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Franco Ferrarotti e la ripresa della sociologia in Italia


Franco Ferrarotti
Ivan Bedeschi, Praga 2000, collage su carta e fotoritocco, 2024

Il 13 novembre 2024 si è spento Franco Ferrarotti, maestro della ricerca sociale. Lo ricorda Diego Giachetti in quest'articolo che ricostruisce il percorso del sociologo: dalla traduzione di Veblen e alla laurea con Abbagnano all'incontro con Adriano Olivetti; dall'analisi delle classi sociali andando oltre le strettoie del pensiero imposte dal Partito comunista alla ripresa della sociologia americana.

Ricordiamo che Franco Ferrarotti ha in passato recensito Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills dello stesso Diego Giachetti.


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Il sociologo Franco Ferrarotti, morto all'età di 98 anni a Roma il 13 novembre 2024, è stato ricordato come il padre della sociologia italiana. Indubbiamente è stato un maestro della ricerca sociale, ha rappresentato una figura scientifica di profilo internazionale e ha contribuito in maniera decisiva all'insediamento della sociologia nelle istituzioni scientifiche italiane. La voce ferma e sicura, la velocità delle riflessioni, la coniugazione degli eventi, i lampi di ironia davano incisività alle sue considerazioni sulla realtà contemporanea e sulla sua vicenda di uomo e di intellettuale. Brillante, vulcanico, era impossibile sfuggire al fascino del suo discorrere. Un’ottantina i libri pubblicati, più un numero imprecisato di articoli e saggi a segnare una vita di ricerca e di riflessione[1].

Amava ricordare di essere nato da una famiglia contadina, il 7 aprile 1926, prematuro, malaticcio, in un cascinale detto La Fornace, trascinato poi via dal Po una notte di tempesta e di alluvione, in una località del comune di Palazzolo Vercellese in provincia di Vercelli. Dopo le scuole elementari proseguì gli studi da privatista: licenza ginnasiale nel 1940, maturità classica nel 1942. Si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università di Torino nel 1944. Trasferitosi per ragioni di salute in Liguria, nella biblioteca civica di Sanremo, scoprì i testi dei più noti sociologi italiani del periodo prefascista: Enrico Ferri, Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Fausto Squillace, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto. Partecipò alle attività partigiane. Vaccinato dallo stalinismo grazie ai suoi rapporti con elementi della Sinistra comunista, quella che faceva riferimento ad Amadeo Bordiga, e con alcuni trotskisti, come lui stesso ha raccontato: «nel 1945 sfioravo i diciannove anni ed ero trotskista. Mi consideravo un membro della Quarta Internazionale»[2].

 

Con Veblen grazie a Pavese

Nella sua vita, riassumeva Ferrarotti, ha esercitato o variamente goduto di cinque carriere: traduttore, consulente di Adriano Olivetti, diplomatico internazionale per l’Organizzazione europea per la cooperazione economica, istituita nel 1948 per coordinare il Piano Marshall, deputato al Parlamento, professore universitario all’Università di Roma. Traduttore dal francese, dall’inglese e dal tedesco, lingue che aveva imparato da solo, per procurarsi i primari mezzi di sussistenza, accettò la proposta fattagli da Cesare Pavese di tradurre il libro del sociologo americano Thorstein Veblen, The Theory of the Leisure Class per l’editore Giulio Einaudi, pubblicato nel 1949 col titolo La teoria della classe agiata. Accettò, ricordava, senza essersi reso conto dell’importanza del testo. Aveva semplicemente bisogno di mangiare.

