A oltre trent’anni dalla morte, e a oltre quaranta dal ritiro a vita privata, il lascito teorico di Louis Althusser segna ancora uno spartiacque tra come il marxismo era stato inteso fino allora e come lo sarebbe stato dopo. E se lo scandalo che ne accompagnò la ricezione si è esaurito, gli effetti di quel dibattito (che si protrasse per un ventennio esatto, tra il 1960 e il 1980) mostrano una consistenza destinata a durare. A condizione che gli strumenti elaborati da Althusser siano applicati alla sua stessa opera. In tal senso, la tesi proposta è che l’itinerario di questo pensatore si sia svolto sotto il segno del fraintendimento: da un lato il fraintendimento (in parte fisiologico, in parte interessato) ad opera dei suoi critici – ciò che richiede una chiarificazione; dall’altro un autofraintendimento – ciò che invita a una reinterpretazione.
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Il riesame interminabile
Per quanto articolata, la costruzione teorica di Althusser si reggeva su una e una sola base: la distinzione tra scienza e ideologia. Gli eventi del maggio francese avevano però mostrato l’inoperatività di quella teoria, che pure egli riteneva finalmente scientifica, nella lotta politica. Se era stato persuasivo nel tratteggiare una concezione attiva della conoscenza, non era stato in grado di indicare come dalla conoscenza si potesse passare all’azione. La prassi si trovava all’interno della scienza, la costituiva anzi in quanto tale, ma non sapeva andare oltre. Così, ulteriore paradosso, toccò a lui venire tacciato di accademismo, complice l’adesione non dichiarata alla tendenza strutturalista.
Si tratta dunque di concepire la prassi al di fuori della scienza: per tutto il seguito della propria vita intellettuale, Althusser inseguirà una soluzione al problema della fusione tra teoria e lotta di classe, senza più trovare un punto fermo. Anticipata già alla fine del 1967 in interventi sparsi (e che costituirono una specifica aggiunta all’edizione italiana del 1968 di Leggere il Capitale), l’autocritica al proprio precedente «teoricismo» lo conduce dapprima ad un rinnovato confronto con Gramsci e infine a una insistenza sui limiti teorici dello stesso Marx, come si può constatare mettendo a confronto i saggi Ideologia ed apparati ideologici di Stato (pubblicato nel 1970) e Marx nei suoi limiti (risalente al 1978 e pubblicato postumo). L’ambivalenza dell’iniziale giudizio su Gramsci è rivelatore di due possibili prospettive: criticato in quanto teorico dello storicismo assoluto, e come tale disinteressato alla problematica specificamente scientifica, viene invece valorizzato in quanto unico marxista che abbia riflettuto sull’egemonia come costruzione organizzata di consenso; prevalendo la seconda, attraverso questa rilettura su come le sovrastrutture funzionano, il fuoco della riflessione si sposterà nuovamente su Marx, per evidenziare però che, più se ne assimilano le innovazioni, più si evidenziano i problemi aperti.
Un elemento coerente all’originaria impostazione di Althusser è il tentativo di concepire il rapporto struttura-sovrastruttura in termini non meccanici. A chi non riesce a penetrare nella problematica althusseriana potrà apparire incomprensibile che un critico dell’idealismo voglia individuare la relativa autonomia della sovrastruttura, attraverso la formula (invero un po’ bizantina) di determinazione in ultima istanza, e tuttavia di questo si tratta. Agisce qui un paradigma filosofico irriducibile sia alla causalità meccanica propria dell’empirismo, sia alla causalità espressiva propria dell’idealismo. In entrambi i casi, sia che una forza ne metta in moto altre, sia che si irradi dall’interno di tutti gli enti, si è in presenza di una forma di causazione lineare. Ciò che Althusser intendeva enucleare è invece una causalità strutturale, in cui la combinazione asimmetrica dei vari elementi nella struttura rende ragione dei rapporti tra quegli stessi elementi.
