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Memorie perdute. Amnesia bianca e rivolte antirazziste in Italia


Louis Roquin, Matines, 1996


Se sei in Africa puoi pensare

che gli italiani siano molto buoni

ma se vieni qui in Italia…

Jerry Masslo


Abbiamo guardato al 2021 come l’anno in cui qualcosa potesse cambiare. Che con il vaccino si sarebbe riusciti a mettere sotto controllo la diffusione del nuovo coronavirus. Il 2021 è arrivato, eppure tutti i desideri sublimati nell’inizio dell’anno nuovo, la nostalgia del ritorno ai tempi normali, si stanno infrangendo contro un inesorabile dato di fatto: questa è e sarà la nostra nuova normalità. Fatta ancor più di prima di incertezze, intermittenze e irregolarità. Durante l’anno passato abbiamo visto che la scure della pandemia non ha colpito tutt* indistintamente, aggravando condizioni preesistenti di diseguaglianze socio-economiche. Abbiamo visto student* chius* fuori scuole e università con uno schiocco di dita, senza sapere se e come ci sarà un pieno ritorno nelle aule, nei corridoi, per le scale, nei cortili. Abbiamo visto l’eccellente sistema sanitario italiano collassare su se stesso, come i duemila metri quadri dell’area parcheggio dell’Ospedale del Mare a Napoli. Abbiamo visto lavoratrici e lavoratori aver puntato una pistola alla tempia: sopravvivenza economica contro salute. Apparentemente neanche una tragica media settimanale di più di seicento morti al giorno, durante la prevista seconda ondata della pandemia, sembra avere scosso il sonno della coscienza che sta ancor più frammentando e alienando la società italiana, bianca. Ci pare necessario sottolinearlo, perché, se andiamo a osservare con più attenzione, l’anno passato ha anche visto il manifestarsi di alcune interruzioni nel discorso dominante che possono essere inserite in uno spartito di rivolte antirazziste che hanno posto alcune questioni nodali per gli anni e le lotte a venire.

Perché in Italia non esistono ancora ricerche scientifiche, né indagini giornalistiche, né una qualsiasi narrazione pubblica che tengano conto degli effetti socio-economici e sanitari della pandemia sulle comunità di «migranti internazionali» e su* loro figl*? È solo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna o in Francia che le comunità nere hanno registrato un peggiore output in termini di cure ricevute e mortalità? Perché si riesce a parlare di razzismo sistemico e suprematismo bianco solo se si guarda al di là e non al di qua dei nostri steccati? Finora questi interrogativi sono stati evitati, messi ai margini del dibattito o banalizzati. Comparsi in occasioni di eventi circoscritti, come la legge di regolarizzazione di alcune categorie lavorative razzializzate o l’uccisione di George Floyd da parte di forze dell’ordine negli Stati Uniti. Quest’opera di rimozione dal discorso pubblico coinvolge appieno il mondo della sinistra antagonista bianca. «Povertà», «ultimi», «invisibili» diventano significanti vuoti in cui annacquare le complesse articolazioni su cui si strutturano le classi subalterne. Un facile espediente per evitare di affrontare politicamente le differenze di condizioni materiali e simboliche in seno a* subaltern* e cercare di risolvere un problema di consenso interno alle classi popolari. In azione anche in occasione delle rivolte carcerarie scoppiate durante il primo lockdown di marzo, quando a lottare e morire sono stati per la stragrande maggioranza detenuti migranti, che costituiscono un terzo di tutt* le e i reclus* pur essendo meno di un decimo della popolazione residente in Italia.

Questi ci sembrano alcuni dei limiti che con più forza tengono tuttora al palo il mondo della sinistra radicale bianca italiana, che pare, tranne alcune eccezioni spurie, sempre più autoreferenziale e incapace di dialogare e stare con le e gli oppress*. Per uscire da quest’impasse ci sembra necessario riuscire a guardare al di fuori dei recinti delle nostre tradizioni politico-culturali, a riconoscere e affrontare le nostre pulsioni razziste e ad aprirci a pratiche e principi che, invece di facilitare il compito, lo complicano. In questo senso la traduzione di alcuni dei principali autori della tradizione radicale nera, a partire dall’opera di Cedric Robinson, Black Marxism. The Making of the Black Radical Tradition (1983) – di cui Vortex ha proposto due estratti dalla prefazione curata da Robin G. Kelley – non è un esercizio scolastico, ma, al contrario, il tentativo di fare breccia in un dibattito sempre più arroccato dietro espressioni di principio che raramente si tramutano in pratica politica.