Abituato a lavorare da autodidatta preparò, senza l’assistenza di alcun docente, la sua tesi di laurea sul pensiero del sociologo americano di cui aveva tradotto il libro. Non aveva però messo in conto l’ostilità che regnava nel mondo accademico e non solo verso la sociologia. Difatti la sua tesi fu rifiutata dal prof. Augusto Guzzo, convinto che la sociologia non fosse una scienza rispettabile, ma una pseudoscienza abusiva. L’accettò invece il prof. Nicola Abbagnano col quale si laureò a pieni voti e con dignità di pubblicazione. Abbagnano gli consigliò di continuare gli studi filosofici, ma lui rispose di voler occuparsi di sociologia. Al che il relatore lo avvertì che non c’era spazio per quella disciplina: «proprio per questo la desidero», replicò il neolaureato.

La pubblicazione del libro di Veblen suscitò la stroncatura critica di Benedetto Croce in un articolo sul Corriere della Sera del 15 gennaio 1949 a cui Ferrarotti replicò. Osservazione critiche vennero anche da parte marxista, prime avvisaglie dell’ostilità verso la sociologia di una parte della sinistra. Diverso invece l’atteggiamento che si evidenziò tra forze laiche in ambito accademico e fuori. Era il caso di Torino dove il filosofo Nicola Abbagnano rompeva il fronte dell’avversione alla «pseudoscienza» sociale, fondando insieme a Ferrarotti la rivista Quaderni di Sociologia nel 1951, idea suggeritagli dalla lettura dei Cahiers de Sociologie diretti da Emile Durkheim, durante il suo soggiorno a Nizza nella biblioteca comunale.

Nicola Abbagnano, affermato filosofo dell’esistenzialismo positivo, cresciuto non a caso fuori dall’influenza crociana e gentiliana, era disposto a riconoscere la sociologia come scienza purché si abbandonasse il vecchio positivismo, oggettivistico, deterministico, a favore di una scienza sociale fondata sulla possibilità, non rigidamente necessitante, quindi indeterministica e condizionale, come ricorderà anni dopo Ferrarotti: «l’uomo non è né sovranamente libero né causalmente determinato. L’uomo è condizionato. Da che cosa? Dalla situazione in cui gli capita di venire al mondo. Chi studia la situazione oggettiva? La sociologia. Per mezzo di essa, l’uomo coglie la possibilità, compie le sue scelte, costruisce il suo progetto di vita. E così non rischia di giungere a morte prima di aver vissuto»[3].

L’intento dei Quaderni di Sociologia era di superare un duplice impasse che bloccava la ricerca sociale. Da un lato le costruzioni sistematiche e onnicomprensive, ma povere di dati empirici, dall’altra la tendenza alle indagini empiriche non orientate da impostazioni teoriche coerenti. L’uscita della rivista fu «salutata» da un articolo di Carlo Antoni su Il Mondo del novembre 1951 che ribadiva la non legittimità della sociologia ad essere considerata una scienza sociale, accusandola di ridurre gli individui a «manichini», ad automi privi di soggettività.

 

Un sociologo al lavoro

L’incontro con l’imprenditore Adriano Olivetti segnò una tappa importante, indelebile per la sua formazione. Lavorò, viaggiò, discusse con lui per dodici anni, dal 1948 al 1960, anno della sua morte. Elaborò per suo conto il progetto politico e sociale di Comunità. Fu deputato indipendente nel Parlamento durante la terza legislatura in rappresentanza del Movimento di Comunità fondato da Olivetti, di cui prese il posto dopo le sue dimissioni dalla Camera.

Tra le tante esperienze compiute, ricordava di aver lavorato in officina per un breve periodo, imparando a usare il tornio, quello polivalente detto anche universale per la sua capacità di realizzare qualsiasi disegno. Poi con la produzione in serie e di massa, il tornio si specializzò in singole lavorazioni controllate dalla macchina stessa e dequalificò il tornitore.