Le sovrastrutture hanno dunque un ruolo specifico, che il filosofo francese cerca di concepire in modo «materialistico» attraverso il concetto di apparati. In tale direzione, la nozione gramsciana di egemonia diventa un punto di riferimento ambivalente, perché da un lato permetterebbe di non pensare il rapporto tra l’economico e il politico come una relazione essenza-fenomeno, dall’altro misconoscerebbe il ruolo sovradeterminante della lotta di classe rispetto a quella particolare macchina che è lo Stato. E se l’apprezzamento per il primo aspetto è già presente negli scritti althusseriani degli anni ’60, l’insoddisfazione per il secondo prende sempre più piede in quelli degli anni ’70. Da qui anche il disaccordo con l’analisi del potere politico proposta da Nicos Poulantzas.
Sullo sfondo, vi è però un radicale, inconfessato ribaltamento di paradigma, che stravolge i rapporti precedentemente delineati tra scienza, ideologia e politica. Nell’elaborazione degli anni ’60, non la vittoria della Rivoluzione aveva dimostrato la validità del marxismo, ma, al contrario, in quanto il marxismo è valido aveva potuto essere applicato. La validità del marxismo era data dalla sua capacità di essere indice del vero e del falso, secondo il modello antiempiristico dell’idea vera in Spinoza; e, in tal senso, Althusser aveva onestamente ammesso il proprio debito negli Elementi di autocritica del 1974. All’inverso, nell’elaborazione degli anni ’70, le insufficienze nella concezione marxiana delle sovrastrutture, e in particolare dello Stato, divengono banco di prova dell’(in)adeguatezza del marxismo teorico. La partita non si gioca più sull’opposizione binaria tra scienza e ideologia, bensì sull’efficacia della teoria nella congiuntura della lotta politica. E, in quanto l’ideologia ha in essa una sua operatività, non viene più concepita come uno stadio prescientifico da abbandonare, bensì come un campo di rappresentazioni da investigare. L’elemento ideologico, cacciato dalla porta epistemologica, rientra dalla finestra politica, una volta acclarato che non di solo rigore scientifico vive la lotta di classe.
A questa apertura d’interesse, che pure contraddice al programma originario, si deve una delle formulazioni più incisive, nonché più problematiche, di Althusser: «l’ideologia c’interroga come soggetti». Il ruolo della soggettività non è dunque presupposto, ma si definisce se e solo se risponde a un sistema di credenze che costituisce «un tutto strutturato già dato», dando luogo a ideologie di contestazione o legittimazione dell’ordine vigente. È però evidente che, così definito, l’elemento ideologico assume caratteristiche strutturali e non superabili («l’ideologia non ha storia»): la teoria scientifica non ne prenderà mai integralmente il posto; o, in altre parole, non verrà mai meno lo scarto tra apparenza e realtà. Che è una metafora del venir meno della promessa comunista di palingenesi universale.
Posto in questa prospettiva, passa in secondo piano un problema di coerenza argomentativa su come agirebbe l’ideologia: se infatti, attraverso l’interrogazione, essa si rivolge alle coscienze individuali, il ruolo di attore è affidato alla risposta dei singoli, ritenuti passibili di scelta; se invece gli Apparati Ideologici di Stato, a cominciare dall’istituzione scolastica, funzionano come tali, sono puri strumenti della dominazione di classe e veicolano una e una sola ideologia.
Nel primo caso, si tratterebbe di una clamorosa retromarcia dall’impostazione marxiana matura (tanto lodata da Althusser perché centrata sui rapporti sociali anziché sull’interiorità della coscienza): radicata nell’inconscio e come esso eterna, l’ideologia viene a coincidere con il concetto di immaginario in Lacan; nel secondo, ci si troverebbe nell’impossibilità di definire uno spazio, esterno agli effetti dell’ideologia, per organizzare la lotta di classe: la medesima aporia in cui sarebbe incorso Foucault nell’analisi sulla pervasività microfisica del potere nelle relazioni sociali. Di fatto, nell’intento di indagare la «consistenza materiale dell’ideologia», Althusser intreccia ambiguamente due significati di che cos’è «materiale»: nel primo, ciò che, per quanto abbia origine nell’immaginario, produce effetti reali; nel secondo, ciò che si riproduce attraverso istituzioni dotate di una propria materialità. La mancata distinzione di funzione e struttura può sconcertare, ma non è che uno degli equivoci cui storicamente ha dato luogo la nozione stessa di materialismo – da Althusser considerata, letteralmente, intoccabile.
