattiva politica», di malversazione e abuso di potere circoscritti e tutto sommato isolati, o quanto avviene è lo specchio di vicende più grandi? Nel nuovo mondo in cui siamo stati sbalzati dagli eventi degli ultimi anni, il ruolo dello spazio urbano viene da qualche tempo trasformato: si moltiplicano le diseguaglianze economiche, i flussi migratori, i disastri ambientali e i processi di finanziarizzazione. Al contempo sotto i colpi del moltiplicarsi dei conflitti si allentano i nessi delle catene internazionali delle merci e si affacciano inediti problemi energetici. Si profila così chiaramente una crisi dell'urbanizzazione che, con buona pace delle visioni ottimistiche della urban age, si manifesta con processi senza precedenti di concentrazione della ricchezza e del potere. Nelle città si gioca ormai una partita in cui chi vince prende tutto. I gruppi sociali più qualificati e benestanti sembrano concentrarsi in poche città dominanti, tanto da far gridare alcuni teorici al delinearsi di un neo-feudalesimo, arroccato nei suoi caposaldi, e di una neo-plebe relegata in periferie senza storia. Al di là di queste riflessioni forse azzardate, la netta divisione sociale e la ineguale ripartizione delle ricchezze, anche nelle metropoli che «vincono», nelle capitali mondiali chiamate «città globali», è divenuta in ogni caso più acuta ed evidente con l’esasperazione dei processi di sfruttamento e di precarizzazione del lavoro già in atto da decenni, con il predominio delle piattaforme della logistica, con l’impoverimento e l’erosione dei ceti medi.
Nessuno crede più neppure all’ultima illusione di benessere a lungo venduta come tale, quella legata al successo delle «città creative», passate anch’esse da epitome della modernità felice e del trionfo della produzione immateriale, a luoghi sempre più arcigni e disuguali, come è stato recentemente costretto ad ammettere lo stesso ideatore del concetto di creative cities, Richard Florida. Questo il contesto in cui credo vada letta la vicenda milanese. Milano è forse addirittura una delle città che meglio rappresentano la crisi in corso, i possibili esiti perversi del celebrato «millennio urbano», dato che assomma in sé buona parte dei fattori che abbiamo prima elencato come caratteristici delle città di successo, senza peraltro possederne altri. È per certo una global city, nel senso che l’ambito degli interessi e dei flussi che la toccano va ben al di là del territorio lombardo e dello stesso ambito nazionale in cui è inserita, e le assegna un ruolo indiscusso di gateway a tutta l’Europa Meridionale. Ed è in maniera sempre più netta ormai la unica global city italiana, dato il progressivo declinare delle altre potenziali candidate a un simile titolo. Rappresenta inoltre sotto questo profilo un polo attrattivo dei migliori talenti, convoglia a sé, assorbe e macina incessantemente risorse e potenzialità dell’intero paese. Ed è diciamo ancora, anche se sempre meno, in qualche modo inserita nell’armatura urbana nazionale, dato che, mai come negli ultimi anni, la città è parsa sganciarsi dalle relazioni che continuava a mantenere con il vecchio triangolo industriale. Milano infatti, pur in mancanza di una chiara specializzazione, metropoli in cui «si fa un po’ di tutto», continua a godere di una rendita di posizione che la vede luogo di accesso privilegiato dei grandi capitali internazionali, mentre Genova è da tempo affondata, e ormai ridimensionata a shrinking city, a città piccola e marginale, e Torino per le sue scelte «localiste» si va anch’essa provincializzando e impoverendo. Milano invece continua a proiettarsi sulla scena internazionale, alla ricerca incessante di capitali stranieri. Ma in che modo? Il capoluogo lombardo ha fondato il suo sviluppo degli ultimi anni non tanto sulla endogeneità del processo di accumulazione e innovazione, su settori produttivi avanzati interni, quanto piuttosto sulla esogeneità, sulla capacità di attrarre dallo spazio economico globale capitale finanziario e umano. In quest’ottica va inquadrata perciò la realizzazione dei nuovi complessi residenziali che sono al centro dello scandalo. Sono costruzioni che hanno un sempre più un immediato valore monetario sul mercato internazionale, proprio per le dinamiche che prima si illustravano, sono in un certo senso asset, componenti di portafogli iperdiversificati, di cui gli immobili in città di prestigio sono una componente fissa. Un processo di classica finanziarizzazione del capitale edilizio, ben noto e già descritto anche da David Harvey. In questo ha risieduto in buona parte il «modello Milano», anche se la finanziarizzazione della città fisica da sola non è stata sufficiente, e c’è stato bisogno di continue iniezioni di eventi e mega-eventi per proseguire la traiettoria di crescita desiderata. Il modello Milano, se realmente è esistito qualcosa che può andare sotto questo nome, è stato dunque un mix di Grandi Eventi e speculazione immobiliare, che certo ha richiamato gli agognati capitali internazionali, ma con conseguenze non solo positive, dato che ha innescato una spirale di aumento dei prezzi delle abitazioni senza precedenti nella storia della città, con conseguenze sociali pesantissime. Un modello di sviluppo anomalo, basato sulla continua rincorsa da evento a evento, che ha reso necessario un costante rilancio, e cui non è stata estranea anche una comunicazione particolarmente aggressiva, come ha ricordato Lucia Tozzi, comunicazione che ha riproposto ossessivamente l’immagine (falsa) di una metropoli splendente e attrattiva in cui investire. Una ricetta che certo ha conosciuto successi, ma che ha lasciato enormi zone d’ombra.
