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Lo scrittore "negro" e il suo mondo. Intervista a George Lamming



Un’intervista a George Lamming, per ricordare il poeta, saggista e romanziere della diaspora caraibica, recentemente scomparso.

L’intervista, condotta da David Scott alle Barbados nel gennaio del 2001, ripercorre la vita e la poetica di Lamming nell’intreccio tra la sua scrittura e la storia delle lotte anticoloniali nei Caraibi [1]. Attraversa un arco di cinquant’anni, dalle ribellioni degli anni Trenta al processo di decolonizzazione degli anni Sessanta e Settanta, fino agli Ottanta. In primo piano emerge l’incontro con la società occidentale, l’impegno letterario «politico» e il rapporto «stretto ma anche critico» con la sinistra e il marxismo. Sullo sfondo, la tensione mai risolta tra la consapevolezza del colonizzato e la possibilità di «rimanere sovrano» all'interno di quel «particolare sé» che ha cercato di articolare nel suo percorso artistico e politico. Tracce di una biografia eminentemente anticoloniale.


* * *



A Londra dalle Barbados

Vorrei iniziare con le Barbados della tua infanzia e giovinezza. Alcuni dettagli di quel periodo sono ovviamente noti, ma qual è il ricordo più vivido della tua vita negli anni Trenta?


Credo le rivolte del 1937. Avevo circa nove o dieci anni. Mi ci vorranno molti anni per capire che mi trovavo al centro di qualcosa di esplosivo, foriero di una grande trasformazione. Perché vivevo in quello che oggi si chiamerebbe un villaggio urbano: Carrington Village, un villaggio povero e pericoloso vicino a Bridgetown. Quando ci sono state le rivolte, c'è stato un senso di allarme assoluto. Frequentavo la scuola elementare e quella mattina, con nostro grande stupore e gioia, il preside e ci disse di tornare a casa il più velocemente possibile, senza darci alcuna spiegazione. Erano circa le otto, otto e mezza del mattino. Sulla via del ritorno, lungo quella che si chiamava Roebuck Street, la gente, ovunque, chiudeva le porte dei negozi. Non sapevamo cosa stesse accadendo ma era chiaro ci fosse qualche problema.

Quando sono tornato a casa, per le strade del villaggio circolavano furgoni della polizia con poliziotti e fucili a baionetta. Era come assistere alla guerra per la prima volta senza sapere esattamente di cosa si trattasse.


Qual è stata la reazione di tua madre alle rivolte?


Paura. Il mio patrigno è un poliziotto ed era preoccupata per la sua sicurezza. La risposta di mia madre alle rivolte è stata: «Perché si comportano così?». Non c'era alcuna solidarietà con chi si scontrava. C'è una scena in The Castle che mette in evidenza questa ambivalenza degli abitanti del villaggio, tra chi non era sicuro di partecipare alla rivolta e chi voleva andare avanti. Le Barbados in quegli anni sono in una situazione semifeudale in cui è difficile mettere in discussione il potere assoluto; è una società di piantagioni e un presidio militare. Per ironia della sorte, il villaggio si trova a soli cinque minuti di cammino da dove viveva il governatore. Quegli uomini scalzi che si precipitano alla Government House, credo sia il ricordo più vivido della mia infanzia.


Nel 1950, arrivi a Londra insieme a Sam Selvon. Dove alloggiate? Quali contatti avete? Quali preparativi avevate fatto? Che cosa fate quando arrivate?


Non avevamo alcun tipo di preparazione, non sapevamo dove avremmo vissuto o cosa sarebbe successo. Era, come ho detto in un’altra occasione, un viaggio verso un'aspettativa. Arrivammo, credo a Waterloo o a Victoria. Nelle stazioni, a quei tempi, c'erano sempre «crociati» inglesi, di un tipo o dell’altro, del British Council o del Partito Conservatore, che aiutavano chi ne aveva bisogno. Sam aveva un amico di nome Chungsingh, che in seguito divenne editore del «Trinidad Guardian» che lo aspettava. Alla fine qualcuno che aveva delle conoscenze al British Council ci portò in un ostello per studenti chiamato Balmoral: un'interessante concentrazione del mondo coloniale. Era un ostello gestito, credo, dal British Council che ospitava gli studenti fino a quando non trovavano un posto dove vivere. Siamo rimasti lì per circa due mesi. C'erano caraibici e africani; il nigeriano del romanzo Lonely Londoners (1956) di Sam condivideva la stanza con noi. Eravamo due per stanza e Mate, che era senza un posto, ci chiese se poteva fermarsi per la notte, noi facemmo l'errore di dirgli di sì e lui non se ne andò più. L’ostello era un luogo di transito e soprattutto dava la possibilità di un un pasto sostanzioso con dolce e caffè. Non ricordo quanti soldi avessimo, probabilmente non ne avevamo proprio.…

