Presentiamo un articolo di Paolo Naso su Martin Luther King, un ritratto che problematizza e va oltre la figura di eroe pacificatore che è stata costruita e trasmessa. Il ritratto che viene fuori, passando in rassegna le discontinuità, le fratture, le svolte che hanno portato ad una radicalizzazione della sua strategia, è quello di un «altro» MLK, quello di un soggetto critico che prende posizione contro la guerra in Vietnam, che riconosce che la società americana è costituita strutturalmente sul razzismo. In poche parole: più l’uomo dell’incubo che del sogno americano.
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Martin Luther King è stato oggetto di una ingessatura tesa a trasformare la sua immagine e la sua storia – una delle espressioni più critiche dell’America degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso – in una sorta di American hero che con la sua lotta e il suo impegno ha riscattato il Paese dal peso di secoli di schiavismo e segregazione. Al di là delle molte pubblicazioni che scelgono di qualificarlo come «eroe», vi è un monumento che più di altri esprime questa tendenza: quello che gli è stato dedicato al mall di Washington, in prossimità del Lincoln memorial dove il 28 agosto del 1963 egli aveva pronunciato il suo discorso più famoso: I have a dream. Il monumento ritrae King intagliato nella pietra, quasi ingessato o cementificato. Soprattutto, quel monumento lo ritrae individualmente, come un leader solitario che con il suo spirito profetico guida il cammino di un popolo in catene verso la terra promessa. La storia del civil rights movement dice altro, come ha ben sintetizzato una delle sue prime (e più critiche) collaboratrici, Ella Baker, affermando che «non è stato King a inventare il movimento ma è stato il movimento a inventare King» [1]. In effetti la forza di King non è nella sua solitudine profetica ma nella condivisione di un cammino con migliaia di altre persone che tra il 1955 ed il 1968 hanno dato vita ad una delle più straordinarie esperienze di lotta politica e mobilitazione morale del XX secolo. «Individualizzare» King nell’immagine rassicurante del profeta dell’integrazione multietnica, significa alzare un muro attorno alla sua persona e alla sua storia, negando che essa abbia avuto un significato comunitario e che ieri come oggi la sua figura si riconnette a movimenti diversi che ancora oggi vivono nello spazio pubblico americano, ad iniziare da Black Lives Matter.
In questo articolo [2], pertanto, cercheremo di profilare un «altro» Martin Luther King, diverso e distinto dall’immagine convenzionale di eroe pacificatore di un’America inquieta e divisa scolpita da Ronald Reagan nel 1986, quando istituì – lui, il presidente repubblicano tra i meno sensibili al tema dei diritti civili, della giustizia sociale e della pace che caratterizzarono il ministero del reverendo nero – il Martin Luther King day, da celebrarsi ogni anno nel terzo lunedì del mese di gennaio, in prossimità del 15 gennaio, data di nascita, nel 1929, del reverendo nero. La ricostruzione del percorso di King deve assumerne anche la discontinuità, le fratture e le svolte che, complessivamente, produssero una radicalizzazione della sua strategia. In estrema sintesi, il King che gli ultimi – diciamo dal ’65 in poi – è assai più l’uomo dell’incubo che del sogno americano: l’escalation della guerra in Vietnam, il fallimento della «guerra alla povertà» promessa da Johnson, la fatica a perseguire una vera e profonda desegregazione lo indussero a un giudizio sulla società americana e la sua struttura di potere assai più severo e disincantato di quello espresso a Washington il 28 agosto del 1963.
A cinquant’anni esatti dall’assassinio di Martin Luther King, molte ombre agitano l’America multietnica e interculturale. La presidenza Obama, infatti, non è bastata a colmare il gap di reddito, opportunità sociali, livelli di istruzione e presenza pubblica tra bianchi ed afroamericani. Per molti aspetti, addirittura, la crescita sociale della comunità ispanica è stata più netta e rapida di quella dei neri.
Difficile, quindi, non fare i conti con questi dati. Ignorarli significa semplificare, addomesticare e banalizzare il senso stesso delle celebrazioni di un leader che, per molti aspetti, ha cambiato il cuore dell’America.
Troppo spesso, infatti, una personalità ricca e complessa come quella di Martin Luther King è stata appiattita in una icona semplificata della nonviolenza, dell’integrazione e della convivenza razziale in quella particolare fase della storia degli Stati Uniti che va dal 1955 al 1968.