Che la nuova elaborazione del tema fosse pervenuta a risultati autocontraddittori doveva costituire un’ulteriore spinta al riesame, che infatti si protrasse negli anni successivi. Lungo questo percorso, la lotta di classe nella teoria è la parola d’ordine con cui, da un lato, Althusser dichiara di non avere nulla da ritrattare della propria elaborazione originaria, se non la cornice; dall’altro, di essere impegnato in un continuo lavoro di (auto?)emendazione dai residui d’ideologia borghese. Esemplare in tal senso la sua Introduzione al I libro del Capitale (del 1969), in cui prescrive di saltare l’intera I sezione, densa di «fumisterie hegeliane», e di iniziare la lettura dalle sezioni seguenti, dedicate alla teoria del plusvalore e rivolte a illustrare in che cosa consiste lo sfruttamento della forza-lavoro. Dietro l’indicazione di lettura vi è però una precisa linea di demarcazione dei destinatari: da un lato, intellettuali e professionisti, che possono essere attratti dai filosofemi, ma che sono costitutivamente inadeguati ad assimilare la teoria del Capitale; dall’altro, proletari e salariati, che invece fanno esperienza quotidiana dello sfruttamento e non devono venire distolti da questa visione trasparente. L’intenzione di espungere come spuria ogni traccia dell’eredità hegeliana produce la conseguenza di relativizzare e spostare sempre più in là il momento della cesura: una «cesura continuata», che ha un inizio, ma non una fine. L’oggetto-Marx stava sfuggendo di mano.
In chiave polemica, l’enunciazione della categoria di processo senza soggetto né fine (come parte di un confronto del 1972 con il marxista umanista inglese John Lewis) distingue tra l’azione che gli esseri umani conducono, in condizioni che non hanno potuto scegliere e con esito non preventivabile, rispetto alla pretesa di vedere nell’Uomo astratto, proiezione dell’individualismo borghese, il motore della storia. In chiave positiva, ma problematica, la domanda «È facile essere marxista in filosofia?», posta a titolo di una conferenza del 1975, esprime la difficoltà di condurre il proposito fino in fondo. Considerati gli apprezzamenti di Althusser alla linea di Mao-Tse-Tung, non è azzardato affermare che egli abbia inteso così assimilare il tema della «rieducazione degli intellettuali» sbandierato dalla «rivoluzione culturale» cinese.
Al netto delle circostanze che lo portarono a spargere dubbi sul marxismo ufficiale (reso in effetti eclettico dalla sovrapposizione di esigenze tattiche dei partiti comunisti), ad Althusser va in ogni caso riconosciuto il merito di avere introdotto il dibattito (non soltanto marxista) ad una dimensione nuova; in questo è stato un iniziatore inquieto, non un sistematizzatore coerente, e come tale va valutato. Egli, in effetti, stava rimettendo in gioco tutto: i suoi scritti sul materialismo aleatorio ne sono l’estrema testimonianza.
Rivelatore di un complessivo ripensamento, in una fase biografica che vedeva Althusser ormai privo di qualsiasi ruolo pubblico, è la ricerca di una genealogia filosofica a partire da quello stesso Epicuro cui Marx aveva dedicato, nel 1841, la tesi di laurea. Se però in Marx l’interesse per l’atomismo greco non era stato ulteriormente approfondito, in Althusser fornisce la traccia per delineare «la corrente sotterranea del materialismo dell’incontro», riconosciuto altresì come «l’unica tradizione materialistica». La caduta casuale degli atomi nel vuoto fornisce così il paradigma per una concezione totalmente nuova della dialettica storica: dall’incontro contingente di traiettorie indeterminate può nascere una nuova configurazione, a patto che l’incontro «faccia presa». Nel dibattito marxista, l’esigenza di pensare il nuovo nella storia aveva già ispirato spunti non deterministici, come per i concetti di crisi rivoluzionaria in Lenin o di tempo presente (Jetztzeit) in Benjamin: ma in quel caso si trattava di concettualizzare un «pieno» inatteso, l’evento della rivoluzione; nel caso dell’ultimo Althusser, il concetto di «vuoto», cui tutta l’elaborazione ruota intorno, è l’interiorizzazione dello svanire dei punti di riferimento. Il rifiuto del finalismo viene radicalizzato in una forma parossistica, con il risultato di svuotare la consistenza di quella prassi massimamente finalizzata che è l’azione politica. Emblematico di questa estrema problematicità, nonché dell’onestà mentale che la sottende, è il modo in cui anche l’immagine di Marx ne esca trasformata, e che risalta nel confronto tra due differenti genealogie filosofiche: mentre Toni Negri aveva individuato una linea del potere costituito (che va da Hobbes a Rousseau a Hegel) cui contrapporre una linea della potenza costituente (che va da Machiavelli a Spinoza a Marx), Althusser individua una linea idealistica (che va da Leibniz a Hegel al Marx della teleologia) cui contrapporre una linea materialistica (che va da Machiavelli a Spinoza al Marx della contingenza). Ancora i «due Marx», ma in un senso diverso, perché posti in compresenza, non più in successione. È difficile non pensare che questo Marx irrimediabilmente dimidiato non fosse che una proiezione (necessariamente inconsapevole) di Althusser stesso.