Risolto per l’alloggio, il passo successivo furono i contatti. La prima cosa era far sapere a [Henry] Swanzy che eravamo lì. Stabilita la connessione, per i due anni successivi ho letto regolarmente, per [il programma radiofonico della BBC] Caribbean Voices soprattutto poesie e non necessariamente il mio lavoro.

Ho poi incontrato un uomo di cui oggi non si parla molto ma che all'epoca era molto noto, Edric Connor. Un cantante eccezionale, uno degli artisti più pagati della BBC, di Trinidad, molto amato dal pubblico inglese. Era una persona molto disponibile. Faceva uno spettacolo al Vaudeville Club e mi chiese di accompagnarlo. Alla fine dello spettacolo, mi presentò al pubblico. Aveva portato una poesia che avevo scritto e mi disse di leggerla. Mi è preso un colpo ma ho letto e l’applauso è stato più accogliente e coinvolgente di sempre. Edric aveva questa disponibilità a dare una mano ai nuovi arrivati che mi è sempre sembrata una cosa di grande generosità.

Ho iniziato quasi subito a mettere insieme i primi capitoli di In the Castle of My Skin. Quando ho lasciato l’ostello, oltre alle letture per la BBC ho, per un po’, lavorato in fabbrica. Una di queste era una fabbrica di pneumatici Firestone in cui facevo il turno di notte. Trasportavo pneumatici e una notte ho quasi rotto una gamba a un uomo perché me ne è sfuggito uno di mano. Alcuni sapevano come far rotolare due o tre pneumatici alla volta; io riuscivo a gestirne solo uno, quella volta avevo provato con due che però erano andati in direzioni diverse. Il mio lavoro in fabbrica non è durato mia più di un paio di settimane. Mi sono poi più o meno stabilizzato alla BBC dove oltre a leggere regolarmente ho iniziato a scrivere recensioni. Quella era la mia principale fonte di reddito. Dopo circa un anno arrivò mia moglie che andò a lavorare alla Indian High Commission e, con il suo stipendio, in qualche modo, ce la cavammo. È stato tutto un po' difficile fino alle prime pubblicazioni. Dopo The Castle è stata una storia diversa, le cose si sono messe in moto molto, molto velocemente.


Il colonizzatore e il colonizzato

Quando e come nasce l'idea di In the Castle of My Skin?


Mi è difficile dirlo. Penso che sia un esempi di qualcosa sotterrato che stava germogliando e poi è venuto fuori quando è arrivato il momento. Credo che uno dei primi germi, molto, molto presto, sia una poesia che ho intitolato The Rock, scritta prima di partire per l’Inghilterra. Ero tornato per la prima volta a Barbados [Lamming, che ha insegnato a Trinidad, nella città di Port of Spain tre il 1946 e il 1950, si riferisce probabilmente a quegli anni, n.d.t.] e vedevo la roccia [simbolo dell’isola n.d.t.] quasi come se fosse un’intera isola. Credo che si sia trattato di un'esperienza silenziosa, inconscia, accumulata, come quelle di cui ho parlato prima del 1937 e 1938. Tutta una serie di cose che sono rimaste segrete per un certo tempo e poi sono venute fuori.