In questo senso, proprio la sua capacità di mettere le sue capacità e la sua stessa persona a servizio di un movimento costituisce una delle migliori virtù di King, spesso trascurata o sottovalutata.
Al tempo stesso, anche la ricchezza della sua azione pastorale e politica merita un giudizio meno convenzionale e più articolato, pronto a riconoscere l’evoluzione dell’analisi della società americana, delle sue contraddizioni e del suo ruolo nel contesto internazionale. Attento anche a cogliere gli importanti cambiamenti che intervennero nella società americana proprio in quegli anni.
L’arco temporale degli avvenimenti è molto limitato, meno di quindici anni. Il 1954 fu l’anno della prima grande vittoria giudiziaria della maggiore associazione degli afroamericani, la National Association for the Advancement of the Colored People (NAACP). La Corte Suprema degli Usa promulgò infatti una sentenza che giudicava incostituzionale la segregazione razziale nel sistema scolastico pubblico. Quella vittoria, poco più che simbolica dal momento che il sistema scolastico continuò ad essere segregato per anni, ebbe il grande merito di denunciare un problema specifico e di individuare un obiettivo concreto sul quale potevano convergere anche ampi strati dell’opinione pubblica bianca moderata. La vittoria giudiziaria segna quindi idealmente l’inizio di un’aspra fase di lotta politica nella quale il movimento per i diritti civili dei venti milioni di afroamericani divenne la grande questione che scosse gli Stati Uniti dalla California al North Carolina, dall’Illinois al Texas. L’anno dopo fu quello in cui iniziò il boicottaggio degli autobus di Montgomery, un’epica storia di resistenza nonviolenta che proiettò il movimento e King al centro della scena politica nazionale.
Il 1968 fu invece l’anno della morte di Martin Luther King, portavoce di un movimento che esisteva ben prima del suo arrivo sulla scena politica nordamericana, ma che a quel movimento seppe dare una strategia spirituale, culturale e politica.
In mezzo, tra il ‘54 ed il ’68, la presidenza Eisenhower, i processi di decolonizzazione, la continuazione della Guerra fredda ma anche i primi effetti della distensione; e poi l’ascesa e l’omicidio di Kennedy, l’escalation in Vietnam. Tutti fatti che si susseguirono molto veloci e che fecero da «quadro storico» dell’azione del movimento per i diritti civili.
Furono anni intensi nei quali King seppe reinterpretare la sua azione e ridefinire i suoi obiettivi alla luce delle circostanze che cambiavano. Molto schematicamente, potremmo parlare di una prima fase tutta centrata sul tema sul tema della desegregazione della società americana (1956-1960); un’altra che puntava al diritto di voto da cui quasi venti milioni di afroamericani erano di fatto esclusi (1961–1965); una terza (1965-1966) orientata alla lotta contro la povertà ed una quarta (1967-1968) in cui tutti questi temi si intrecciavano a quello dell’escalation militare in Vietnam. Sono questi ultimi gli anni in cui King denunciò il nesso tra razzismo, consumismo e militarismo: un triangolo maligno che affliggeva l’America e che erodeva la sua moralità.
È in questo ultimo passaggio che potremmo datare intorno al 1967, che King perde buona parte dei consensi che solo tre anni prima, quando aveva ricevuto il premio Nobel per la pace, ne avevano fatto un personaggio da copertina, acclamato e riverito da un ampio fronte culturale, politico e religioso. Ma collegando la vicenda americana agli scenari globali, King finisce ruppe il classico schema ideologico e storiografico dell’eccezionalismo americano, ovvero della celebrazione del particolare destino divino di quel popolo, legato alla sua origine puritana, alla vocazione che Dio rivolse a coloro che fondarono quel paese e che, nel tempo, gli ha assicurato fruttuose benedizioni[3]. È in quegli anni che Martin Luther King diventa Martin «Loser» King, il perdente. La sua azione si fa più controversa e divisiva; il suo linguaggio diventa più critico nei confronti dell’America e del suo «destino manifesto»; il suo giudizio morale sul paese e sulla sua classe dirigente si fa più severo e tagliente. «La struttura del potere sta ancora cercando di mantenere il muro della segregazione e della diseguaglianza sostanzialmente intatto» [4]. È quello che, in altro lavoro, abbiamo definito l’«altro Martin Luther King» [5]. Come noto, King viene ucciso a Memphis il 4 aprile del 1968. Meno note sono le ragioni che lo avevano portato in Tennessee dove era stato invitato dal suo amico e collega Jim Lawson per dare risalto alla mobilitazione dei netturbini della città. È un dettaglio di non poco conto perché è difficile comprendere perché un leader impegnato come King avesse deciso di occuparsi di un caso minore, uno tra i mille analoghi. La ragione sta nel rapporto di fiducia con Lawson e, soprattutto, con l’idea di utilizzare la piccola, ignota lotta dei netturbini neri di Memphis per rafforzare il suo grande progetto di quel momento: una grande marcia a Washington, analoga a quella del ’63, centrata sul tema della povertà. Anche questa era una svolta: non la povertà dei neri ma la povertà di tutti quei milioni di americani, bianchi o neri che fossero, che vivevano nell’indigenza. La scena del crimine che uccise King illustra bene questa circostanza: un gruppo di leader, tutti pastori, allineati su un balcone mentre salutano amici, colleghi, netturbini accorsi per incontrare il reverendo King. Quei netturbini portavano un solo cartello: «I’m a man».