Perché in Italia non si riesce ancora a fare dell’antirazzismo una costante della propria microfisica politica? Perché si dimostra interesse alla vita delle comunità nere solo quando subiscono violenze e morte?


Il cuore di tenebra del marxismo italiano. Una storia ancora da scrivere

Sebbene negli ultimi anni, grazie a decine di studi e ricerche in diversi settori disciplinari, sia diventato di maggior senso comune un discorso sulla storia coloniale italiana, il ruolo ricoperto dalla sinistra pare sotto-analizzato. Se nel mondo accademico ci si maschera con la vuota pienezza delle parole: intersezionalità, colonialità e così via; in quello militante è come se esistesse una sorta di tabù che impedisse di fare (auto)critica; che in nome di un presunto principio di unità delle e degli oppress*, di una concezione della differenza come fattore inevitabilmente divisivo, ostacolasse un processo di liberazione della prassi dai resti coloniali della nostra tradizione politico-culturale. Come afferma Kelley, «Black Marxism è una sfida al nostro senso comune della storia, della modernità, del nazionalismo, del capitalismo, dell’ideologia radicale, delle origini del razzismo occidentale e della sinistra globale dal 1848 a oggi» ed è questa sfida che, a nostro parere, dovremmo raccogliere. Non solo un decentramento della storiografia marxista prodotta dalle nostre parti, ma una sua riscrittura. Secondo Robinson, infatti, il capitalismo e il razzismo non furono in discontinuità con il vecchio ordine feudale, ma, piuttosto, un’evoluzione interna che produsse un sistema globale di «capitalismo razziale», strutturato su schiavitù, genocidio e inferiorizzazione psico-emotiva. In rottura con la concezione mono-etnica e nazionalista delle classi lavoratrici, fortemente presente nella storiografia marxista occidentale, la proposta di Black Marxism ci invita a guardare la formazione della classe operaia europea e l’invenzione della bianchezza come l’esito di un processo di razzializzazione del proletariato, avviato nel ventre della stessa Europa prima dell’incontro con la manodopera africana e indigena. Gli slavi e gli irlandesi, ad esempio, furono collocati all’ultimo scalino della gerarchia razziale, divenendo così i primi «negri d’Europa». Per quanto riguarda gli irlandesi, questa forma di «razzialismo inglese», ci dice Robinson, ha plasmato il processo di proletarizzazione e la formazione di una coscienza di classe vincolandole a un’ideologia razziale, che consentì alla borghesia inglese di giustificare bassi salari e soprusi a una certa parte della classe lavoratrice.

È possibile, sotto questa nuova luce e con temporalità differenti, riscrivere alcuni dei passaggi fondamentali della storia italiana e della formazione della classe operaia italiana? Il Risorgimento, l’Unità d’Italia, le imprese coloniali di fine Ottocento e quelle fasciste, le emigrazioni verso gli Stati Uniti e il Nord Italia? Possiamo inserire i popoli del Sud Italia tra i «negri d’Europa»? Si può parlare, quindi, al pari di quello inglese, di uno specifico «razzialismo italiano»? E come si pone quest’ultimo nei confronti dei flussi migratori degli ultimi quarant’anni? Rispondere a questi interrogativi ci aiuterebbe ad aprirci a nuove storie e voci che camminano al nostro fianco, inascoltate e inosservate, a imparare un nuovo linguaggio militante per il presente.