L’esplosione dei paradossi
Nel complesso, l’opera del filosofo francese mostra una proliferazione di paradossi. Fatto che, se valutato da un punto di vista prettamente razionalistico, sarebbe sufficiente a negarle ogni valore teorico. La mia tesi è che invece si tratti di un’opera in tanto più notevole in quanto è paradossale.
Il primo e fondamentale paradosso è che, nella visione di Althusser, il marxismo è uno; e tuttavia, la presunzione di restituire il marxismo originale, attraverso un lavoro di continuo riesame, finirà per dare vita a uno tra i tanti possibili marxismi. Se infatti il marxismo non è un sistema teorico conchiuso, bensì una modalità d’intervento teorico, nelle congiunture che di volta in volta si danno si generano i marxismi. Come esito di una coerenza radicale, il marxismo «ortodosso» è diventato un marxismo (auto)critico. È grazie a questo paradosso che l’elaborazione di Althusser non ha cessato di esaurire i propri effetti. Ne è un esempio la filologia marxiana, in cui la distinzione tra un Marx giovane e un Marx maturo è ormai corrente, benché non nei termini proposti da Althusser. Le sue tesi non si sono imposte, e nondimeno ogni studioso che è venuto dopo ci si è dovuto confrontare.
La medesima considerazione vale anche laddove Althusser si rivela autoconfutativo. La dichiarata autosufficienza teorica del marxismo (a metà tra l’illusione e l’ossessione) è smentita dalla pratica che lo stesso Althusser ha seguito, con l’assimilazione nel proprio contesto teorico di temi desunti esplicitamente da Machiavelli e Spinoza, e tacitamente da Nietzsche e Heidegger. Egli ha fatto il contrario di quanto sosteneva, dimostrando a suo modo la non autosufficienza teorica dal marxismo: ha così ottenuto il risultato, certamente più duraturo, di mettere in relazione un marxismo possibile con altre famiglie teoriche.
Indicativo di un itinerario aperto è il modo in cui Althusser ha trattato la dialettica. In quegli stessi anni, il tentativo di separare Marx da Hegel era stato condotto dalla scuola di Della Volpe e dalla tendenza operaista. E in entrambi i casi, a opera rispettivamente di Lucio Colletti e di Toni Negri, ne era risultato un rifiuto definitivo della dialettica, che per il primo era anti-scientifica e per il secondo conciliativa. Viceversa, Althusser continuò a perseguire un’altra dialettica. Il suo anti-hegelismo nasceva dal rifiuto di una immagine del sapere come «circolo di circoli, sfera di sfere» (in una parola: speculativo), considerata ideologica in quanto proiezione di una borghesia ormai egemone e soddisfatta di sé. Che l’Intero non sia il Vero, ma il Falso, è peraltro un punto in cui le critiche a Hegel di Althusser e di Adorno inaspettatamente convergono. Una lettura avvertita della Fenomenologia dello spirito dimostrerebbe che in Hegel la teleologia è ricostruita sempre a posteriori, dallo sguardo retrospettivo della coscienza divenuta autocoscienza. E tuttavia, questo pregiudizio non ha impedito ad Althusser di formulare dialetticamente la sua tesi più scandalosa: che è necessario l’anti-umanesimo teorico per l’umanesimo pratico e, a essa correlata, che l’umanesimo teorico si converte in economicismo pratico.