La nonviolenza
Anche l’ovvia affermazione per cui King scelse con determinazione e coerenza il metodo nonviolento di ispirazione gandhiana merita qualche riflessione e qualche chiosa. É certamente vero egli fu affascinato dalle tecniche nonviolente sin dagli anni del college dove ebbe insegnanti che lo introdussero a quei temi [6]. Tuttavia, il sua per vari anni il suo approccio restava idealistico, per così dire «di seconda mano». Per capire a fondo la dimensione nonviolenta dell’ala maggioritaria del civil rights movement dobbiamo fare riferimento a un personaggio chiave: il pastore afroamericano James Lawson che negli anni ’50 era finito come «giovane missionario» in India in seguito all’espulsione dal seminario metodista di Nashville (Tennessee) determinata dalla sua obiezione di coscienza all’arruolamento nella guerra di Corea. Lawson fu quindi il primo tra i futuri leader del civil rights movement a ripercorrere sentieri materiali e metaforici del cammino gandhiano nella satyagraha, cogliendole la sua forza e la sua attualità. Rientrato negli USA nel ’55, nel 1957 Lawson fu invitato a Oberlin College dal noto sociologo e teologo Harvey Cox il quale, conoscendone la storia e l’esperienza maturata, volle presentarlo a King in visita al campus per una conferenza sull’esperienza di Montgomery. Ne nacque un sodalizio per cui King mandò Lawson ad operare a Nashville, dove – come questi spiegò a un dirigente della Chiesa metodista da cui formalmente dipendeva – avrebbe esercitato il suo ministero predicando e insegnando che «la teologia e le tecniche della nonviolenza cristiana sono collegate ai problemi razziali, in particolare all'integrazione» [7].
Girando e viaggiando, Lawson divenne un vero formatore elaborando formule che poi ritroviamo nel linguaggio di King, ad esempio l’espressione per cui la via di Gesù non è quella dello scontro violento ma del ricorso alle «armi dello spirito». O l’affermazione che «più di ogni altro uomo, Gandhi in questo secolo ci ha mostrato cosa intendeva Gesù» [8].
Sulla base di queste premesse, Lawson fu un instancabile attivista, formatore ed organizzatore specializzato nell’azione diretta e quindi in gesti particolarmente eloquenti soprattutto agli occhi delle frange più radicali del movimento. Di fronte alle «prediche di King», i suoi apparivano gesti molto concreti promossi sia dalla Fellowship of Reconciliation (in Italia Movimento Internazionale per la Riconciliazione) – storica associazione nonviolenta e integrazionista – che dalla Southern Christian Leadership Conference. Fu proprio in ragione di questo suo appeal che nel 1960 fu mandato da King a partecipare alla Conferenza dello Student Nonviolent Coordinating Committee che si svolse a Raleigh in North Carolina nel 1960. A quel punto lo SNCC, a dispetto del suo nome, subiva l’attrazione del Black power e quindi sembrava pronto ad adottare una strategia assai diversa da quella di King e del mainstream del civil rights movement. L’intervento di Lawson, circondato da un’aura di autorevolezza per la sua storia e la sua esperienza, fu ascoltato con rispetto ma non invertì la tendenza. Resta però una delle elaborazioni più efficaci di una strategia nonviolenta che non si limiti a una mera opzione morale ma, «appellandosi alla coscienza e poggiando sulla morale dell'esistenza umana…alimenta un clima in cui la riconciliazione e la giustizia diventano possibilità reali».