Le trasformazioni tecnologiche e organizzative introdotte nel ciclo produttivo delle grandi aziende stavano modificando la tradizionale struttura della classe lavoratrice, vanificando la strategia sindacale della difesa delle qualifiche e della professionalità. Di questa trasformazione del lavoro di fabbrica si occupavano le ricerche sociologiche americane human relations e le opere di George Friedman, pubblicate in Italia a partire dal 1949. Ciononostante, non venne meno il sospetto e la denuncia della strumentalità delle conoscenze ricavate dalle ricerche della sociologia americana. Comunisti e dirigenti sindacali si diedero il compito di smascherare le human relations. Bersagli del contrattacco erano quelle aziende che si dimostravano sensibili all’ «americanismo», tra queste la Olivetti di Ivrea e il sociologo Ferrarotti, definito interprete autorizzato delle teorie olivettiane: «Olivetti è Allah e Ferrarotti il suo profeta»[4]. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta egli condusse una serie di ricerche sul sindacalismo, sui movimenti sociali, la trasformazione del lavoro, le comunità locali e la sociologia urbana e rurale.

Oltre alle dinamiche di fabbrica, il giovane sociologo criticava le ricerche di chi scopriva l’elemento primitivo e selvaggio, dimensioni care diceva agli antropologi strutturali d’oltralpe e alla narrativa italiana. Sosteneva che le ricerche condotte sul mondo contadino manifestavano spesso una propensione letteraria che tendeva a rimarcare la sopravvivenza folkloristica di costumi, atteggiamenti, relazioni tra la magia e la vita quotidiana, da riscoprire e salvaguardare in quanto espressione autentica di una mitica natura popolare. Questo sguardo, non privo di tratti estetizzanti, si riversava sul modo di osservare e descrivere il mondo contadino come fossero uomini primitivi, abitanti di una civiltà passata a cui guardare con sentimento di romantico rimpianto, perché autentica, contrapposta a quella urbana artificiale e edulcorata. Si trattava di «valutazioni puramente personali, non convalidate da dati obiettivi pertinenti, e nel tono impressionistico del resoconto da giornale»[5].

 

Marx Weber

Ferrarotti coltivava l’ambizione di «riuscire a collegare la tradizione sistemica della sociologia europea [da Marx a Weber a Pareto] con i metodi della ricerca quantitativa e le tecniche specifiche di indagine della sociologia nordamericana»[6]. Prendeva spunto dalle ricerche sulle human relations per evidenziare le carenze dell’agire dei sindacati ad esse ostili, le cui posizioni gli apparivano pregiudiziali e dogmatiche, superate dallo sviluppo del modo di produzione capitalistico, empiricamente analizzabile e anche misurabile. Quell’avversione derivava dal più generale atteggiamento della sinistra comunista verso la sociologia e evidenziava la comune matrice culturale che legava crociani e marxisti.

Uno dei temi principali della ricerca sociale riguardava le classi sociali. Occorreva riconsiderare e ampliare il quadro di riferimento tradizionale ricavato da Marx. D’altronde Marx era rimasto nel vago sia a proposito dell’analisi dei fattori influenti sulla coscienza di classe e sia sulla struttura delle classi sociali nel capitalismo: il Capitale, infatti, si interrompeva proprio là dove annunciava una specifica e circostanziata trattazione su di essa. Ricostruire il concetto di classe, scriveva, era un tema interessante quanto difficile perché nelle sue opere comparivano definizioni «strette» di borghesia e di proletariato, tali da far pensare a un bipolarismo rigido, mentre nelle opere storiche, si disegnava una variegatura di classi così ampia e sfaccettata che quasi non permetteva più di capire quali fossero le discriminanti precise tra classe e classe. Anche qui Weber veniva in soccorso: con la distinzione tra classe, status e potere voleva concorrere a definire la collocazione sociale degli individui riferendosi a una varietà di gruppi sociali possibili, vere e proprie stratificazioni di potere all’interno di una classe sociale. Marx andava ripreso, ma l’analisi della realtà non poteva essere sostituita dalla ricerca filologica sui testi. Non era sufficiente il proposito di rileggere Marx meglio degli altri marxisti, per dimostrare di essere fedeli in modo feticistico ai testi, occorreva verificare con la ricerca sociale le sue ipotesi, consapevoli che molte di esse non potevano essere «adoperate in senso operativo», perché non erano «facilmente collegabili con indicatori empirici significativi»[7]. Weber, coi suoi tipi ideali, andava coniugato con le astrazioni determinate affinate da Marx. Solo attraverso quell’incrocio si poteva mediare teoria ed empiria, senza scambiare il concetto per la realtà e la realtà per il concetto.