Voci in dissidio. Una cartografia critica

Ciò che proponiamo, quindi, è abbandonare il nostro senso dell’orientamento, non dare per scontato i punti cardinali della nostra prassi-teoria-prassi. Per non perderci abbiamo bisogno di altre stelle polari a indicare le possibili direzioni da seguire. Se si guarda infatti alla costellazione teorico-politica della tradizione radicale nera può essere tracciata una cartografia di alcune voci, che parlano da diverse coordinate spaziali e temporali e mettono in luce il ruolo dei partiti comunisti e, in generale, del marxismo occidentali da altre angolature. Si può iniziare il cammino a partire dalle formulazioni critiche più celebri, come quella di Aimé Césaire nella Lettera di dimissioni dal Partito Comunista Francese nel 1956, dopo il voto del PCF al proseguimento del governo coloniale in Algeria. «È sufficiente dire che siamo certi che le nostre questioni (o, se si preferisce, la questione coloniale) non possono essere trattate come mera parte di un insieme più importante, una parte rispetto la quale altri possono negoziare o pervenire a qualsiasi compromesso appaia loro appropriato alla luce di una situazione generale […]». La denuncia una postura fraternalista dei comunisti occidentali, che ricorda il paternalismo coloniale: «[C]i stiamo effettivamente confrontando con un fratello, un fratello maggiore che, fiero della sua superiorità e sicuro della sua esperienza, ci prende per mano (ahimè, a volte brutalmente) per guidarci lungo quel cammino dove egli sa che troveremo la Ragione e il Progresso. […] [N]on possiamo più delegare nessun altro per pensare al posto nostro […] non potremo permettere a nessun altro, nemmeno ai nostri migliori amici, di garantire per noi». Non una rinuncia al marxismo o al comunismo, quindi, ma metterli al servizio dei popoli neri e non il contrario.

Per Césaire c’è bisogno di una rivoluzione copernicana, di una dottrina pensata da e per i popoli neri, della conquista del proprio diritto alla personalità e all’iniziativa. Le sue parole riecheggiano con sonorità differenti in un altro celebre passaggio, scritto nelle sale dell’Ospedale psichiatrico di Blida in Algeria: «Quando si scorge nella sua immediatezza il contesto coloniale, è evidente che ciò che divide il mondo è anzitutto il fatto di appartenere o meno a una data specie, a una data razza. In colonia l’infrastruttura economica è pure una sovrastruttura. La causa è una conseguenza: si è ricchi perché bianchi, si è bianchi perché ricchi. Perciò le analisi marxiste devono essere distese ogni volta che si affronta il problema coloniale». A parlare è Frantz Fanon nei Dannati della terra (1961), invitandoci a portare razzismo e colonialismo dentro la riflessione marxiana, per rivedere alcune delle sue categorie chiave come quella di «struttura» e «sovrastruttura»: nelle colonie i rapporti sociali di produzione non sono determinati dalla classe, ma dal colore della propria pelle. Distendere il marxismo, proprio a partire dai suoi limiti rispetto la questione coloniale-razziale, non significa dunque semplicemente estendere il pensiero di Marx ai margini dell’Europa, perché la «colonia», attraverso la decolonizzazione e i flussi migratori, è tornata nel ventre degli stati nazionali. E tuttavia la sinistra radicale bianca è spesso partecipe di una narrazione autoassolutoria che sottostima la matrice coloniale della propria cultura, non pensandosi razzista perché portatrice di istanze presuntamente universali, e contribuisce a un dispositivo di amnesia collettiva che scatta quando le bolle mediatiche scoppiano.

L’attenzione alla centralità del razzismo sembra infatti più seguire l’evento mediatico piuttosto che scardinarne la temporalità. «Attitudini scioviniste bianche» che ci conducono alla componente forse più significativa della cartografia di queste voci. Così scrive Claudia Jones in un articolo del 1949 per «Political Affairs» dal titolo An End to the Neglect of the Problems of the Negro Woman: «In una comunità, una delle principali sindacaliste Negre, tesoriere della sua sezione di Partito, dopo ogni funzione sociale si sentiva dire da una progressista bianca: "Lasciami i soldi; potrebbe succederti qualcosa". In un altro caso, una collaboratrice domestica Negra, che voleva entrare nel Partito, fu informata dalla sua datrice di lavoro, una comunista, che era “troppo arretrata” e “non era pronta” a unirsi al Partito. In un'altra comunità ancora, che dopo la guerra è stata popolata per il 60 per cento da Negri e per il 40 per cento da bianchi, le madri progressiste bianche si sono mosse per far uscire i loro figli dalla scuola di questa comunità […] Questi atteggiamenti sciovinisti, in particolare nelle forme in cui sono espressi nei confronti della donna Negra, sono senza dubbio una ragione determinante per la partecipazione gravemente insufficiente delle donne Negre alle organizzazioni progressiste e al nostro Partito come membri e leader». È una critica frontale al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America di cui è militante e in generale alla sinistra statunitense, incapace di affrontare le questioni di razza e genere. Rivolgendo verso di noi le questioni poste da Jones, non dovremmo forse domandarci perché nelle nostre collettività organizzate sono quasi del tutto assenti uomini e donne ner*?