Per venire all’attualità, la responsabilità principale di Beppe Sala, al di là di quelle di cui dovrà rispondere legalmente, è stata perciò proprio quella di avere indirizzato Milano su di un percorso di questo genere, redditizio (per pochi), ma sostanzialmente sbagliato, al di là di quelli che sono stati gli espedienti tecnici più o meno leciti utilizzati per raggiungere gli obiettivi desiderati. Una gigantesca scommessa sull’immobilare, che certo aveva già cominciato a fare capolino con Pisapia sindaco, ma non aveva trovato sistematicità di applicazione. D’altro canto c’erano nell’aria: «affari che nessuno faceva e che qualcuno doveva pur fare», come diceva Al Capone. Non solo i fondi sovrani in cerca di investimenti a lungo termine nelle città globali, che davano maggiori garanzie di quelli in borsa, ma anche i capitali accumulati dalle grandi piattaforme nel periodo pandemico, pure in cerca di cristallizzazione sul terreno della città. E c’erano anche a disposizione tante zone di Milano dismesse, appetibili e sottovalutate, bersaglio ideale per la gentrificazione, come insegnano i teorici del rent gap. L’ambigua stagione della rigenerazione urbana in salsa milanese è nata dunque in questa particolare congiuntura, al crocevia tra enormi disponibilità economiche in cerca di valorizzazione e spazi urbani che attendevano un loro possibile rinnovamento, ed è stata perseguita tenendo scarsamente in considerazione gli aspetti sociali della rigenerazione, che vorrebbero forme di partecipazione e di tutela degli abitanti delle zone interessate dal recupero. Il Comune ha perseguito a qualunque costo l’obiettivo strategico di attirare capitali concedendo oneri di urbanizzazione bassissimi (un sesto che a Berlino) a chi costruiva, e preoccupandosi poco delle ricadute sui quartieri. La ricetta ha funzionato, producendo enormi ricchezze per la rendita, ma non è stata sostanzialmente in grado di interrompere un ciclo involutivo sotto il profilo della produzione e dei settori avanzati che sta facendo da decenni perdere terreno a Milano. Quanto ci fosse di pericoloso in questa scelta era chiaro da tempo: non solo per le conseguenze sul piano sociale, con l’accentuarsi di fenomeni di polarizzazione e di espulsione verso le periferie dei ceti medi e medio bassi, ma anche sotto il profilo delle attività produttive. Sarebbe stato necessario legare a questo tipo di attività di marketing meramente «statica», al «magnetismo passivo» che ha caratterizzato la città, anche elementi di tipo «dinamico», quali la realizzazione di specifici cluster produttivi delle nuove industrie creative, cercando in questo modo di dare vita a distretti che si specializzassero nell’esportazione e nella diffusione di prodotti culturali locali. E questo è avvenuto sinora a Milano in maniera molto limitata: il proliferare delle a lungo vagheggiate «smart factories» non si è intravisto nemmeno alla lontana, mentre si sono andati esasperando gli aspetti negativi di questo cocktail di speculazione, rendita e Grandi Eventi, con il bel risultato di avere un centro città con redditi 4-5 volte superiori alle periferie, una distribuzione delle ricchezze più da terzo mondo che da paesi avanzati. Nel frattempo declinava la Milano del complesso moda-design-arte, a causa della chiusura e della normalizzazione dei luoghi della socialità alternativa, mentre una parte della scena politica e culturale giovanile veniva letteralmente espulsa dal centro dalla selezione prodotta dagli affitti alle stelle. Sacrificato al dio mattone spariva un pezzo della città che faceva trend a livello mondiale e che non solo ne rappresentava la storia, ma era anche il motore della sua capacità creativa.
Se è vero che: il modello Milano ormai «non si può fermare», come ha ripetuto spesso il sindaco Sala, nel senso che appare molto difficile riconvertirlo, occorre dunque prendere atto che va verso una direzione che non porta da nessuna parte…anzi giocando sul doppio significato del termine si può parlare di una città «immobile»…
Rimane una nostalgia di quello che la città avrebbe potuto essere se le cose nell’ultimo decennio fossero andate diversamente, se si fosse investito nell’associazionismo e nel sociale, se si fosse fatta rigenerazione vera con gli abitanti e non speculazione, se si fossero create opportunità lavorative di alto profilo per i giovani, se si fossero attirati studenti e skilled workers internazionali, se…
Ma come ammoniva Baruch Spinoza, le scelte che non abbiamo fatto appartengono alle vite di altri…
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Agostino Petrillo è professore di Sociologia urbana al Politecnico di Milano. Ha diretto master internazionali. Tra i suoi lavori: La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città (FrancoAngeli 2018), Un territorio orfano: l’arcipelago della Valpolcevera (con A. Torre, FrancoAngeli 2023), Atmosfere urbane (con T. Griffero, ETS 2024). Per MachinaLibro ha pubblicato Medusa. Figure politiche dell'apocalittismo contemporaneo (2025).
Inspired by the post’s critique of Milan’s speculative urban model, Milano Immobile is a text-based adventure game set in a dystopian version of Milan, where players navigate a city paralyzed by skyrocketing rents, gentrification, and the fallout of mega-events. The goal is to "Escape Road" the city’s center, controlled by elite developers and international investors, to reach the marginalized peripheries where grassroots communities resist.