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Mario 90: condurre la Storia al tribunale della vita



Il pensiero politico di Mario Tronti si forma e si sviluppa dentro e contro il Novecento, percorrendolo interamente, tentando continuamente di sovvertirlo. Il suo sguardo radicalmente di parte e la forza tellurica delle sue ipotesi, tuttavia, si protendono oltre il secolo passato, interrogando i mutamenti dell’ultimo ventennio. O meglio, conducendo continuamente la Storia davanti al nietzschiano «tribunale della vita», senza mai farsi catturare dal presente o abbagliare dalle sirene del nuovismo. Per i suoi novant’anni, compiuti lo scorso 21 luglio, Franco Milanesi traccia uno schizzo di ritratto, che permette di respirare la tensione rivoluzionaria di un grande spirito libero.


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Il percorso politico di Mario Tronti si apre dentro il Novecento, il secolo che ha visto la politica – anzi «il politico», modo dell’agire collettivo che opera sia come fattore di governo dell’accadere sia come agente di cambiamento – prendere il centro della scena, condizionando profondamente tutte le forme dell’umano. Quel tempo Tronti lo percorre interamente, muovendo dalla grande lezione del realismo politico, con un «pensare estremo e un agire accorto» che frantumi ogni cristallizzazione del presente.

Ma lo sguardo trontiano, la sua intelligenza delle cose, si protende oltre quella lunga fase e stabilisce un corpo a corpo con i mutamenti che in questo ultimo ventennio hanno investito tanto il lavoro quanto la sfera istituzionale, le nuove strutture egemoniche e le possibilità di resistenza. Se pare esercizio abbastanza futile soffermarsi sulla continuità o le cesure di questa pluridecennale (Mario Tronti ha compiuto 90 anni lo scorso 21 luglio) opera di ricognizione radicale dell’ontologia politica, è difficile sfuggire alla sensazione di un succedersi di veri e propri paradigmi teorici che si sono imposti nel confronto politico in ragione della loro efficacia nel decifrare il presente e nel lanciare al suo interno ipotesi forti di sovvertimento. L’operaismo e l’autonomia del politico, la lettura critica della democrazia di massa e la teologia politica: non sono astrazioni indeterminate, ma passaggi di teoresi che sgorgano dalla profondità dell’analisi e che hanno immediatamente assunto – anche grazie a una scrittura icastica, erede della grande tradizione mitteleuropea – centralità nel dibattito politico.

Per settant’anni, ininterrottamente, Tronti ha osservato il presente, percorrendone le tensioni, le ambivalenze e i punti di condensazione. Soprattutto la dorsale delle sue contraddizioni, alla ricerca di incrinature, punti di fragilità, vie di fuga. Questo ha richiesto, innanzitutto, la riattivazione di quel nietzschiano «tribunale della vita» di fronte cui condurre la storia, non per giudicarla moralmente ma per esaltarne la carica sovversiva e segnalare tutte le potenzialità di liberazione che essa consegna all’oggi. «Si capisce più scavando nel passato che scrutando nel futuro» scrive ne La politica al tramonto del 1998, invitando a guardare al presente «con le spalle al futuro», come aveva titolato un testo pochi anni prima. Le incursioni nella storia sono condotte in una prospettiva accentuatamente politica, cioè secondo quel «pensare per l’agire» che ne sostanzia la riflessione. Scansando ogni congelamento accademico, senza concedere alcunché alla facile attualizzazione, Tronti fa scorrere di fronte scenari di grande suggestione teorica. L’esercito di Cromwell come il modello del partito, fusione a caldo di organizzazione e ideologia; lo «sguardo di parte» operaio che interseca le teorie schmittiane sulla partigianeria di pensiero e azione; il New Deal, un’opportunità per la classe operaia che in una quadro ipercapitalistico lacerato dalla crisi seppe utilizzare lo Stato per «un progetto pratico, alternativo, di uso delle istituzioni politiche separato dall’uso che il capitale normalmente fa della sua società»; Togliatti a Salerno, nel ’44, come preambolo ed esempio per l’intera storia del comunismo nazionale, mescola di responsabilità dirigente e strategia di classe.

