La nuova vita e le nuove sorti del Rinnegato
All’armi all’armi la campana sona / li Turchi su’ calati alla marina / chine ha le scarpe rutte, si lle sola / non ha paura de pigliare spina.
Sona tammurru miu, sona partenza /venuta è l’ura ed amu di partire / Partimmu ccu le navi de Fiurenza / ca dduv’è lu Gran Turcu /
amu de jire!
I versi tormentati di una antica canzone calabrese ben esprimono l’angoscia e la paura che il pericolo di scorrerie saracene e barbaresche suscita per lunghi secoli nelle popolazioni rivierasche dell’Italia meridionale. La geografia costiera segnata dalle torri di avvistamento è sempre un confine tra la quotidianità e la catastrofe, tra la pace e la guerra, tra la vita e la morte. Ma c’è di più. Il Turco non è solo un pericolo per il corpo: è anche la possibile morte per l’anima, la schiavitù è anche il rinnegamento, l'anticamera del sacrilegio e della totale abiezione. A Roma, come in Calabria, si stornella ancora: «A tocchi a tocchi la campana sona / Li turchi so’ sbarcati alla marina». Nel Golfo di Napoli si canta almeno dal 1500 la storia di Michelemmà, la ragazza perduta perché «li Turchi ‘nce se vonno marità». Sì: il Turco è l’infedele, il diavolo, l’anticristo venuto per squartare, per impalare, per scorticare, per violentare. Meglio morire mille volte che vivere in una schiavitù abominevole, meglio il martirio che il banco della galea, o la lasciva vergogna dell’haremlik.
La lunga ombra del rinnegato
Eppure: segreta, sussurrata, scambiata come merce da taverna o da angiporto viene di là dal mare la leggenda, il miraggio di una città tutta d’oro, che sotto il Cielo della Mezzaluna vive frenetica e affascinante, sia pur lontani un mare si possono sentire, qui portati dal Levante i pervasivi effluvi di spezia del Mercato Egiziano, i richiami che risuonano sotto le volte del Kapalıçarşı, le dolci canzoni che filtrano dalle musharabye del Topkapi. Fortunato è chi sa farsi la propria fortuna: laggiù non si guarda a nascite o famiglie, a privilegi o lustro degli avi. Ciascuno può vivere liberamente la sua vita, può diventare ricco, potente. Come i yeniçeri, bambini strappati alle famiglie cristiane, a volte anche venduti dai genitori, ma che qui ricevono un’istruzione perfetta, entrano in un corpo militare celebre per la sua fedeltà, per il valore e per la considerazione in cui è tenuto, diventano ufficiali potenti e riveriti. Come tanti «ccha se so’ miss’ o turbante», come comunemente si dice, e che, capitani di mare o corsari, accanto al nome turchesco ostentano ancora cognomi greci, albanesi, schiavoni, siciliani, calabresi. Si può valicare un crinale impervio come quella della propria fede e dei propri costumi per aver salva la vita: se è necessario e le circostanze lo impongono. Ma a questa frontiera senza ritorno si può anche arrivare per irrequietezza, per spirito d’avventura, per insofferenza nei confronti di un destino di miseria che altrimenti non può cambiare. Se non talvolta per libera scelta, per genuina convinzione, per radicata fede. La lunga ombra del Rinnegato attraversa più spesso di quanto sembrerebbe possibile la storia del Mediterraneo. Su 48 Vezir-i âzam che occupano in due secoli una carica seconda soltanto a quella del Sultano, almeno 33 non sono per nascita ottomani e musulmani. La scoperta della cospirazione antispagnola organizzata da Tommaso Campanella, che ha come obiettivo quello di federare la Campania, la Calabria e la Sicilia all’Impero Ottomano, provoca nel 1599 la fuga verso Istanbul di oltre 2000 persone.