La ricerca di Althusser conduce a paradossi effettivamente problematici riguardo al tema dell’alterità, con l’effetto di riproporre quella forma di contraddizione semplice di cui aveva denunciato la matrice idealistica e che aveva proposto di sostituire con la nozione di contraddizione sovradeterminata. L’ipotesi della lotta di classe nella teoria presuppone infatti un antagonismo irriducibile tra borghesia e proletariato, in cui quest’ultimo è l’Altro per eccellenza, un soggetto assente che va reso presente: la lotta è per l’assunzione nel pensiero di questo elemento rimosso. Tuttavia: o il soggetto è a tutti gli effetti assente, e in tal caso è soltanto una finzione teorica – con il che si conferma il costruttivismo epistemologico, ma si ricade nel «teoricismo»; o questo soggetto esiste realmente, e in tal caso è un attore storico – con il che si passa alla prova empirica, ma si ricade nella metafisica dell’origine, del soggetto e del fine. E se la lotta di classe nella teoria si rivelasse, né più né meno, funzione di un soggetto (della lotta di classe), non sarebbe essa stessa… ideologia? Indicazioni in tal senso, in effetti, hanno la ricorrenza dei lapsus. Che proletari e salariati avessero agevolmente «capito» il Capitale (come affermato nell’Introduzione del 1969) era già una tesi contraddittoria con tutta la cura epistemologica profusa negli scritti precedenti, oltreché storicamente incauta. Che la lotta di classe costituisca un fatto strutturale, anche quando non è palese, e che nelle porosità del modo di produzione capitalistico viva già una forma di comunismo interstiziale segna un ulteriore passo verso la presupposizione di una Presenza. Che infine il materialismo dell’incontro costituisca, in quanto corrente sotterranea, il rimosso della filosofia/ideologia è l’ultimo tentativo di dare consistenza a un Fondamento.
Rileggere Althusser, in filigrana
L’ultima argomentazione che intendo avanzare è che, se non si coglie la peculiare fisionomia intellettuale di Althusser, ci si condanna a perpetuare il fraintendimento della sua impresa teorica.
Un tratto caratteristico, che lo accomuna a Lacan, al di là dello specifico teorico, è l’atteggiamento intellettuale verso il maestro – nel primo caso Freud, nel secondo Marx: un commento infinito, che anziché stabilire (o ristabilire) un’interpretazione inconfutabile produce un risultato originale e anziché produrre una sintesi definitiva ritorna continuamente sui propri passi.
Un tratto meno evidente, che lo accomuna a Wittgenstein, al di là della personalità ossessiva, è una medesima istanza teorica: la neutralizzazione di ogni dimensione interiore della filosofia, che in Wittgenstein prende la forma del rifiuto della psicoanalisi e della focalizzazione sulla dimensione intersoggettiva dei giochi linguistici, mentre in Althusser la forma della demistificazione di un soggetto presupposto integro proprio attraverso la psicoanalisi.
Ne consegue che il lascito di Althusser ha un futuro nel campo dell’intersoggettività, grazie a due fondamentali acquisizioni. La prima è di natura filosofica e si esprime in una concezione del sapere che rifiuta la verità, non le verità: un processo senza soggetto, in quanto non si irradia dall’interno del ceto intellettuale, ma si colloca nelle relazioni tra i soggetti; e un processo senza fine, in quanto non è iscritto in una narrazione, ma risponde a congiunture sempre nuove. A differenza di quanto sarebbe divenuto usuale in seguito, il richiamo alla complessità non è utilizzato per sfumare i contorni delle situazioni ed evitare di prendere posizione, bensì per accentuarne l’aspetto conflittuale e individuare le linee di demarcazione. Aver respinto congiuntamente tanto l’idealismo (comunemente considerato nemico della scienza moderna) quanto l’empirismo (considerato comunemente la base della scienza moderna) e aver proposto una concezione alternativa della conoscenza, che attraverso l’uso di categorie psicoanalitiche è posta a confronto con il suo lato nascosto, costituisce una mossa mai tentata prima per rompere l’autoreferenzialità del discorso scientifico. L’in-finità della conoscenza che ne risulta è una forma di universalismo teorico.
