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Manu Chao

Una canzone in movimento: Clandestino e l’inizio del XXI secolo



Questo articolo è una versione rivista di una puntata di The Perfect Song, il mio podcast, in cui racconto quelle che per me sono alcune delle migliori canzoni mai scritte. The Perfect Song è disponibile su Apple Podcast, Spotify, e tutte le principali piattaforme di pubblicazione.


Immagine: Christopher Wood

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Al di là di tutto quello che si dice, l’arte è un modo di interpretare la realtà che ci circonda. Qualsiasi creazione artistica, e la musica non fa eccezione, nasce in un contesto e da quel contesto è influenzata e plasmata. Quando lo scenario è incerto, l’arte riflette questa incertezza, ma la sa anche sfruttare per creare qualcosa di nuovo o di diverso. Clandestino di Manu Chao è proprio questo: è il racconto di un momento in cui, per un attimo, la speranza di cambiare il mondo era sembrata davvero a portata di mano. È una canzone che racconta un momento preciso, e che, probabilmente, non avrebbe potuto nascere in nessun altro tempo o in un altro contesto. E, purtroppo, è la colonna sonora della violenta fine di quel momento.

A ormai 20 anni di distanza dai giorni di Genova, è possibile raccontare qualcosa su quella che è stata la colonna sonora di quel momento. Perché Clandestino è, per molti versi, il suono di quei giorni terribili, in cui un nutrito gruppo di donne e di uomini provenienti dai posti più diversi e da tutti i contesti hanno cercato di mostrare che era possibile creare un mondo più giusto, in cui l’unico interesse non fosse solo quello economico, ma in cui tutti potessero avere una vita migliore a prescindere dal luogo di nascita.


Per iniziare a capire l’importanza di Clandestino è necessario fare una premessa, e scomodare uno studioso importante, Eric J. Hobsbawm. Per quanto ne so, nella sua lunga e onorata carriera, Hobsbawm non si è mai occupato direttamente di musica rock, ma è quello che ha spiegato meglio la cornice storica in cui è nata Clandestino. Uno dei suoi lavori più importanti è il lungo saggio Il secolo breve, pubblicato nel 1994 in lingua originale e uscito in Italia l’anno seguente. La tesi principale di quest’opera è che dal punto di vista degli equilibri di potere e dei rapporti tra nazioni, il XX secolo può essere considerato un «secolo breve». Lo scoppio della Prima guerra mondiale aveva di fatto chiuso la fase storica del XIX secolo e aveva creato un nuovo scenario mondiale basato sulla contrapposizione tra sistemi politici ed economici contrastanti che avrebbe concluso il suo ciclo con la caduta dei regimi comunisti tra il 1989 e il 1991. Quello che Hobsbawm all’epoca non poteva prevedere è che in realtà, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI sarebbero trascorsi dieci anni.

A posteriori, è facile capire come la nascita del nuovo panorama in cui ci troviamo a vivere oggi ha una precisa data di nascita, anzi ne ha due: il 20 luglio e l’11 settembre 2001. Il G8 di Genova e l’attacco a New York e Washington indirizzano definitivamente la politica mondiale verso un approccio sempre più liberista in economia e sempre più improntato sullo scontro tra forze della conservazione da una parte e «asse del male» dall’altra, lasciando pochissimo spazio di manovra alle istanze progressiste o radicali.

I movimenti che all’epoca erano noti come «no global» non trovano quasi più spazio per un lungo periodo, almeno fino all’emergere di momenti di protesta che riprendevano temi principali della fine del XX secolo – integrandoli anche con nuove prospettive e nuovi punti di vista – e li riproponevano in forme diverse e innovative. Se si escludono le manifestazioni contro l’intervento militare americano in Iraq e in Afghanistan, il primo vero momento di protesta globale successivo al 2001 che cerca di mettere in discussione lo scenario e che riesce a riguadagnare uno spazio nella discussione globale è Occupy Wall Street, che fa la sua comparsa dieci anni dopo l’inizio del XXI secolo, il 17 settembre 2011.


Tornando alla fine del «secolo breve», i dieci anni che passano tra il 1991 e il 2001 sono un periodo di enorme interesse storico perché la mancanza di un equilibrio stabile rende possibili tante novità che prima o dopo forse non sarebbero state neanche immaginabili. Come diceva Mao Zedong, «Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente».