Tra religione e politica
A piena ragione, molti discorsi di King sono considerati tra i più brillanti esempi di retorica politica americana,
Ma ciò che a noi preme sottolineare è la relazione tra la lingua da una parte e il suo background religioso dall’altra. Tra l’una e l’altro esiste una reciproca funzionalità per cui è impossibile separarli e non considerarli nella loro stretta relazione. Intendiamo così affermare che il linguaggio religioso di King per attuare un'agenda politica è probabilmente una chiave per capire – almeno in alcuni periodi del suo ministero – il grande consenso che ha ottenuto dai bianchi moderati. Molti di loro amavano l'icona di un uomo cristiano, educato, nonviolento che cammina portando la costituzione degli Stati Uniti in una mano e la Bibbia nell'altra. In un certo senso è stato un messaggio rassicurante. E infatti nella lingua di King possiamo trovare elementi classici della cultura politica americana quali riferimenti costanti alla Dichiarazione di indipendenza e alla Costituzione, la celebrazione dello spirito di indipendenza americano e, ovviamente, organiche citazioni bibliche con una netta prevalenza per l'Antico Testamento e il Libro dell'Esodo, naturalmente, che diventa una sorta di «paradigma» interpretativo della condizione degli afroamericani[9].
La prima citazione che proponiamo è quindi tratta da uno dei discorsi più originali di Martin Luther King, una lettera dell'apostolo Paolo ai cristiani americani:
«Cristiani americani ... Siete diventati la nazione più ricca del mondo e avete costruito il più grande sistema di produzione che la storia abbia mai conosciuto... Potete ascendere ai vertici dei risultati accademici, in modo da avere tutta la conoscenza... Ma tutto ciò non significa assolutamente nulla privo di amore» [10].
Il riferimento è ovviamente all'epistola di Paolo ai Corinzi (1:13) che, in un originale esercizio retorico viene parafrasata, per sferzare la coscienza degli americani riguardo al tema razziale.
Un altro esempio classico è nelle prime frasi del celebre discorso del 28 agosto del 1963 a Washington:
«Siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, sì, i neri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità. È ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai neri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti". Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia» [11].
Il tono è qui più laico e civile ma fa comunque riferimento ai principi fondamentali della società americana, alle sue tradizioni più profonde plasmate da una tradizione teologica che non considerava America una nazione come le altre ma un «sacro esperimento» benedetto da Dio e quindi tenuto a splendere «come una città sulla collina» [12]. Per quanto questa retorica abbia spesso avuto un’interpretazione di segno conservatore o reazionario – pensiamo all’uso che ne fece Ronald Reagan – dobbiamo però riconoscere che fu anche di King e costituì una dei pilastri della sua strategia di comunicazione e di azione politica: anche nei momenti di maggiore scontro con l’establishment segregazionista, egli intendeva affermare che la sua azione si radicava nella storia e nei valori più profondi dell’America. Chi negava i diritti dei neri, in altre parole, negava le radici stesse del «sogno americano» e del primato morale che doveva caratterizzare una società orientata dai valori cristiani.
Ci siamo soffermati sul linguaggio e sulla retorica del reverendo nero perché ci pare la chiave utile a capire perché il suo messaggio arrivò più in profondità di altri alla coscienza americana. Citando le radici puritane del suo Paese e attingendo dalla retorica biblica, egli si sintonizzava con la cultura popolare, con quella radice morale e spirituale che, al tempo della colonizzazione, aveva dato vita al «sacro esperimento americano». Il suo «patriottismo» dei valori religiosi fondanti della democrazia americana risultava assai più percepibile dal pensiero mainstream rispetto al linguaggio di scuola marxista di altri leader come Stokely Charmichael o al settarismo islamistico di Malcolm X. In sostanza, il suo messaggio suonò come una variabile, certamente radicale, della tradizione americana ma comunque interna ad essa e alla sua storia. Altri messaggi politici, invece, apparirono pregiudizialmente antiamericani e per questo trovarono ascolto esclusivamente in nicchie molto politicizzate e ristrette della società statunitense.