Giovan Dionigi, il figlio di Birno Galeni
Calabria, Le Castella del Capo Rizzuto, 1520: nel borgo sorto sulla spiaggia all’ombra del munito Castello aragonese, costruito a serrare uno dei capi di una baia ampia e profonda, nasce da Birno Galeni e da Peppa di Cicco un bambino che viene subito battezzato col nome
di Giovan Dionigi. La famiglia è povera, ma non poverissima.
Il bambino, che cresce di gracile costituzione e di aspetto malaticcio, può imparare dal maestro del luogo a leggere, scrivere e far di conto, mostrando mente pronta e intelligenza aperta. Il suo destino sembra essere quello del seminario: una carriera che lo terrà lontano dalle fatiche della terra o dai pericoli della vita di mare. Ben altra sorte, invece, segnerà la sua vita. Il 29 aprile 1536 una flotta di pirati barbareschi al comando di Khayr al-Din Barbarossa investe Le Castella. Nel sacco che segue, Giovan Dionigi viene catturato e fatto schiavo, mentre suo padre e i suoi fratelli vengono uccisi. Sua madre invece sopravvive.
Al-Fartas, lo schiavo tignoso
La cattura di prigionieri e di schiavi è nell’Impero ottomano una delle più redditizie attività legate alla guerra di corsa e alla pirateria.
I riscatti pagati da chi ha ricchezze o rango sono assai cospicui, i poveri vengono avviati ai mercati nord africani per essere venduti. Giovan Dionigi, con il suo aspetto macilento e malato, le croste e le squame di una tigna forse latente che la prigionia ha fatto esplodere, riscuote soltanto lo scarso interesse di Ja’far, capitano di tre piccole galee corsare, che lo compra e lo fa incatenare al remo. L’astro infelice di quello che ora viene chiamato Al Fartas, il Tignoso, sembra ormai fisso: oltre il remo, oltre le catene potrà esserci solo la morte per sfinimento, sotto la frusta, nell’incendio della nave a cui è inchiodato. Ma il Cielo della Mezzaluna ha in serbo per lui altri oroscopi. Il Tignoso comincia a capire che tra i Turchi e nel mondo della Sottomissione, in verità, allo schiavo può essere riservato un destino assai più variegato di quello che tra i cristiani si crede: dai banchi della galera si può aspirare, con l’aiuto della fortuna ma anche della propria determinazione e del proprio carattere, alla libertà. E dalla libertà si può arrivare alle molte opportunità che una società cosmopolita e tutto sommato aperta può offrire: la mercatura, la carriera militare, un incarico nel Diwan, la complessa macchina dello Stato e delle sue amministrazioni. Una sola la condizione preliminare: l’avere abbracciato la Vera Fede, l’essere diventato un Vero Credente. Non si sa come, il Tignoso riesce ad attirare la simpatia del suo padrone, si fa benvolere, piazza al momento giusto opportuni consigli. Quattro anni dopo la sua cattura, il giovane schiavo viene sbarcato e addetto al servizio di casa. Qui la sua avvedutezza e il suo senso pratico, nonché la sua capacità di condurre in porto affari complicati, gli fanno guadagnare la piena fiducia anche di Mortama, la moglie del suo padrone, che dopo poco tempo intende liberarlo e fargli sposare sua figlia. Ja’far, informato di tale progetto, acconsente ma pone una condizione irrinunciabile: Al Fartas – ma tale soprannome è divenuto un poco imbarazzante – dovrà abbracciare l’Islam.
Uluç Alì, Alì il Rinnegato
Rinnegarsi, abiurare: Giovan Dionigi, il futuro seminarista di qualche anno indietro certo avrebbe rifiutato con orrore la proposta. Ma il presente urge, rafforzato dalla facile supposizione che un rifiuto gli costerebbe i favori di Ja’far e Mortama e un pronto ritorno ai banchi della galera. Ma oltre ogni dubbio, sono gli eventi che alla fine decidono.