Sono anni in cui succede tutto e il contrario di tutto: mentre si festeggia la fine di una serie di regimi oppressivi nell’Europa dell’Est, la Jugoslavia esplode in una guerra civile atroce e sanguinaria, che lascia sul terreno decine di migliaia di vittime e ferite che ancora non si sono del tutto rimarginate. Mentre un ingegnere inglese, Tim Berners-Lee, inventa un protocollo che permette ai computer di tutto il mondo di comunicare tra loro creando una rete completamente decentralizzata e indipendente che si diffonderà ovunque e che cambierà tutto, viene fondata la World Trade Organization, che lavorerà per imporre politiche neoliberiste a tutti i suoi paesi membri, a volte con conseguenze devastanti per le popolazioni.

Anche nella musica, questi dieci anni di interregno tra un secolo e l’altro riflettono il momento. È un decennio di novità e soprattutto di mescolanze, incontri e scontri tra generi diversi. Si inizia con la parabola del grunge, che travolge il rock degli anni ’80 e porta in primo piano quella che fino a quel momento era considerata musica underground, creando nuove star e lasciando sul terreno figure come quella di Kurt Cobain, che avrebbero potuto dare ancora tanto al rock e all’arte in generale. In questi anni anche alcune tra le band mainstream più importanti cambiano pelle e si aprono al nuovo. Due esempi: gli U2 scoprono l’ironia e la musica dance, parlando prima della potenza devastante dei mass media con Achtung Baby e Zooropa e poi degli eccessi del consumismo globale con Pop; Bruce Springsteen senza la E Street Band scopre suoni più pop o più acustici, pubblicando quelli che sono forse i suoi album peggiori, Human Touch e Lucky Town, seguiti da uno dei migliori, The Ghost of Tom Joad.

Dal punto di vista creativo, probabilmente, i momenti più importanti sono quelli che vedono generi lontani avvicinarsi, incrociarsi e ibridarsi per creare qualcosa di nuovo. Non è un caso se la mescolanza tra rock e hip hop che inizia in quel periodo verrà chiamata crossover prima di diventare nu metal con il volgere del secolo e del millennio. Ed è interessante notare che alcune figure provenienti dal mondo della musica da discoteca, come Fatboy Slim o i Chemical Brothers produrranno musica che, almeno nell’approccio, è molto più rock di tanti dischi fatti con chitarra, basso e batteria. In questo scenario fluido e in continuo divenire, anche la musica cosiddetta «etnica» gioca un ruolo fondamentale, e iniziano ad avere un successo nuovo e più grande anche musicisti che non usano l’inglese come lingua per esprimersi. Ed è qui, in mezzo a questo caos creativo che incontriamo la Mano Negra, la prima band in cui ha militato il nostro protagonista.


José-Manuel Thomas Arthur Chao nasce a Parigi nel 1961 da una famiglia spagnola fuggita in Francia per scappare alla dittatura di Francisco Franco. Inizia a fare musica con il fratello Antoine e nel 1987 fonda la Mano Negra, con Antoine e con il cugino. È una band che non suona come nessun’altra: la cifra stilistica principale è la mescolanza di generi come lo ska, il punk, il reggae e l’uso di tante lingue diverse, francese, inglese, spagnolo, italiano e altre ancora per raccontare storie che vengono dalle periferie, dai confini dell’impero e dal sud del mondo. In una parola, Patchanka, come si intitolava il loro primo album. La band ha un discreto successo in Europa, in Asia e in America Latina e diventa seminale per molti gruppi del periodo: per esempio in Italia, un gruppo di ragazzi emiliani innamorati dell’Irlanda iniziano suonare insieme con il nome di Modena City Ramblers e definiscono la loro musica «patchanka celtica» per sottolineare le influenze che la band francese aveva su di loro.

Nel 1994, poco prima della pubblicazione di Casa Babylon, il loro quarto album, le tensioni interne portano allo scioglimento della Mano Negra e Manu Chao prosegue la sua carriera da solista. Il primo risultato di questo lavoro è Clandestino, pubblicato nel 1998. La canzone è la traccia di apertura. L’album è fatto di registrazioni sostanzialmente artigianali, realizzate da Chao con un portatile da cui non si separava mai (lo «Studio clandestino») e che mettono insieme suoni acustici con influenze africane e latinoamericane. Il disco venderà circa 5 milioni di copie in tutto il mondo e verrà certificato disco d’oro o di platino in diversi paesi. Tra le particolarità di questo e dei successivi album di Chao c’è il fatto che testi e musiche a volte sono «riciclati» da altre canzoni. Facciamo l’esempio di Bongo Bong, il primo singolo solista del cantante, e terza traccia di Clandestino. Il suo testo è quello di King of Bongo, canzone della Mano Negra del 1991, cantato su una base diversa – e più lenta – che include anche suoni di Bull ina Pen dei Black Uhuru. La canzone della Mano Negra è a sua volta ispirata al pezzo del 1939 King of the Bongo Bong del trombettista Roy Eldridge. Bongo Bong è di fatto un medley con la traccia seguente, Je ne t’aime Plus, che è cantata sulla stessa base. Nell’album seguente, Próxima Estación: Esperanza, Chao riprende la stessa base per due canzoni, Mr. Bobby e Homens.