La storia della scrittura del romanzo è molto interessante perché avevo scritto quello che poteva essere un capitolo che fu pubblicato da qualche parte. Il titolo era David’s Walk che è quasi come l'apertura di The Castle [in una nota, David Scott, segnala che Lamming sta ricordando male: «Un racconto intitolato Birthday Weather che si apre quasi esattamente come The Castle è stato pubblicato in “Bim” 4, n. 15 (1951)» n.d.t.]. Avevo quell'apertura e più o meno altri due capitoli e non avevo soldi. Ciò che è accaduto è una storia davvero straordinaria. C'era un uomo, Arthur Calder-Marshall, un importante romanziere inglese del tempo, contemporaneo di Christopher Isherwood e Graham Greene, che era stato contattato da Henry Swanzy [produttore di Caribbean Voice n.d.t.] per una critica sulla trasmissione. Calder-Marshall aveva una certa conoscenza dei Caraibi perché aveva visitato Trinidad [nel 1938] e aveva scritto un libro molto controverso intitolato Glory Dead [1939]. Lo incontrai alla mensa della BBC, parlammo e gli dissi che avevo un paio di capitoli di questo romanzo, che volevo inviarli per una pubblicazione e volevo capire a chi mandarli. Mi disse che non pensava fosse una buona idea [inviare i capitoli], per non incorrere in un «no», consigliava di aspettare che ci fosse qualcosa di sostanzioso. Ma aggiunse anche: «Se sei convinto e fiducioso, allora…» e nominò tre editori. Indicò Michael Joseph [come il migliore] perché aveva tra i suoi referenti un critico di spicco: Walter Allen, critico di punta del «New Statesman».

Io, nella mia impazienza, non ho aspettato e, con mio grande stupore, circa dieci giorni o due settimane dopo, ho ricevuto una lettera da un uomo chiamato Robert Lusty, il capo di Michael Joseph, che mi chiedeva di andare a discutere il manoscritto. Quando andai mi disse che Allen aveva scritto di non lasciarsi scappare il romanzo. Disse che avrebbero stilato un contratto, ma consigliava di non firmarlo subito. «Vada a dare un’occhiata» mi disse ma io firmai subito. Non era un grande accordo, credo fosse di duecento e qualcosa sterline, e la metà come anticipo. Stiamo parlando di un'Inghilterra in cui cinque sterline alla settimana erano ormai più o meno il salario medio di un operaio. Quindi dalle 50 alle 100 sterline erano soldi molto seri. Non avevo mai avuto un’opportunità del genere e gli chiesi se potevo avere l'assegno. Lui suonò un campanello, arrivò la segretaria con l’assegno e me ne andai.

[L'assegno] non mi serviva a nulla, perché avevo a malapena il biglietto della metropolitana! Non credo che all'epoca avessi un conto in banca, così ho fatto una cosa molto particolare - me lo ricordo ancora. C’era una famosa libreria chiamata Zwemmers in Charing Cross Road, dove passavo molto tempo. Entrai da Zwemmers e comprai una ventina di sterline di libri, il che era molto [da spendere] e chiesi se potevo pagare con l’assegno. L’uomo, che mi aveva visto spesso lì andò nel retro ad informarsi perché la cosa sembrava rischiosa. Ci mise molto tempo. Credo che sia andato a chiamare Joseph o qualcun altro per delle informazioni. Poi tornò e mi disse di sì. Così ho cambiato l’assegno e sono uscito con il resto. Quell’evento ebbe una grande influenza su di me, perché tornai a casa e cominciai a lavorare furiosamente con la prospettiva che con la fine del romanzo sarebbero arrivate le altre sterline del contratto. Ci vollero circa diciotto mesi per scrivere The Castle. Il resto è storia. [La prima edizione di In the Castle of My Skin è del marzo 1953].


Sembra non ci sia voluto molto tempo…


Sono stati circa diciotto mesi. Ma era una routine quotidiana, ci lavoravo ogni giorno, tutti i giorni. Era un libro piuttosto lungo. Poi lo mandai ad Allen e Allen me lo rimandò con un commento completo. Le sue previsioni erano state azzeccate. Il libro ebbe un notevole riscontro sulla stampa. Nel giro di un mese ebbe tre importati recensioni: l’«Observer», il «Times», e anche lo «Statesman». Dello «Statesman», Allen mi disse che era stata una fortuna: avevano mandato il libro a un tizio perché lo recensisse e la recensione era favorevole ma non era ben scritta e non la pubblicarono. Nel frattempo, Pritchett [Victor Sawndon Pritchet, critico letterario n.d.t.] lo aveva letto e mandò a dire che voleva recensirlo. Ne fece un'intera pagina sullo «Statesman», quella in cui si dice che era un ritorno alle pagine di Huckleberry Finn. Pritchett era e rimase fino alla sua morte un nome molto potente in quel mondo. Una recensione di Pritchett aveva un certo peso.