 

Il professore professa

Nel 1961 vinse il concorso per la prima cattedra di sociologia presso l’Università di Roma. In seguito insegnò nelle università di Chicago, Boston, New York, Toronto, Mosca, Varsavia, Colonia, Tokyo e Gerusalemme. Scelse di fare il professore che non sale in cattedra, non scimmiotta l’improbabile «pubblico ministero» della cultura, che non insegna, «ma professa le sue idee, se ne ha; il desiderio di averne; il gusto a muoversi verso il non ancora conosciuto»[8], perché considera la sociologia una scienza particolare. Non la si può insegnare ex-cathedra, come tutte le altre scienze umanistiche, bisogna fare lavoro di ricerca sul terreno. La sociologia è una scienza d’osservazione, concettualmente orientata, che ha l’ambizione di formare i suoi concetti non per via essenzialistica, puramente deduttiva, bensì dal basso per superare il dualismo tra il sapere acquisito inteso come verità assoluta e l’opinione soggettiva. Una virtù di cui si autocompiaceva era la curiosità, quella forza attrattiva verso il non ancora conosciuto, l’inedito, che ha alimentato una lunga e incessante attività, mossa dall’insaziabile varietà degli interessi e degli argomenti ricercati - dalla musica alla politica, dalla teoria sociale alla comunicazione. La sua è stata una carriera trasversale, insofferente alle regole troppo formali e codificate, che non vuol dire assenza di rigore metodologico.

 

Dalla sociologia critica a quella alternativa

Nel 1967 lasciava la rivista Quaderni di Sociologia per dare vita a La Critica Sociologica coll’intenzione di unire l’impianto teorico alla ricerca empirica; esprimere il massino di impegno sociale, senza venir meno al massimo rigore scientifico, in particolare senza accettare dal mercato (e dai committenti) i propri temi di ricerca, ma legandosi, al contrario, senza subordinarsi, alle questioni emergenti e a quelle tradizionali della realtà sociale e politica italiana. Il sociologo doveva coniugare la conoscenza e la riflessione sistematica sulla società con l’azione politica volta a trasformarla. Le lotte studentesche e operaie, la formazione dei consigli di fabbrica, configuravano una situazione del tutto nuova.

Occorreva ripartire «dall’esperienza quotidiana dell’operaio», dall’«autogestione operaia della ricerca, per giungere all’interpretazione complessiva della situazione nella fabbrica e nella società. La soggettività operaia diventa il centro scientifico dell’analisi della fabbrica [e ripropone] la scoperta fondamentale del marxismo, ossia la essenziale politicità della scienza»[9].  Le avanguardie operaie, organizzate dentro la fabbrica, non si limitavano a contestare la scienza borghese, applicata al processo produttivo, tentavano di costituirne una propria. Erano gli operai stessi che si riappropriavano del sapere, indagando sulla loro condizione lavorativa, svelando la non neutralità dei rapporti di lavoro, della scienza e della tecnica. In questo modo riscoprivano la propria soggettività, il carattere sociale e non oggettivo e immutabile della propria condizione.