Le presunte svolte trontiane vanno dunque interpretate come riposizionamento del pensiero rispetto a una realtà sospinta dall’imprevedibile esito dell’«ambizione prometeica» delle forze sociali e politiche. Anche la celebre cesura operata dall’«autonomia del politico», uno dei più discussi elaborati teorici di Tronti, va letta in questa chiave: il mancato assalto operaio al cielo, alla fine degli anni Sessanta, lo tingeva del rosso del tramonto, non certo di quello dell’aurora, come si illuse la generazione del ’68 studentesco. Come la Nep aveva significato un riorientamento del progetto leniniano sotto la pressione di una contingenza afferrata dal pensiero – e così posizionata sotto una innovativa idea di governo – così l’avvicinamento all’organizzazione partitica di massa significava un cambio di passo di fronte alla controffensiva padronale per disporsi su un nuovo terreno di resistenza e offensiva. Dentro e contro, come ha insegnato la classe operaia, parte necessaria del dispositivo di valorizzazione e negatrice di se stessa nella proiezione strategica verso un «oltre» dell’ordo capitalistico.

Questa alterità Tronti non ha mai smesso di pensarla e volerla. Oggi, nella realtà satura del finanz-capitalismo globalizzato, le possibili incursioni contro la sua corazza egemonica muovono per lui da precise istanze di verticalizzazione. Il comunismo le ha sempre contenute ed espresse, relegandole poi in sottotraccia, occupato, nel Novecento, dall’urgenza del fare. Trascendenza, bisogno di assoluto ed escatologia sono infatti inscritte nella storia dei subalterni come una potenza di rovesciamento del qui-e-ora, come un’utopia concreta contro il presente. A questo punto, è evidente, la stessa cornice del politico si dilata, aprendosi all’interrogativo antropologico. Perché l’homo sovieticus non ha attecchito, mentre la Figur borghese si è storicamente imposta? Quali forze hanno poi portato a un superamento della stessa forma borghese – che nel passato ha certo saputo esprimere momenti di grandezza, spesso venata di tragico – verso l’homo oeconomicus risucchiato nella misera coazione a ripetere del consumo? E, soprattutto, com’è accaduto che anche la democrazia, che nella declinazione sovietica e operaia ha rappresentato la «grande paura» per le forze moderate del mondo intero costringendole ad aprire una stagione eccezionale di concessioni alla parte avversa, sia divenuta, dopo la sconfitta, un «fattore di identificazione collettiva dentro una società data, che fa leva sull’espulsione di ogni antagonismo e contrapposizione sociale». Eccoci dentro la nuova materialità democratica, dove gli individui sono ridotti alla figurina del borghese-massa, che schiaccia l’homo democraticus nella forma iperindividualizzata dell’homo oeconomicus, assorbito nella mercificazione dei mondi vitali.

La tensione interrogativa che percorre le pagine e gli scritti di Tronti, oggi, è la stessa dei primi scritti sui «Quaderni rossi»: come attivare controsoggettivazione, come modificare i rapporti di forza, su quale treno salire – come fece Lenin – per penetrare nel confine di un «sempre uguale» e tentare di rovesciarlo. Mario ha rivendicato con forza la tonalità rivoluzionaria del suo ultimo lavoro, Dello spirito libero. È necessario e urgente creare un baluardo interiore contro l’omologazione liberaldemocratica. Una sorta di fortificazione difensiva da cui muovere attacchi critici contro un blocco egemonico compatto in cui i pochissimi dell’élite globale hanno saputo saldare in un granitico «senso comune intellettuale di massa», il ceto medio riflessivo e anche una parte consistente del popolo che scolora la propria specificità di classe nel profilo di una soggettività «generica, manovrata attraverso la cattura del consenso». Pertanto, se lo spirito libero trattiene, frena – come nel katéchon paolino – l’avvento del tecno-capitalismo, questa stessa élite dello spirito, con tutto il peso della sua capacità politica, deve ora assumersi il compito di ricreare popolo. «Il popolo non è una cosa che viene da sola, il popolo è una costruzione». Certo non sarà più soltanto il popolo-nazione della modernità. La sfida al capitalismo è europea, anzi mondiale. È necessario un antagonismo a quell’altezza che sappia attivare le nuove generazioni e creare un’adeguata cornice istituzionale. Sarà dunque utile osservare le nuove condensazioni di un’autonomia del politico non priva di contraddizioni ma anche di grandezza e imprevedibilità. La Cina, in tal senso, diventa un soggetto da comprendere a fondo, non per «importarne» il modello ma per arricchire una pratica di alternativa che deve tenere assieme, come sempre, il conflitto e l’immaginazione di sistemi d’ordine non omologati a quelli irradiati dall’americanizzazione del mondo. La ricerca continua, grazie e auguri, compagno Mario.

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