Venendo a Clandestino, la canzone racconta la vita difficile di un immigrato clandestino, impegnato a fuggire dalla polizia e a cercare un lavoro per sopravvivere in un mondo repressivo e in cui chi viene da un altro paese è spesso condannato alla clandestinità e a vivere di espedienti. Il protagonista si definisce «un fantasma nella città», invisibile dopo aver abbandonato la sua vita tra Ceuta e Gibilterra, respinto dalle autorità, per cui è più facile cacciare e arrestare che sprecare carta per compilare moduli di accoglienza. Come è evidente da questo breve riassunto, e come aveva già fatto con la Mano Negra, Chao prende una chiara posizione politica, dalla parte dei più deboli e contro il razzismo. La traiettoria di questa canzone si incrocia con quella del nascente movimento popolare contro la globalizzazione, che inizia a svilupparsi concretamente nella seconda metà degli anni ’90 e che, tra le tante rivendicazioni che porta avanti, chiede anche un radicale cambiamento delle politiche relative alle migrazioni e al sostegno dei paesi di quello che una volta si chiamava «Terzo mondo».

Questo movimento aveva mostrato la sua vera portata per la prima volta in uno dei luoghi simbolo degli anni ’90, nella città che aveva dato i natali a Jimi Hendrix e al grunge – simboli della ribellione giovanile degli anni ’70 e ’90, ma anche a colossi della nuova economia globale come Microsoft e Starbucks. Durante il vertice della WTO a Seattle, il 30 novembre 1999, migliaia di persone bloccarono le strade della città per protestare contro l’applicazione delle teorie neoliberiste e per una globalizzazione più giusta ed equa, impedendo l’accesso dei delegati alla zona del vertice. E proprio a Seattle si mostra anche il volto più violento della protesta: un gruppo di manifestanti vestiti di nero prende d’assalto banche e negozi causando danni e scontri con la polizia.


La musica di Manu Chao, e in particolare Clandestino, sono una perfetta colonna sonora di questo movimento: è molto diversa dal classico rock mainstream, anche quello più alternativo che andava di moda negli anni ’90, non è cantata in inglese e racconta storie di un altro mondo, quello che il movimento vorrebbe portare in primo piano e cambiare. È semplice, ritmata e coinvolgente, perfetta per la condivisione collettiva. Non so se il mio è un parere condiviso, ma per me Clandestino è una specie di inno non ufficiale di quei momenti e di quegli anni, inseparabile da quelle immagini e da quelle idee: per le strade si diceva che «un altro mondo è possibile», e lo si diceva ballando sul ritmo di questa musica.


La verità è che probabilmente Clandestino è la canzone giusta al posto sbagliato. La sera del 18 luglio 2001, Manu Chao suona con i suoi Radio Bemba Sound System a Piazzale Kennedy a Genova per la folla che in quei giorni si stava radunando in città per protestare contro il vertice del G8 che sarebbe iniziato il giorno successivo. Nella sua autobiografia, don Andrea Gallo racconta che tutti i ragazzi coinvolti nella preparazione delle proteste cantavano Clandestino. Grazie al contributo di Chao, don Gallo riuscì ad aprire un bar che offriva gratuitamente da bere ai sans papier e a tutti quelli che erano venuti a Genova per protestare. Durante il concerto, don Gallo sale sul palco: «Visto che nessuno ha ancora provveduto ad accogliere come si deve voi e chi è verrà qui a dire no alla globalizzazione, abbiamo pensato di organizzare un punto di ristoro durante il G8. Manu Chao è entusiasta dell’idea, lo chiameremo Bar Clandestino. I potenti della Terra pensano che il mondo sia loro e vogliono decidere per tutti. È importante che ci siate tutti, a migliaia, qui, a dire no. I credenti a dire che la Terra è di Dio; i non credenti che la Terra è di tutti. In democrazia non esistono zone rosse, gialle e verdi. Hasta la victoria siempre».