In uno scontro il Fartas uccide un suo compagno di prigionia siciliano, che geloso della sua possibile fortuna lo assale. Per sottrarsi alla sicura condanna a morte c’è un solo mezzo: accettare la protezione delle leggi ottomane, che nulla imputano a un müslüman per l’uccisione di un javur, di un khafir. La circoncisione, che sancisce formalmente il suo passaggio all’Islam, gli fa ottenere la duplice libertà dalla condanna per omicidio e dalla schiavitù, la mano di Bracaduna, la figlia del suo ex padrone, e un nuovo nome. Quello di Uluç Alì: che vuol dire Alì il Rifugiato – nelle parlate cristiane: il Rinnegato.
A proposito di Ja’far
Vale la pena per un attimo di tornare al pirata Ja’far. Il ruolo che egli occupa nella vicenda di Giovan Dionigi Galeni è importantissimo.
È grazie alla sua benevolenza che il giovane e malandato schiavo cristiano ottiene la libertà, una moglie, e l’accesso a un rango insperato. Da che cosa può essere nata tanta insolita attenzione?
Una lecita supposizione è che Jafar sia anch’egli un uluç di origine italiana: ipotesi che spiegherebbe la simpatia che tra i due certo corre da subito. Una prova indiretta di una tale ipotesi è data dal fatto che il servizio segreto spagnolo dell’epoca segnala nella cerchia del celebre kapudanpaşa Turgut Reis la presenza di un comandante a nome Ja’far Catania.
1541 - 1571: come si diventa un grande ammiraglio
Primavera del 1541: Uluç partecipa con le navi di Ja’far alle campagne di Turgut Reis. Tali campagne si protrarranno almeno sino al 1544. Distintosi per sagacia, valore e capacità tattiche, riceve il comando di una galea. Nel 1545, i Turchi, con i Barbareschi loro alleati, possono considerarsi i vincitori di una vera e propria guerra iniziata nel 1538 con la vittoria di Prevesa sugli spagnoli e i genovesi di Andrea Doria. Una serie di trattati o di tregue con le Potenze europee garantisce loro una supremazia di fatto su quasi tutti i bacini del Mediterraneo.
Le flotte corsare nordafricane possono esercitare indisturbate la pirateria su tutte le rotte commerciali che solcano i nostri mari. Tunisi, presa dai Francesi nel 1535, poco può contro Algeri, di cui Turgut è diventato Bey. Nel 1550 la guerra riprende: Turgut si installa a Gerba, in Tunisia. Contro lui muove, comandata da Andrea Doria, la flotta di Carlo V. Nel 1551 Turgut e Sinan Paşa tentano uno sbarco su Malta, vengono respinti, si riversano su Gozo indifesa, la devastano e catturano almeno 5000 schiavi. Si dirigono poi verso Tripoli, spagnola dal 1510 e dal 1530 presidio dei Cavalieri di Malta, e la espugnano massacrandone la guarnigione. Alla spedizione prende parte anche Uluç Alì. Nell’anno successivo, la stessa flotta scompiglia quella imperiale ancora comandata dal vecchissimo Doria nelle acque tra Napoli e l’arcipelago pontino. Uluç Alì è considerato il luogotenente di Turgut.
