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Mary Quant, una rivoluzionaria prima del Sessantotto




La morte di Mary Quant, avvenuta il 13 aprile all’età di 93 anni, ha suscitato assieme al cordoglio ricordi colorati e gioiosi degli anni Sessanta, della rivolta generazionale a partire dal proprio aspetto: i capelli lunghi, o alla nazzarena come si diceva, e la minigonna. Quest’ultima era stata «brevettata» da Mary Quant nel 1963, in anticipo diceva sul femminismo, perché non aveva il tempo «di aspettare la liberazione delle donne, e così ho fatto da sola», inconsapevole forse nell’immediato di aver creato uno dei simboli della rivoluzione dei costumi femminili, anticipanti una coscienza nuova. Un semplice taglio alla gonna che rivoluzionava il modo di vestire il corpo femminile, provocava scandalo tra i benpensanti e conquistava il mercato delle giovani consumatrici. A modo suo, per dirla con Caterina Caselli, fu una rivoluzionaria prima del ’68, un personaggio che colse lo spirito del tempo, con naturalezza e gioia, come lo colsero i Beatles, con loro caschetto da capelloni, assieme a quello di Mary Quant e a quello «d’oro» della Caselli, e quella minigonna che portava una ventata di libertà [1]. Minigonna ribaltatrice dei guardaroba che coniugò con altri suoi «pezzi» di costume: le calze colorate, i pantaloncini, gli abiti a sacchetto, i capelli corti con la frangia lunga. Una rivoluzione di costume che si esprimeva in sinergia con la musica e le sottoculture giovanili che in quegli anni animavano Londra, pronte a sbarcare nel continente europeo. (D.G.)


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La minigonna in Italia

La minigonna, prima che un indumento fu un segnale del processo di liberazione dai tabù sessuali con la richiesta di maggiore autonomia delle donne. La minigonna era il messaggio con cui le donne affermavano di potersi vestire come volevano, era un gesto non del tutto politico, ma certo di rivendicazione di libertà. Date le caratteristiche della società italiana dell’epoca, indossare la minigonna significava qualcosa di più dello scoprire le gambe, voleva dire «disobbedienza» [2] verso i propri genitori in primo luogo e poi nei confronti delle istituzioni sociali dominate dal perbenismo.

Quel segnale, quel gesto di disobbedienza era percepito come scandaloso dai giornali. Quando l’attrice Raquel Welch apparve in Piazza di Spagna a Roma con una minigonna «ridotta davvero all’essenziale», commentava la rivista «Gente» del 13 luglio 1966, subito intorno alla splendida attrice si scatenava un pandemonio di persone che accorrevano per vederla. Ciò che tutto sommato poteva essere concesso e accettato da un’attrice, non lo era per le ragazze comuni, costrette a frequentare locali beat alla moda con le minigonne nascoste nella borsetta per poi cambiarsi nel guardaroba.

L’opinione pubblica non accettava ancora il taglio della gonna di Mary Quant. Esibirla in pubblico poteva anche essere penalmente rischioso. A Torino, nell’aprile del 1967 una ragazza era stata denunciata alla magistratura perché passeggiava con una minigonna ardita [3]. Nell’Italia bigotta la minigonna era scandalosa, ma non era facile fermarla. La introducevano indossandola giovanissime cantanti e attrici come Françoise Hardy, Catherine Spaak, Stefania Sandrelli, Patty Pravo, Caterina Caselli. L’attenzione repressiva al modo di vestire delle giovani donne era assillante. Nel 1964 la cronaca registrava la condanna a diecimila lire di multa per offesa alla decenza, per due commercianti di Palermo, rei di aver esposto nel loro negozio di abbigliamento due manichini col topless. Nel luglio di quell’anno era comparso sulla spiaggia di Saint Tropez il topless, poco dopo quello esibito negli Stati Uniti sulle rive del lago Michigan nel mese di giugno. Nell’agosto una specie di pantaloncino topless, indossato con una maglietta leggera, comparve fugacemente a Roma. La persona che aveva osato indossarlo venne subito accompagnata in questura.