Detto questo, la storiografia più recente[13] ha superato lo schema manicheo della contrapposizione tra Martin e Malcolm X. Certo, le biografie dei due leader non potevano essere più diverse: cristiano il primo, musulmano il secondo; figlio della media borghesia acculturata Martin, «cat in the street», come egli stesso si definisce nella sua celebre biografia Malcolm; integrazionista e nonviolento il primo, separatista e disponibile a una lotta «by any means» il secondo. Le biografie, insomma, suggeriscono una facile polarizzazione, favorita da un processo culturale che ha teso a «beatificare» – ingessandolo – King, e a demonizzare Malcolm. La realtà e più complessa, e così come abbia cercato di delineare un profilo più radicale di King, meno coerente con l’immagine di profeta del «sogno americano» che gli è stata cucita addosso, possiamo rilevare un’analoga evoluzione del pensiero e della strategia di Malcolm. Punto di svolta è il 1963, l’anno del suo pellegrinaggio alla Mecca e quindi del suo avvicinamento all’islam ortodosso, eccezionalmente inclusivo, strutturalmente multietnico all’interno della umma, la comunità che comprende uomini e donne di ogni provenienza geografica: «... si abbracciavano e si abbracciavano» scrive nella sua autobiografia. «Erano di tutte le carnagioni, l'intera atmosfera era di calore e cordialità. Mi ha colpito la sensazione che non ci fosse davvero alcun problema di colore qui. L'effetto è stato come se fossi appena uscito da una prigione».
La frattura sul Vietnam
Il discorso più famoso che possiamo citare a sostegno di una radicalizzazione del pensiero e dell’azione di King fu senza dubbio «Il tempo di rompere il silenzio. Oltre il Vietnam», pronunciato sotto gli archi acuti della Riverside Church – il tempio religioso (e non solo) del liberalismo bianco – il 4 aprile del 1967. «Vi è una ovvia e quasi immediata relazione – affermò – tra la guerra in Vietnam e la lotta che io e altri abbiamo condotto in America. Alcuni anni fa quella lotta attraversò un momento splendido… Quindi venne l’impegno in Vietnam… ed io capii che l’America non avrebbe mai investito le energie e i fondi necessari per la riabilitazione dei suoi poveri finché avventure come quella in Vietnam avessero continuato a succhiare uomini, competenze e denaro come un diabolico, distruttivo tubo aspirante. Noi stavamo prendendo i nostri giovani rovinati dalla nostra società per mandarli a ottomila miglia di distanza a garantire delle libertà nel Sud est asiatico che essi non avevano mai trovato nel Sud Ovest della Georgia o ad East Harem… Nel 1957 – proseguì – quando un gruppo di noi costituì la SCLC [Southern Christian Leadership Conference], noi scegliemmo come motto “Salvare l’anima dell’America”… Se l’anima dell’America si avvelenasse mortalmente, l’autopsia rivelerebbe una delle cause: il Vietnam. Essa non si può salvare finché distrugge le speranze più profonde di uomini di tutto il mondo. É per questo che coloro tra noi che sono ancora convinti che l’America avrà un futuro, sono proprio coloro che gridano la protesta e il dissenso e lavorano per la salvezza della nostra terra» [14].
Del resto, King ne è proprio convinto e lo griderà sino al suo ultimo discorso a Memphis, pronunciato la sera prima di essere ucciso: «Masse di uomini si stanno sollevando, e ovunque si riuniscano oggi, sia a Johannesburg in Sudafrica che a Nairobi in Kenya, ad Accra in Ghana, o a New York, ad Atlanta in Georgia, a Jackson nel Mississippi o a Memphis nel Tennessee, essi gridano la stessa cosa: “Vogliamo essere liberi”» [15]. È una considerazione di tipo «internazionalista» che coglie il nesso tra la lotta degli afroamericani e quella dei popoli colonizzati, quasi a creare un circuito per la liberazione e la giustizia globale.
Quest’«altro King», più radicale e più attento ai processi di liberazione su scala internazionale, non è schizofrenico rispetto all’uomo delle marce non violente o del boicottaggio degli autobus segregati di Montgomery. Semplicemente la storia correva in fretta e, dopo le grandi battaglie per la desegregazione razziale e i diritti civili, la comunità afroamericana si misurava con nuovi problemi: la povertà, innanzitutto, e poi la guerra, quella guerra in particolare.