La seconda è di natura politica e si esprime nella denuncia delle grandi narrazioni: in anticipo su Lyotard, ma con finalità opposte, Althusser aveva colto il punto cieco cui conduceva l’autorappresentazione della lotta per il comunismo. Un autoinganno che avrebbe necessariamente presentato il conto. Ma se la grande narrazione dell’Origine, del Soggetto e del Fine viene smascherata come proiezione prometeica dell’universale fittizio «Uomo» (oggi si direbbe del maschio bianco occidentale eterosessuale), diventa possibile tracciare un ponte con l’acquisizione, dovuta agli studi culturali, post-coloniali e di genere per cui il Soggetto non è che una sequenza di fallimenti. È una strada che talune ricerche già percorrono. Perché questo percorso proceda, in un’epoca in cui la modalità narrativa dello storytelling tende a eclissare la fatica del concetto, assume un significato ancor più prezioso l’appello di Althusser a «non raccontare/non raccontarsi storie». È stato questo il suo modo di essere materialista.
Nota biobliografica
I due testi fondamentali per conoscere la proposta teorica di Althusser restano: Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967, con nota introduttiva di C. Luporini, nuova edizione riveduta e ampliata a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano 2008; e Leggere il Capitale, Milano, Feltrinelli, Milano 1968 contenente i soli contributi di Althusser e Balibar, nuova edizione Mimesis, Milano 2007, che reintegra i contributi di Rancière, Macherey ed Establet.
Per la svolta successiva al 1968 i testi cruciali sono: Lenin e la filosofia, Milano, Jaca Book, Milano 1968; Umanesimo e stalinismo, De Donato, Bari 1973, poi ripubblicato come I marxisti non parlano mai al vento, Mimesis, Milano 2005; Elementi di autocritica, Feltrinelli, Milano 1975; Freud e Lacan (che contiene il saggio Ideologia e apparati ideologici di Stato), Editori Riuniti, Roma 1977; Marx nei suoi limiti, Mimesis, Milano 2004.
Per gli ultimi scritti: Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano 2000. Per iniziativa dell’Associazione Culturale «Louis Althusser», altri lavori sono stati pubblicati o in corso di pubblicazione nella collana Althusseriana, presso le edizioni Unicopli prima e Mimesis poi.
Le ragioni della rottura con l’allievo Pierre Rancière sono documentate da quest’ultimo in Ideologia e politica in Althusser, Feltrinelli, Milano 1974.
Per l’Italia, la più articolata discussione sui temi althusseriani è nel volume collettivo La cognizione della crisi. Saggi sul marxismo di Louis Althusser, Angeli, Milano 1986. Per i testi postumi, si veda F. Dinucci, Materialismo aleatorio. Saggi sulla filosofia dell’ultimo Althusser, CRT, Pistoia 1998. Per un riepilogo della ricezione, si veda C. Lo Iacono, Althusser in Italia. Saggio bibliografico (1959-2009), Milano, Mimesis, 2011.
All’allievo più devoto di Althusser, Étienne Balibar, si deve la raccolta Per Althusser, manifestolibri, Roma 1991, che contiene la migliore e più simpatetica ricostruzione del pensiero del maestro, nonché (nello scritto Zitto ancora, Althusser!) il commento del collega universitario sull’uxoricidio.
A Yann Moulier-Boutang si deve un interessante progetto di biografia, che va ormai considerato accantonato e di cui è uscito il solo primo volume (inedito in traduzione italiana), Louis Althusser. Une biographie. Vol.1: La formation du mythe (1918-1956), Paris, Grasset, 1992.
Per comprendere la figura umana di Althusser non si può prescindere dall’autobiografia L’avvenire dura a lungo, Parma, Guanda, 1992. Benché il fatto sia passato inosservato, ricordi e considerazioni in essa contenuti hanno chiaramente ispirato Michel Houellebecq per delineare il personaggio di Bruno Clément nel romanzo Le particelle elementari.
Immagine: Arrigo Lor Tutino, Più o meno, 1977-1990. L'editore resta a disposizione per gli eventuali aventi diritti.
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