Smarrimento postcoloniale tra le rovine del presente

Nel saggio Malinconia di sinistra, Enzo Traverso ha proposto una lettura emozionale e affettiva del momento storico seguito alla caduta del Muro di Berlino. Centrare lo sguardo, più che sulle teorie e le analisi politologiche, sulla maniera in cui la (sedicente) «fine della storia» si è inscritta nell’immaginario psichico dei movimenti rivoluzionari, permette di cogliere il senso profondo della proliferazione di opere dai toni nostalgici, in cui l’oggetto desiderato continua a insistere sul presente sotto forma di una perdita vissuta come irredimibile. A essere smarrita nelle ceneri della storia è quella fiducia, per certi versi messianica, nel futuro e in una inevitabile vittoria, che ha sempre accompagnato le pur innumerevoli sconfitte e reso possibile che la memoria dei vinti potesse sublimarsi nella certezza di un loro riscatto. La pandemia non può che aver acuito e reso ancor più opprimente tale sensazione di un vero e proprio smarrimento esistenziale, di vite impossibilitate a proiettarsi in un futuro che non sia segnato da distopie, catastrofi e solitudini. Tuttavia, il sentimento di un futuro passato e il ripiegamento riflessivo che ne consegue, questi resti che sembrano ormai insopprimibili, non possono essere ridotti a una forma di immobilismo patologico, a un sintomo di cui sbarazzarci con un atto di volontà. Al contrario, potrebbero divenire il luogo necessario in cui ritrovarsi e da cui elaborare il proprio rifiuto dello stato di cose esistenti.

È in questo paesaggio di rovine che è possibile farsi assalire da una particolare forma di nostalgia, postcoloniale, che, oltre a raccogliere le speranze infrante delle lotte di liberazione nazionale, ci conduce a interrogarci sulle possibilità di un incontro mai pienamente avvenuto, segnato dalle incomprensioni e dalla consapevolezza che la storia avrebbe potuto forse prendere direzioni diverse, impreviste. Se questo dialogo mancato, nelle pagine di Traverso, si condensa nell’immagine di T.W. Adorno e di CRL James che, conosciutisi a New York, non vanno oltre un’impressione di superficie (probabilmente a tradire l’inconscio coloniale della teoria critica francofortese), ci sembra necessario interrogarsi allora su che cosa rimane oggi di quell’incontro e su fino a che punto non stiamo invece continuando a mancarlo, ancora intrappolati in un discorso approssimativo, poco inclini a mettere in discussione i nostri orizzonti epistemici. Nonostante l’apparente contaminazione con un lessico radicato nella tradizione dell’Atlantico Nero, la traduzione di tali concetti nella quotidianità del contesto italiano sembra alle volte meramente nominale e circoscritta a pratiche discorsive che non mettono in crisi, se non appunto a un livello formale, lo sguardo e le pratiche di analisi e di militanza. Come a mimare le novità valorizzate dalla temporalità del marketing accademico, il rischio è dunque di farsi attori di un retorico restyling, trasformando strumenti di analisi in formule e rinunciando così, più o meno consapevolmente, di andare a scavare nelle viscere della società italiana.