Di fronte alla guerra in Vietnam quel fronte costituito da «neri e bianchi insieme», da «conservatori e liberal» che avevano marciato insieme per i diritti civili degli afroamericani finì per spezzarsi irrimediabilmente. King ne fu ben consapevole e ne parlò esplicitamente nel corso di un sermone del 1968, l’ultimo che poté pronunciare dal pulpito di una chiesa. «Un giorno un giornalista è venuto da me e mi ha detto: “Dottor King, non pensa che ora debba smettere la sua opposizione alla guerra e mettersi più in linea con la politica del governo? Lei ha danneggiato il bilancio della sua organizzazione e la gente che un tempo la rispettava ha perso il suo rispetto per lei. «Io non sono un leader che cerca il consenso» continuò King nella sua predicazione. «Io non decido che cosa è giusto e che cosa è sbagliato guardando al bilancio della SCLC….Viene il momento in cui uno deve prendere una posizione che non è né sicura né politica né popolare, ma deve farlo perché la coscienza gli dice che è giusto» [16].
Forse è proprio da qui, dall’isolamento politico seguito all’opposizione alla guerra in Vietnam, che bisogna partire per dare una spiegazione – per quello che è possibile – alla morte di King. Ma le carte processuali che hanno condannato James Earl Ray per quell’omicidio, giudicandolo un semplice «lupo solitario» del razzismo, non possono raccontare questa parte della storia.
Note [1] Adam Fairclough, To Redeem the Soul of America: The Southern Christian Leadership Conference and Martin Luther King, The University of Georgia Press, 1987, p. 5. Sul personaggio Baker, anche Barbara Ransby, Ella Baker and the Black Freedom Movement: A Radical Democratic Vision, The North Carolina University Press, 2003. [2] Per un’analisi più articolata e approfondita del caso King, rimandiamo al mostro Martin Luther King. Una storia americana, Laterza 2021. [3] Per un’analisi critica del concetto di eccezionalismo americano, legato al “manifest destiny” determinato dalla sua particolare elezione morale e spirituale, rimandiamo a Paolo Naso, God Bless America. Le religioni degli americani, Editori Riuniti, 2002 e a Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’impero del bene, Feltrinelli, Milano 2004 [4] Cit. in Paolo Naso, Martin Luther King…, cit. p. 194, [5] Paolo Naso, L’altro Martin Luther King, Claudiana 1993 [6] Cit. in Clayborne Carson, In Struggle: SNCC and the Black Awakening of the 1960s, Cambridge, MA: Harvard UP, 1981, pp. 23-24 [7] Dennis C. Dickerson, James M. Lawson, Jr.: Methodism, Nonviolence and The Civil Rights Movement, Methodist History, 52:3 (April 2014), p. 180 [8] Ivi, p. 181 [9] Michel Walzer, Esodo e rivoluzione, Feltrinelli 2018; Sacvan Bercovitch, The Puritan Origins of the American Self, Yale University Press, 1975 [10] Martin Luther King, sermone presso la Dexter Avenue Baptist Church, Montgomery, Alabama, 4 novembre 1956, in Paolo Naso, L’altro Martin Luther King, Claudiana 1993 [11] Ibidem [12] Paolo Naso, Come una città sulla collina. La tradizione puritana e il movimento per i diritti civili, Claudiana 2008 [13] Testo seminale di fondamentale importanza per questo nuovo corso, è James Cone, Martin & Malcolm & America. A Dream or a Nightmare, Orbis book, 2012. [14] Martin Luther King, A Time to Break Silence, in A Testament of Hope, p. 233, in italiano, in Io ho un sogno. Scritti e discorsi che hanno cambiato il mondo, Sei, 1993, p. 130 [15] Martin Luther King, Vedo davanti a me la terra promessa, in Io ho un sogno. Ivi, p. 188 [16] Martin Luther King, Rimanere svegli durante una grande rivoluzione, in P. Naso, L’altro…, op. cit. p. 189
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Paolo Naso, attento studioso dei fenomeni religiosi nordamericani, è docente di Scienze politiche alla Sapienza Università di Roma e insegna al Master in Teologia interculturale della Facoltà valdese di Teologia. Dirige, per la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Mediterranean Home – Programma rifugiati e migranti. È autore del libro Martin Luther King: Una storia americana per Laterza.
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