Come nel caso della minigonna, anche sul topless si aprì un dibattito, così commentato ironicamente dalla rivista «Quaderni Piacentini»: «a noi ce ne importa poco ma, dato che la tendenza è a scoprirsi, approviamo il topless come fase transitoria verso il nudo integrale. Purché però si faccia presto. La cosa che preoccupa maggiormente è che, accettando il principio della gradualità, c’è il rischio di assistere a uno strip-tease che può durare all’infinito. Senza contare che può sempre succedere qualcosa per cui il processo si blocca o magari retrocede. Che i nostri figli non si trovino ancora alle prese con simili problemi» [4].

In Italia, come in altri paesi, la minigonna rappresentava lo spirito nuovo di una generazione femminile, più allegra, sorridente, felice, per la quale la guerra e il secondo dopoguerra, con le sue tragedie e fatiche, erano consegnate ai ricordi di genitori e nonni. La minigonna, i vestiti colorati e leggeri esprimevano una coscienza nuova, diversa da quella impersonata dalla «sinistra uniforme di Simone de Beauvoir, vestita sempre come una contadina»; per le ragazze «il gonnellino è un emblema di liberazione radicale, di vacanza perpetua. Così conciate, a gambe nude, piatte di seno, senza fronzoli e parures, le adolescenti di oggi si comportano come se il loro sesso non fosse più un mistero o un capitale» [5] da conservare.

Il nuovo modo di vestire esprimeva il bisogno di differenziarsi dalle mamme e dalle nonne, separarsi nel pensare, nell’agire e nel vivere, dai modelli precostituiti della società. Cambiare l’aspetto esteriore, lasciar crescere i capelli, indossare stivaletti, jeans, minigonna, viaggiare collo zaino e il sacco a pelo, diventavano elementi di rottura individuale coi costumi, con le regole sociali e morali, un primo passo sulla via della rivoluzione giovanile contro una società di vecchi matusa. Si ribadiva col comportamento e gli abiti la propria diversità. Si prendevano le distanze dalle culture e dai costumi familiari, si rovesciava il rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero, valorizzando quest’ultimo a scapito del primo. Così, ad esempio, quando nella primavera del 1964, a causa di un calo della richiesta del mercato, la Fiat riduceva temporaneamente l’orario di lavoro di quattro ore, che significava ottomila lire in meno in busta paga, i giovani operai erano contenti, gli anziani no.

Tra le forze di sinistra e del movimento operaio si era parlato tanto di coscienza di classe, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del capitale sul proletariato, forse era il caso di cominciare a discutere di «coscienza dei sessi», ponendo il problema «della lotta per la liberazione della donna» [6]. Una lotta di liberazione che le giovani teen-agers indirizzavano immediatamente contro la famiglia per romperne l’involucro autoritario, noioso, grigio, incolore. Che sfortuna avere una casa e una famiglia, scrivevano Dada e Viky di Torino, due teen-agers che volevano essere beatniks, che erano stufe di vivere in una società così borghese, che avrebbero voluto scappare, «varcare la frontiera e arrivare nell’amatissima England». Lilith di Cinisello di 16 anni elencava i suoi quattro tormentoni familiari: «Sono stanca morta di sentirmi ripetere: 1) Io alla tua età già lavoravo, aiutavo la mamma e non pensavo alle canzoni e a ballare. 2) Hai già 16 anni tra poco ti devi sposare e pensi solo ai Beatles. 3) Ma non hai vergogna a portare quella frangia? Quattro anelli, le calze bianche, l’orologio da uomo alla destra? Sembri una zingara. 4) Se ti presenti in una ditta per farti assumere pettinata così (come Caterina Caselli) non ti prenderanno di certo». Gli sembrava di vivere nella preistoria commentava e chiudeva bruscamente: «Sino ad oggi ho sopportato, ma adesso dico: basta!» [7].