Era necessaria una sociologia critica, per studiare «dal punto di vista della classe in ascesa la struttura della società allo scopo della sua trasformazione razionale»[10]. Sullo sfondo di quelle prospettive stava il bisogno di trovare un’interlocuzione tra l’impostazione prevalentemente empirica di una parte della sociologia statunitense, e quella teorica sistemica che si era sviluppata in Europa, Marx compreso - e ripresa ad esempio da Talcott Parsons e altri sociologi negli Stati Uniti - per costruire una sociologia ben orientata concettualmente. Una pratica sociologica corretta doveva evitare quell’eccesso di astrattismo, che allontanava la riflessione dalla concretezza del sociale, senza cadere nell’empirismo, cioè nel considerare i fatti sociali come eventi singoli e specifici, perdendo di vista l’insieme del sistema.

Le polemiche e le critiche suscitate dalla pubblicazione nel 1972 del suo libro, Una sociologia alternativa, offrivano all’autore l’occasione per precisare che per sociologia alternativa intendeva il superamento di quella empirica nordamericana, della teoria critica dei francofortesi e del marxismo dogmatico. La sociologia alternativa era una critica al formalismo metodologico e alla scuola di Francoforte, rispetto alla quale, confessava, di aver sempre «preso le distanze», perché la loro influenza in Italia era dovuta «ai residui notevoli di idealismo che pesavano sul loro impianto filosofico»[11].

La sociologia rimaneva uno strumento indispensabile anche se andava ridefinita criticamente per costruirne una alternativa. Quest’ultima poteva nascere dall’incontro della sociologia critica col marxismo per collocarsi «al di là di Marx e di Weber», recuperando dal primo il concetto di correlazione dialettica tra i fenomeni sociali e dall’altro l’analisi del processo di razionalizzazione. Di Marx e soprattutto dei «filistei del marxismo» andava criticata «l’indulgenza verso ipotesi storico-evolutive così ampie da riuscire inverificabili e da proporsi quindi come una nuova ideologia o falsa coscienza.  [Di Weber si criticavano] gli effetti paralizzanti di una impostazione della ricerca sociologica che nei confronti di tutte le variabili che entrano nella costituzione dei fenomeni sociali, finisce per mettere tutte sullo stesso piano proibendosi di stabilire fra di esse un qualsiasi ordine di priorità»[12].

Soprattutto però i presupposti per una fondazione teorica, concettuale e metodologica della nuova sociologia stavano nella possibilità di costruire una società alternativa. Era un obiettivo la cui realizzazione non dipendeva tanto dall’intelligenza e dall’intuizione del singolo sociologo, ma dalla interazione fra critica sociologica e processo di trasformazione della società diretto dalla classe operaia in alleanza con altri strati subalterni.

 

Preoccupazioni

Negli ultimi decenni Ferrarotti era preoccupato per l’indebolimento del legame sociale che tiene insieme la collettività. «Vivere vuol dire convivere», affermava, riconoscere l’altro invece sta avvenendo il contrario, siamo centrati su noi stessi, ci isoliamo. Questo è il risultato del trionfo dell’economia di mercato. Quando tutti i rapporti diventano utilitaristici, non c’è più società, ma solo ricatti reciproci e tornaconti individuali. Un contesto che non promette nulla di buono per l’avvenire della democrazia.

In quella che chiamava «crisi della tarda modernità» la sociologia stava venendo meno al suo ruolo, diventava una scienza ibrida, priva di senso critico verso l’esistente, si tramutava un puro accertamento di fatti slegati e frammentari. Una delusione che si accompagnava a quella sul divenire della democrazia. Franano «le presuntuose ideologie globali, che presumevano di anticipare la storia prima di farla, si offuscano gli ideali e vengono meno le idee, restano solo gli insulti, la propaganda, il «politichese». La rappresentanza politica scade a rappresentazione teatrale, recitativa. La democrazia si spegne. Cresce l’astensionismo elettorale»[13].