Soggetti intravisti

Uno dei campi più problematici, in cui queste dimensioni emergono con forza, è sicuramente la rituale ripresentazione del «nuovo soggetto», una modalità di porre l’attenzione sulla centralità del razzismo ogniqualvolta ci troviamo confrontati all’iniziativa dei settori più marginali della società, quel sottoproletariato razzializzato normalmente silenziato, che nasconde e allo stesso tempo esprime l’assenza di profondità storica che riserviamo a certi specifici avvenimenti. Questo eterno ripetersi dell’uguale, per alcuni versi simile all’eterno presente pubblicitario della postmodernità, dimentica e rimuove dalla propria memoria l’esperienza di lotta ormai pluridecennale delle soggettività migranti e de* loro discendenti in questo Paese. In maniera assai simile al protagonista del celebre film Memento di Cristopher Nolan, possiamo risvegliarci ogni giorno, azzerare i nostri ricordi e continuare a considerarci come in un luogo di recente immigrazione, in cui certi processi devono ancora sedimentare, aspettando sul bordo del fiume il prossimo evento. Miguel Mellino in Governare la crisi dei rifugiati, ci ricorda che il triennio 1989-1991 non fu segnato solo dalla scomparsa ufficiale dell’URSS, ma la fine del «secolo breve» in Italia ci restituisce in più una serie di eventi pubblici altrettanto fondativi del nostro presente storico. Come suggerito, sebbene siano poco presenti nella memoria collettiva, questi ci permettono non solo di costruire una traccia che dia spessore genealogico agli avvenimenti più recenti, ma possono condurci a interrogare il nostro passato più lontano alla luce di uno sguardo decentrato, che sappia guardarsi dai margini per ritrovare quel capitolo bianco e censurato, coloniale, del nostro inconscio collettivo nazionale, per dirlo con le parole di Lacan.

Era il 1989 quando Jerry Masslo viene assassinato in un capannone di Villa Literno, in cui dormiva con altri 28 migranti anch’essi impiegati come forza-lavoro nella raccolta di pomodori. Rifugiato proveniente dal Sudafrica, Maslo stava prendendo parte a una prima campagna di mobilitazione di braccianti neri in Italia, che aveva cercato di coinvolgere anche le forze sindacali dell’epoca e che era parte di un processo di riconoscimento delle continuità dell’esperienza razziale, di quella linea del colore che collegava sotterraneamente il Sudafrica dell’apartheid alla democratica Italia. È sufficiente riascoltare oggi le parole pronunciate da Masslo in una fugace intervista rilasciata prima della sua morte, per liberare il sintomo postcoloniale italiano dai diversi riduzionismi che ogni volta ne mistificano le ripetizioni, oscurando l’abisso coloniale da cui provengono, e per tentare di riconnettersi a una temporalità lunga, locale e globale. «Quello che ho passato in Sudafrica è qualcosa che sta accadendo qui in Italia», ci diceva Maslo, sottolineando come in questo Paese non poteva avere alcuna speranza se non quella di andarsene altrove, dove gli sarebbe stato forse più facilmente permesso di stabilirsi. Possibilità che, come sappiamo, non gli sarà concessa, ucciso barbaramente nel nome di un sistema economico costituitosi sulla sua negazione in quanto essere umano (il Nero è un Non-Uomo, riassume efficacemente nel titolo del suo libro T.J. Curry). Dopo l’assassinio di Masslo passerà solo un anno prima che la questione razziale riemergesse con forza. A Roma, all’inizio di via Casilina, vicino a Porta Maggiore, l’edificio dell’ex-pastificio Pantanella viene occupato da centinaia di migranti originari in larga parte del Pakistan e del Bangladesh. A porsi è la questione della segregazione abitativa e di una geografia metropolitana che non può più invisibilizzare questa parte di popolazione, relegandola nei confini di un immaginario altrove, fuori dai propri centri urbani. Se vogliamo è, nelle parole di Stuart Hall, il momento «dell’irruzione dei margini nel Centro», ma è anche l’inizio di una feroce campagna mediatica che, oltre a portare rapidamente allo sgombero, produce un ordine del discorso emergenziale i cui toni securitari e autoritari prepareranno il terreno mediante i quali tali sommovimenti sociali saranno governati negli anni a venire. Infine, a conclusione di questo triennio, che Mellino definisce giustamente «spartiacque della storia nazionale», è il 1991 quando l’innocenza (bianca) italiana sarà nuovamente sottoposta a dura tensione di fronte all’approdo della nave Vlora, trasportante circa 18mila cittadini albanesi colpiti dalla crisi economica-sociale del paese balcanico. Il loro diritto di fuga, per dirlo nei termini di Sandro Mezzadra, si scontrerà con la reclusione nello stadio di Bari, trasformato in un gigantesco campo-profughi e con una massiva politica di illegalizzazione, espulsioni e respingimenti. Eppure non è per forza necessario andare alla memoria più lontana per rendersi conto della nostra disposizione all’oblio.