1554: al comando di due fuste, incrocia nel Mar di Sardegna. La sua prima impresa è la cattura della galera catalana comandata dal cavaliere Giacomo Losaga. Uluç ne ricaverà un riscatto altissimo. 1555: riceve il comando di cinque galere grosse e cattura due navi dei Cavalieri di Malta. La sua fama di combattente terribile ma non privo di slanci di lealtà e di generosità si fa sempre più forte. 1556: Uluç viene sconfitto di fronte a Gerba da ben tredici galere comandate da Gian Andrea Doria, nipote di Andrea. Non è che il primo assalto di un duello che durerà sino a Lepanto. Uluç ha accettato il combattimento malgrado la sua manifesta inferiorità. Rimarrà a terra in forzato congedo per quattro anni. Febbraio del 1560: Filippo II di Spagna arma una cospicua flotta per tentare la riconquista di Tripoli. Turgut manda Uluç a Istanbul per chiedere aiuto al Sultano Solimano. Muove dalla capitale ottomana la flotta di Piyale Paşa. Lo scontro di Gerba segna la sconfitta della flotta cristiana. Uluç con le sue navi vittoriose dirige verso il Tirreno. 1 giugno 1560: un’incursione di Uluç Alì si spinge dalla costa ligure fino alla piemontese Villafranca. Il Duca Emanuele Filiberto di Savoia riesce ad evitare per miracolo la cattura o la morte: deve però riscattare a condizioni durissime quaranta dei suoi uomini presi prigionieri. Tra le altre cose, Uluç ha chiesto di poter incontrare, per renderle omaggio, la Duchessa Margherita, che è moglie di Emanuele Filiberto, ma anche sorella del Re di Francia. Incontro a cui Alì
si presenta con tutto il fasto di cui è capace, preceduto dalla sua guardia del corpo in alta uniforme. Dalla corte sabauda verrà fatta correre la voce che all’incontro abbia partecipato in realtà una Dama della Duchessa, offertasi per togliere dall’imbarazzo Sua Signoria.
1562: Uluç viene nominato dal Sultano Comandante della Guardia di Alessandria. Corre voce che nel corso di uno sbarco in Calabria incontri sua madre Peppa, che tenta di convincerlo invano a tornare cristiano e rifiuta i suoi ricchi doni. 1563: Uluç incrocia nel golfo di Napoli e fa ricca preda. 1565: prende parte all’assedio di Malta. Nel corso della battaglia che infuria intorno al Forte Sant’Elmo, Turgut cade. Uluç deve comandare l’assalto finale al forte. Dal Sultano riceve la nomina a Bey di Algeri, lascia l’assedio e va a prendere possesso della sua carica. Torna a Malta soltanto per assistere alla vittoria del Cavalieri e corre il rischio di farsi catturare. Ad Algeri, Uluç verrà considerato il «re» della città, anche se è soltanto un dignitario che esercita la sua sovranità in nome della Sublime Porta. 1566: Solimano il Magnifico muore di apoplessia nel corso di una campagna contro gli Ungheresi. Il suo Vezir-i âzam, Mehmed Soqolli, manovra per assicurare la successione a Selin. Uluç gli dà il suo appoggio. Soqolli e l’erede, salito al trono col nome di Selin II, gli assicureranno favori e protezioni. 1568: gli Spagnoli tentano di portare Uluç dalla loro parte, offrendogli un «marchesato» nei territori nordafricani da riconquistare con il suo aiuto. A tessere la trama è un agente segreto, tale Ganguzza, nativo delle Castella e lontano cugino di Uluç. Il tentativo fallisce, gli Spagnoli ottengono uno sdegnato rifiuto. 1569: Uluç organizza una spedizione via terra contro Tunisi e la conquista alla testa di 5000 yeniçeri. Estate del 157I: con una flotta veloce e imprendibile, Uluç Alì devasta Creta e Cerigo, cattura quattro galere maltesi, tra cui la bellissima «San Giacomo», si spinge nell’Adriatico, il mare veneziano, quasi fino a Zara.
...Lepanto!
17 ottobre 1571: ricongiuntosi al grosso della flotta turca, e ottenuto il comando dell’ala sinistra, Uluç Alì schiera sessanta galere in ordine di battaglia di fronte alle Isole Curzolari, nel golfo di Lepanto. Ha di fronte Gian Andrea Doria. Uluç rivela in questo frangente tutte le sue qualità di comandante e di stratega. Con una serie di manovre e di contromanovre contiene l’assalto cristiano e contrattacca. Sta quasi per sopraffare i suoi avversari e rovesciare le sorti della giornata quando il sopraggiungere di rinforzi genovesi lo costringe a una difficile ma abilissima manovra di sganciamento che gli permette di riunire e di salvare buona parte delle sue navi. I suoi tentativi di soccorrere gli altri schieramenti turchi sono a quel punto ma non per sua colpa tardivi. Tutti gli ammiragli e i comandanti impegnati sono stati uccisi, catturati o definitivamente sconfitti: Müezzinzade Alì Paşa, Pertew Paşa, Mehmet Shoraq, Kaur Alì, Kara Hodja. Le navi ottomane hanno quasi tutte dovuto fronteggiare l’ammutinamento dei rematori cristiani: solo a bordo delle navi di Uluç l’ordine regna perfetto. In quella che sembra la più grande vittoria della Croce sull’Islam, solo lui può tornare a Istanbul se non vittorioso, almeno non sconfitto.