Il G8 di Genova segna l’inizio della fine di quel decennio di transizione tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI. È il momento in cui tutte le tensioni che si erano create negli anni precedenti arrivano al punto di rottura. Il concerto di Manu Chao di fatto apre i tre giorni che Amnesty International ha definito «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale». La tensione era altissima da settimane: i gruppi più oltranzisti di quello che all’epoca era noto come «popolo di Seattle» avevano dichiarato apertamente che avrebbero violato la zona rossa in cui si sarebbe svolto il vertice, mentre dall’altra parte il Ministro dell’Interno e le forze di polizia promettevano di difenderla a ogni costo. C’erano continue provocazioni. I racconti parlano anche di centinaia di sacche per cadaveri giunte in città nei giorni precedenti il vertice. Sembrava una gara ad alzare sempre di più il livello dello scontro tanto che alla fine, quando lo scontro esplose davvero, almeno all’inizio, nessuno si sorprese.

Poi gli eventi superarono anche le più fosche previsioni che si potevano fare. I manifestanti pacifici, che erano la stragrande maggioranza, si trovarono presi in mezzo tra gli assalti del blocco nero, che agiva praticamente indisturbato e la risposta delle forze dell’ordine che era spesso tardiva, ma allo stesso tempo durissima. E tutti ci ricordiamo quello che successe dopo.

Carlo Giuliani, la Diaz e Bolzaneto.

La macelleria messicana.


Quei tre giorni misero fine in modo violento alla spinta propulsiva, che in quel momento sembrava difficilmente arrestabile, dell’idea che «un altro mondo è possibile» e di fatto aprirono una stagione di globalizzazione selvaggia e neoliberismo spinto in economia, e di repressione in politica. Poco meno di due mesi dopo, quando tre aerei si schiantarono sul World Trade Center e sul Pentagono, e un quarto precipitò in Pennsylvania prima di colpire il suo obiettivo, divenne evidente che l’altro mondo possibile che era uscito dagli anni ’90 era molto diverso da quello che immaginavano i ragazzi di Seattle e di Genova, e che Manu Chao cantava.


Ci sono voluti diversi anni, varie guerre e una crisi economica devastante per ricalibrare le prospettive e ricominciare a immaginare un mondo diverso: oggi i movimenti sono meno accentrati e sfruttano la potenza della rete per diffondere le proprie idee in modo orizzontale. Le figure di riferimento sono più modelli da cui trarre ispirazione che veri e propri leader politici. E lo spettro della protesta si è ampliato ed è diventato sempre più sfaccettato. Accanto alla richiesta di un nuovo paradigma economico, in cui non sia più un mercato quasi totalmente privo di regole ad avere il controllo su tutto, si sono fatte strada con forza richieste legate alla difesa dell’ambiente contro i cambiamenti climatici in atto, per un nuovo approccio all’uso delle energie rinnovabili, per i diritti di tutti e contro il razzismo sistemico alla base di molti degli ordini sociali degli stati occidentali. In questi anni, Manu Chao è sempre stato in prima linea in questi movimenti e la sua musica ha, nonostante tutto, continuato a essere la colonna sonora di proteste e dimostrazioni.


Gli ultimi anni hanno dimostrato che forse, finalmente, siamo sul punto di vedere davvero un cambiamento nel mondo: nonostante tutte le resistenze, che hanno preso la forma di estremisti religiosi, attentatori razzisti, tecnocrati ultraliberisti e presidenti sovranisti, sembra che ci stiamo avvicinando a un punto di svolta. Martin Luther King diceva che «l’arco dell’universo morale è lungo, ma inclina nel verso della giustizia» e sembra che stavolta il mondo stia davvero facendo un passo importante in quella direzione. Fare in modo che questo cambiamento diventi realtà non sarà né scontato né semplice. Ci vorranno attenzione, costanza, voglia di non mollare e capacità di pensare in modo innovativo e laterale. E ci vorrà anche tanta bellezza. Ci vorrà il potere dell’arte e della musica di avvicinare le persone e di funzionare da bandiera.


Ci vorranno, tra le tante cose, canzoni che abbiano la capacità di raccontare il mondo che vogliamo. Canzoni che siano semplici da ricordare, per poterle cantare tutti insieme, e che diventino un rito collettivo. Ci vorranno anche canzoni che ci ricordino quello che abbiamo pagato per arrivare dove siamo, e che ci facciano evitare di ripetere gli errori che abbiamo commesso. Ci vorranno canzoni come Clandestino.

Perché sì, un altro mondo è possibile.



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