Negli anni che ci riguardano da vicino le campagne del Sud Italia sono state teatro di lotte, omicidi e super-sfruttamento. Il 7 gennaio 2010 a Rosarno, terra di arance, un suv apre il fuoco su alcuni braccianti africani ferendone tre alle gambe; forse una spedizione punitiva per il mancato pagamento di una «tassa» da versare alla ‘ndrangheta. Un episodio simile si era già verificato nel 2008, seguito da una marcia pacifica. Si diffonde la falsa notizia di quattro morti. Scoppia la rivolta. Non è la prima, ma sicuramente la più grande e con i maggiori danni prodotti. Ci sono testimonianze di rosarnesi che incitano le forze dell’ordine a sparare contro gli «immigrati» e si organizzano in gruppi per aiutare nelle operazioni di repressione. Ritornano in mente le ultime parole di Kurt, il protagonista di Cuore di tenebra (1924) di Joseph Conrad, «sterminate quelle bestie». A seguito del riot di Rosarno in migliaia furono trasferiti in poche ore sui furgoni della polizia per essere salvati dalle squadre di mafiosi che giravano con fucili e taniche di benzina. In soli tre giorni sparirono tutti i lavoratori di pelle nera della Piana di Gioia Tauro. Nello stesso anno, tra settembre e ottobre, in Campania i migranti impiegati nel bracciantato e nell’edilizia organizzano una serie di proteste presso le «rotonde» delle strade del casertano con lo slogan «Oggi non lavoro per meno di 50€». Fu uno dei primi scioperi contro il caporalato ad aver avuto una certa risonanza mediatica e ad aver posto sotto i riflettori della cronaca le modalità di reclutamento della forza lavoro – l’attesa presso le rotonde di Castel Volturno o Cancello dalle prime luci del mattino, aspettando il caporale che sceglie arbitrariamente chi lavora e chi no – i livelli miseri di salario al cui rifiuto corrisponde la fame. E ancora lo sciopero di Nardò nell’estate del 2011; il blocco dei cancelli della Princes, multinazionale anglo-giapponese controllata dalla Mitsubishi, produttrice di conserve di pomodoro esportate nel Regno Unito, il 25 agosto 2016 nei pressi di Foggia; lo sgombero del cosiddetto Grand Ghetto sempre nelle campagne foggiane che il 10 ottobre 2017 portò all’occupazione della cattedrale cittadina.

Quello che proponiamo, quindi, è di non guardare a queste lotte come eventi estemporanei, ma di considerarle elementi dello spartito di rivolte antirazziste di cui abbiamo parlato in apertura, che persiste nel nostro presente come uno dei settori più conflittuali della società. E tuttavia ciò che conosciamo è solo una minima parte, pensiamo all’omicidio di Soumaila Sacko, ai più recenti scioperi bracciantili, agli incendi che divampano nelle tendopoli-ghetto, di un universo di disumanizzazione e conflitto a cui la sinistra radicale bianca si rivolge solo in modo occasionale. Ma non sono solo le campagne a essere il palcoscenico delle più sedimentate pulsazioni razziste del popolo italiano; anche le città, avamposto del cosmopolitismo, ci pongono di fronte a geografie razziali, fatte di segregazioni abitative e sociali, e a un multirazziale proletariato e sottoproletariato urbano che raramente è riconosciuto come interlocutore politico dalla sinistra radicale. È forse per questo che alcuni degli episodi recenti più drammatici come la morte per peritonite di Ibrahim Manneh, richiedente asilo a Napoli, a cui è stato negato più volte il soccorso, per strada e in ospedale, o l’uccisione di Idy Diene, ambulante a Firenze, sparato a freddo da un pensionato, ma potremmo citare anche la tentata strage di Luca Traini a Macerata o l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi a Fermo, non sono riusciti a generare tra le realtà organizzate della sinistra antagonista bianca niente più che un movimento estemporaneo di opinione.