Qiligh, La Spada
Ma da vincitore lo accoglie il Sultano: che ha per lui in serbo la nomina a Grande Ammiraglio di tutta la flotta ottomana e il soprannome, onorifico, di Qiligh, La Spada. Il destino di Giovan Dionigi, del Tignoso, del Rinnegato, sembra arrivato al suo compimento. A ben poco di più può aspirare il gracile calabrese di un tempo, che sotto il Cielo della Mezzaluna ha saputo trovare, aiutato dalla fortuna ma anche da una determinazione fuori dal comune, ricchezza, fama, gloria. Eppure, Qiligh non si ferma a riposare sugli allori. Ammaestrato dalla lezione di Lepanto, si dedica alla modernizzazione della marina ottomana: fa aumentare il numero dei cannoni sulle navi, sostituisce gli arcieri con gli archibugieri, studia gli impieghi militari delle navi tonde a sola vela. Né da poco sono le imprese che riesce a compiere: agli imperiali, per esempio, che avevano nel ’74 ripreso Tunisi, toglie definitivamente la città un anno dopo. Nel 1580 partecipa alle complesse trattative di pace con la Spagna condotte da Giovanni Maragliani, milanese, affascinante figura di diplomatico-spia.
Lo scenario, popolato da rinnegati, marrani, dragomanni infidi, medici ebrei influentissimi a corte, vizir viziosi e venali, è quello dell’intrigo più sfrenato, del doppio o del triplo gioco: Uluç si presta volentieri alla parte del Turco Cattivo, minaccia più volte il Maragliani di impalarlo e di scorticarlo vivo. Nel 1582 reprime con durezza una rivolta di tartari a Caffa sul Mar Nero. Si occupa poi di un progetto di taglio dell’istmo di Suez. Getta nel quartiere di Topkhane le fondamenta di una magnifica Moschea che dovrà perpetuare il suo ricordo. Nel suo testamento lascerà ai suoi schiavi cristiani il bene più prezioso: la libertà. Tutto il resto, è una consuetudine dei Rinnegati, andrà al Sultano. Muore il 4 luglio del 1595. Nel nostro Meridione circolano e circoleranno ancora a lungo le tante deformazioni dialettali del suo temutissimo nome ottomano: Ulug, Lucciallì, Uccialli, Occhialì, Occhiali.