Contemporaneamente le nuove metodologie di ricerca stavano sposando l’assunto di fondo che l’individuo venga prima della società e della storia. Storia e società sono concepite come risultanti di un’infinità di azioni individuali, gli attori sociali non sono più entità collettive che operano all’interno di una formazione economico-sociale storicamente data, sono insiemi di comportamenti individuali. L’individualismo metodologico ribalta la concezione secondo cui oggetto delle scienze sociali sono le strutture, le norme della vita sociale, le regole codificate, in quella opposta: ogni fenomeno sociale è il risultato della combinazione di azioni, credenze o atteggiamenti individuali, quindi la spiegazione di un fenomeno va ricercata nelle cause individuali delle quali è il prodotto, non in concetti come classe sociale, gruppo, ruolo, genere, etnia. Per via di tali posizioni i sostenitori dell'individualismo metodologico si sono trovati in contrapposizione alle scuole strutturalistiche, storicistiche e sistemiche le quali hanno fatto rilevare che la sociologia deve rispettare la specificità del sociale, cioè deve spiegare il sociale attraverso il sociale stesso.

La sociologia, osservava, si riduce così a variabile subordinata, a sociografia e il sociologo a specialista che offre i suoi servizi sul mercato al miglior offerente» e rinuncia a considerare l’insieme della società. Un tempo disciplina unitaria, essa si è andata frantumando in una miriade di sociologie speciali, che si esauriscono in ambiti sempre più limitati e specifici, così che le sotto discipline diventano più importanti della sociologia.



Note

[1] Per una considerazione d’insieme, introduttiva alla sua vita e alle sue opere è bene cominciare da due testi: Perché la sociologia. Incontro con Franco Ferrarotti, a cura di Umberto Melotti e Luigi Solivetti (Mondadori Education, Milano 2009) e Franco Ferrarotti, Dilemmi, scelte e rinunce (Gangemi editore, Roma, 2022).

[2] F. Ferrarotti, Dilemmi, scelte e rinunce, Gangemi editore, Roma, 2022, p. 47

[3] F. Ferrarotti, Quaderni di Sociologia nel settantesimo compleanno, «Quaderni di Sociologia», n. 85, 2021, in https://doi.org/10.4000/qds.4419, p. 23.

[4] F. Onofri, Il Maometto di Olivetti, «Il Contemporaneo», 17 settembre 1955.

[5] F. Ferrarotti, Tratto di sociologia, Utet, Torino 1968, p. 389.

[6] F. Ferrarotti, La ricerca concettualmente orientata e partecipata in L. Visentini (a cura di), Fra mestiere e vocazione: la sociologia del lavoro in Italia, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 110-111.

[7]F. Ferrarotti, Una sociologia alternativa, De Donato, Bari 1972, p. 127.

[8] F. Ferrarotti, Dilemmi, scelte e rinunce, cit., p. 283

[9]F. Ferrarotti, La salute nella fabbrica: riflessioni per una sociologia del lavoro, «La Critica Sociologica», n. 18, 1971cit., pp. 61-62.

[10]F. Ferrarotti, Che cos’ è la sociologia critica, «La Critica Sociologica», n. 20, 1971, p. 33 e 26.

[11]F. Ferrarotti, La sociologia alternativa ha bisogno di una società alternativa: risposta interlocutoria ai critici, «La Critica Sociologica», n. 24, 1972-73, pp. 7-8.

[12]Ivi, p. 5.

[13] Franco Ferrarotti, Il suicidio della democrazia, Solfanelli, Chieti 2022, p. 65


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Diego Giachetti (1954) vive a Torino. Si è occupato di movimenti giovanili e di protesta attorno al ’68 e delle lotte operaie nel corso dell’autunno caldo. Molteplici le sue pubblicazioni, tra le quali La rivolta di corso Traiano (1997-2019); Un Sessantotto e tre conflitti (2008). Con DeriveApprodi ha pubblicato Nessuno ci può giudicare (2005) e Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (2021).

Il suo ultimo libro Odio i lunedì. Con Vasco Rossi negli anni Ottanta (2024) è uscito per MachinaLibro.

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