Dalla rivolta del costume per andare oltre

L’emancipazione femminile in quegli anni cominciava «dall’aspetto e nel comportamento», minigonna, stivaletti, trucco, un numero crescente di donne che guidavano l’automobile, una ricerca di maggiore libertà dalla famiglia. Il modello femminile che iniziava a farsi strada fra le giovani donne e le ragazze del decennio Sessanta era quello della donna autonoma, libera di disporre del proprio tempo e reddito, con un’attività extrafamiliare non meno coinvolgente di quella familiare, e un quotidiano ricco di possibilità e di risorse, anche economiche [8]. A questi mutamenti non corrispondevano cambiamenti sociali e politici in grado di garantire uguaglianza, diritti e considerazione alle donne, di conseguenza nuove tensioni, nuove contraddizioni e nuovi conflitti si innescarono con la formazione del movimento femminista in continuità ma anche con elementi di critica e superamento del recentissimo passato, tutti prodotti da quel vivaio di fermenti che percorreva il mondo femminile.

Il 7 settembre 1968 un gruppo di circa cento donne si diede appuntamento ad Atlantic City all’elezione di miss America protestando contro i grotteschi concetti di bellezza che soggiogavano le donne americane. Incoronarono una pecora, poi gettarono in una «Pattumiera della libertà» guaine, reggiseni, ciglia finte, bigodini, rossetti, toupet e altri prodotti di bellezza, mentre altre bruciavano pubblicamente i loro reggiseni. Inalberavano diversi cartelli contro il «degradante e irresponsabile sistema della donna oggetto»; poco dopo Nancy Bolhen, esponente femminista dichiarava: «la minigonna è il simbolo dello schiavismo sessuale a cui ci sottomettono gli uomini» [9]. Quel 7 settembre 1968 è stato considerato uno dei momenti caratterizzanti la nascita del femminismo statunitense che tanto scalpore suscitava sui giornali italiani, già preoccupati per la rivolta studentesca in corso e il brontolio dei giovani operai in attesa di esplodere. Non a caso il nuovo femminismo era descritto con simpatici e divertenti titoli quali: «Le tupamaros del sesso», «La guerriglia femminista». Il settimanale «ABC» in un servizio sul movimento femminista americano scriveva che esso lottava «per combattere la società del maschio, bianco e aggressivo, per porre fine all’oppressione dell’uomo, del sesso e dell’imperialismo del fallo» [10].



Note [1] Cfr. l’intervista a Caterina Caselli, «Corriere della Sera», 14 aprile 2023 [2] M. Boneschi, La grande illusione. I nostri anni sessanta, Mondadori, Milano 1988, p. 315 [3] Cfr. Undicesimo, non scoprire le ginocchia, «Big», n. 17, 26 aprile 1967. [4] Un’estate con il topless, in Quaderni Piacentini. Antologia 1962-1968, Milano, Gulliver edizioni, 1977, p. 145. [5] G. Marmori, La gonna invisibile, «L’Espresso», 7 agosto 1966. [6] L. Mazzetti, Chi dice donna, «Vie Nuove», n 5, 31 gennaio 1963 [7] Cfr. le lettere comparse sulla rivista «Big», n. 12, n. 21 e n. 23, del 1966. [8] Cfr., rispettivamente L. Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, p. 143 e C. Leccardi, Vita quotidiana e processi di mutamento, «Inchiesta», n. 140, aprile-giugno 2003. [9] Cfr. A. Buchwald, Non bruciate i reggiseni, «Noi Donne», 19 ottobre 1968 e R. Giachetti, Quella schiava di miss America, «L’Espresso», 11 gennaio 1970, da cui è tratta la citazione di Nancy Bolhen. [10] Abbasso l’imperialismo fallico, «ABC», 8 ottobre 1971.



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Diego Giachetti (1954) vive a Torino. Si è occupato di movimenti giovanili e di protesta attorno al ’68 e delle lotte operaie nel corso dell’autunno caldo. Molteplici le sue pubblicazioni, tra le quali La rivolta di corso Traiano (1997-2019); Un Sessantotto e tre conflitti (2008). Con DeriveApprodi ha pubblicato Nessuno ci può giudicare (2005) e Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (2021).

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