Sopravvivere all’amnesia

La lunga e complessa genealogia delle lotte antirazziste in Italia spesso non impedisce di schiacciarne la traiettoria su quelle che sono (e sono state) le forme in cui l’attivismo bianco ha interpretato l’antirazzismo. La fatica con cui tuttora si riconoscono le comunità migranti, post-coloniali e in generale razzializzate come interlocutori e soggetti capaci di apportare un punto di vista autonomo ai conflitti sociali continua a confondersi con l’uso e l’abuso di termini come solidarietà e accoglienza. Laddove vi è stata una effettiva trasformazione del lessico politico, più che produrre una riflessione scomoda volta a mettere in crisi alcune delle consuetudinarie pratiche politiche e teoriche, è sembrata seguire il modello dell’integrazione, come se per costruire un antirazzismo radicale fosse sufficiente aggiungere e includere alle proprie parole d’ordine termini derivanti dalla Tradizione Radicale Nera. Tale tendenza, oltre a interrogarci sulle proprietà quasi magiche che vengono di volta in volta attribuite ad alcune formule, può del resto ricalcare, sotto mentite spoglie, quello stesso approccio vittimizzante e caritatevole che in teoria dovrebbe mettere in crisi. Cogliere l’opportunità (per richiamare il celebre slogan politico delle Pantere Nere) di una sempre più manifesta crisi dell’antirazzismo italiano per rilanciare le molte questioni irrisolte, non ha allora a che fare, dal nostro punto di vista, con una sorta di deandreiano «amore per gli ultimi», alla ricerca di una presunta innocenza del più oppresso. Una declinazione morale (e moralista) che non può che produrre un’incessante moltiplicazione delle identità, ognuna con il proprio curriculum di sofferenze da esibire e rivendicante una propria speciale vittimità da contrapporre alle altre (e il cui contrappunto non può che essere dunque l’empatico Altro).

Ambalavaner Sivanandan, noto attivista antirazzista britannico di origini srilankesi, scriveva nel 1981 «la lotta contro il razzismo è una lotta per la classe», sottolineando quanto questo non significasse la sussunzione di un termine nell’altro ma, al contrario «approfondire e allargare la lotta di classe attraverso la sua dimensione nera, anticoloniale e antimperialista». Per evitare automatiche trasposizioni e i rischi di una risolutiva formula magica, è necessario però domandarsi che cosa questo può significare oggi, qui in Italia. Cosa nasconde questo silenzio pandemico sulle condizioni materiali e sociali in cui sono costretti gran parte dei soggetti razzializzati che abitano ormai da decenni questo Paese? Al di là degli eventi scatenanti indignazione, come si articola il razzismo nel determinare la loro quotidianità? Che significa #restareacasa per questo strato di popolazione? Domande preliminari, tracce necessarie non a rinnovare uno sguardo umanitario ma a cercare percorsi lontani da ogni presunzione ideologica o fraternalismo, per costruire quell’incontro nella lotta che, se si darà, sarà esito e non presupposto. D’altronde, se è certamente vero che la ripresentazione rituale del «nuovo» soggetto non sia altro che l’ennesimo sintomo di un’amnesia bianca, è altrettanto importante sottolineare come si sia ormai sedimentato un cambiamento notevole nella sua composizione sociale, trasformazione che sarebbe utile analizzare attingendo all’archivio storico dell’antirazzismo globale. Le giovani generazioni di italian* ner* e, più in generale, di origine straniera, che stanno portando, spesso anche accompagnati da* loro coetane* bianch*, nuove forme di protagonismo urbano, esprimono stili, linguaggi e rivendicazioni che mal si confanno alla stringente cornice ideologica con cui spesso decifriamo tali fenomeni. Può essere forse utile ricordare a tal proposito le parole che Tony, protagonista del film Pressure (Ové, 1972), rivolgeva agli amici del fratello maggiore che gli rimproveravano di essere troppo «britannico», essendo nato in UK:


«Senti, amico, perché pensi che abbia una vita più facile? Perché sono nato qui? Per quanto mi riguarda sei tu che hai una vita più facile. Quando le cose si mettono male tu hai sempre un posto dove tornare. Puoi sognare di tornare alle palme, al sole e al mare. Io che cosa ho? Palazzoni. O no? Quindi devo restare qui e sopravvivere. Capisci, lottare per sopravvivere».


Se la violenza della pandemia ci riporta con brutalità alla lettera di una lotta per la sopravvivenza, diventa sempre più urgente rompere con la temporalità mediatica ed emergenziale che troppo spesso si insinua nel nostro stesso modo di guardare gli eventi. Ricostruire la memoria antirazzista e uscire dall’amnesia bianca per non continuare a mancare un incontro che, oggi più che mai, può costituirsi come l’unica reazione vitalealle pulsioni di morte del capitalismo globale.

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