È doveroso aggiungere…
…A proposito di alcuni personaggi citati, che Piyale Paşa era ungherese, figlio di un calzolaio. Turgut Reis, la Spada dell’Islam, pur essendo nato a Bodrum, aveva probabili origini greche e cristiano-ortodosse. Mehemet Soqolli o Sokhala era di origini croate, da ragazzo era stato chierichetto nella chiesa del borgo di San Saba, presso Dubrovnik. Convertitosi all’Islam, entrò nell’amministrazione di Solimano sino a diventare Vezir-i âzam. Dopo la morte del principe, fu considerato il vero erede e consolidatore della sua opera, e sotto il figlio e successore di questo, Selin II, fu di fatto il capo dell'Impero. Cağaloğlu Yusuf Sinan un tempo si chiamava Scipione Cicala e proveniva da una famiglia vicecomitale siciliana. Era stato catturato nel 1560. Rinnegatosi, ebbe lunga carriera e sorti gloriose, fu beylerbey di Erzurum e per due volte kapudanpaşa della marina imperiale. Arrivò a diventare sia pure per brevissimo tempoVezir del Sultano. A Istanbul è ancora celebre per aver dato il suo nome a un quartiere centrale della città. Kara Hodja era nato a Chioggia, o secondo altre fonti a Fano. Ex frate domenicano, era entrato volontariamente al servizio del Sultano. Fu a capo di una flottiglia corsara con base ad Algeri, ma ebbe dalla Porta anche incarichi istituzionali, come quello di Governatore del sançak (territorio di confine) di Valona. In epoca appena successiva, ebbero spicco nelle vicende del Mediterraneo ottomano due personaggi dal nome di Usthad Murad e Yusuf Rais. Il primo, ammiraglio e Bey di Tunisi, era nato a Levanto e si era chiamato Benedetto D’Arri o Del Rio. Il secondo era stato, prima della sua conversione all’Islam, il marinaio John o Jack Ward, nato a Feversham nel Kent. Protagonista di un ammutinamento, l’evento più drammatico che potesse occorrere su una nave di Sua Maestà, aveva per un certo tempo esercitato la «corsa» dalla parte cristiana, per poi passare deliberatamente al servizio del Bey di Tunisi, rinnovando fasti e nefasti della pirateria barbaresca. Notevoli le vicende parallele di due tagliagole olandesi, Jan Janszoon van Haarlem e Gus De Veenboer, che sotto bandiera barbaresca fondarono a Salè, sulla costa atlantica del Marocco, una vera e propria Repubblica corsara. Il primo dei due reis si faceva chiamare Murat, il secondo Süleyman.
Nota dell'autore
Quelle qui in abbozzo raccontate sono solo storie di vite vissute: non hanno la pretesa di porsi come paradigmi interpretativi di determinati universi religiosi e culturali. Né voglio qui statuire che l’Impero Ottomano e il suo Islam fossero i regni dell’accoglienza e dell’assoluta benevolenza verso lo straniero. Semplicemente: relata refero.
È comunque abbastanza noto, anche se qui il dato è solo sfiorato, che lo strettissimo legame tra religione e società nell’Impero della Sublima Porta non impedisse la convivenza della Sūnnah con i Millett, le comunità non islamiche che pur minoritarie erano comunque numerose e di antica tradizione mediorientale: Ebrei, Greco-ortodossi, Cattolici, Armeni, Uniati, Caldei, Yazidi, Zoroastriani. Convivenza statuita per legge e regolata da precisi obblighi giuridici, amministrativi e fiscali. Forse più evidente in questo racconto appare il fatto che l’appartenenza religiosa, pur profondamente legata a dogmatiche e normative di carattere spirituale, implicasse anche e soprattutto un principio di identità capace di creare un legame solidissimo tra individuo, collettività e potere. Ma su questo tema sarebbe davvero interessante tornare. Spero anche mi sia attribuita buona fede se qui affermo senza illustrarlo che non altrettanta fortuna abbiano avuto molti, troppi «passaggi» alla Cristianità dalle altre fedi abramitiche: a Roma la «conversione» è stata per lunghi secoli tanto evocata come l’unica strada verso la salvezza per i non battezzati, quanto ritenuta come il terreno più fertile per la finzione, l’inganno, la mala fede, le più segrete eresie…altre storie, comunque, riservate ad altri momenti di indagine e narrazione.
Letture consigliate
Jason Goodwin, I Signori degli orizzonti. Una storia dell’impero ottomano, Einaudi, Torino, 2009
Salvatore Bono, Guerre corsare nel Mediterraneo. Una storia di incursioni, arrembaggi, razzie, il Mulino, Bologna, 2019
Peter Partner, Corsari e crociati Volti e avventure nel Mediterraneo, Einaudi, Torino, 2003
David Abulafia Il Grande Mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori, Milano, 2016
John Julius Norwich, Il Mare di Mezzo. Una storia del Mediterraneo, Sellerio, Palermo, 2020
E naturalmente:
Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo all’epoca di Filippo II (2 voll.), Einaudi, Torino, 2010
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