Come tutti sanno, In The Castle of My Skin è in parte autobiografico. Cosa ti ha spinto a collocare la storia in relazione ai disordini del 1937? Intendo dire che In The Castle of My Skin è contemporaneamente il raggiungimento della maggiore età di G e il raggiungimento di una maggiore coscienza sociale. L'una è collegata all'altra. La mia domanda è: eri già in grado nel 1950 di riconoscere che il 1937, 1938, 1939 fossero un punto di rottura nella storia politica dei Caraibi?


Quando sono arrivato in Inghilterra nel 1950, ricordo che venivo da una Trinidad in cui il senso di appartenenza era nato attraverso attività come il Little Carib Theatre e le molte discussioni sulla cultura caraibica. C’era anche l’eco del dibattito sulla West Indian Federation avviato nel 1947 in Giamaica tutte cose che saranno poi molto rapidamente rese fertili dalla rapida politicizzazione della mia sensibilità. In Inghilterra, si stavano svelando molto rapidamente le illusioni imposte dalla scuola e dall’educazione. L’incontro con Mate, il nigeriano, mi ha portato a interessarmi alla realtà concreta dell'Africa, non nel senso culturale proposta da [Kamau] Brathwaite ma nel senso politico. Nel 1950 in Inghilterra sentivo continuamente parlare della lotta anticoloniale in Costa d'Oro, che diventerà il Ghana. Nkrumah, che era stato lì nel 1948, era tornato a Londra e ricordo di aver partecipato a un incontro in cui parlava Nkrumah. Ogni domenica andavo in un posto chiamato WASU a Chelsea - era la West African Student Union - per ascoltare le stesse discussioni che si tenevano nella WISU, la West Indian Student Union. Ho provato un grande interesse nel sentire e percepire l'Africa, l'Africa politica, l'Africa anticoloniale.

Credo che tutto questo si sia riversato in The Castle, negli aspetti politici di The Castle. All’epoca Londra era una capitale politica molto importante. Credo, di aver scritto un libro che non riguarda solo le Barbados ma un momento storico di trasformazione del mondo spinto dal movimento anticoloniale in Africa [nel] 1950, 1951, 1952. Nel 1952 The Castle è finito. E io avevo solo ventitré o ventiquattro anni. Penso che l'esperienza delle Barbados sia stata rielaborata attraverso un altro tipo di esperienza intellettuale. In quel periodo leggevo voracemente. Gli scrittori inglesi non mi interessano molto, leggevo i francesi: Albert Camus, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e André Malraux. E ho iniziato a non fare alcuna distinzione tra l'uomo di cultura e l'uomo di spettacolo, tra l'uomo di lettere e l'uomo d’azione. Una cosa che stavo assorbendo dalla lettura degli scrittori francesi. Non l'avrei capita se mi fossi concentrato su Waugh o Green. Ma stavo leggendo il dibattito in corso in Francia e questo mi ha influenzato. Credo che un po' di questo sia espresso in The Castle quando i ragazzi sulla spiaggia fanno speculazioni filosofiche sul tempo che sono coerenti con il modo in cui le persone dell'epoca parlavano dei misteri delle cose. C'è un elemento di scambio filosofico in quella scena sulla spiaggia, che credo derivi anche dal modo in cui ho incorporato certi tipi di discorsi. Sono anche consapevole che, in un certo senso, per noi la politica è centrale rispetto all’estetica.


La dialettica del riconoscimento

C'è un legame con Frantz Fanon di cui ho sempre voluto chiederti, perché lo ritrovo in tutto il lavoro degli anni Cinquanta, nei saggi, nei romanzi; meno in quello degli anni Settanta. Il punto più esplicito di questo legame è il discorso che hai tenuto al congresso internazionale degli scrittori e artisti neri a Parigi nel 1956. Mi interessa, in particolare, la concezione molto fenomenologica del riconoscimento, della dialettica del riconoscimento e il ruolo del linguaggio nella problematica del riconoscimento, temi che sono presenti anche in Pelle nera, maschere bianche, pubblicato nel 1951 o 1952. Ciò che mi affascina è l’idea di The Negro Writer and His World (Lo scrittore negro e il suo mondo) [2]: il modo in cui cerchi di elaborare e far emergere il senso che il negro ha di se stesso, riflesso dall'immagine che di lui ha il mondo bianco e razzista. Da qualche parte, dici che la concezione di sé dipende molto dall'attenzione dell'Altro, sei quindi interessato a come il senso di sé si costruisce come riflesso dell'Altro, cosa che ricorda molto il modo in cui Frantz Fanon parla dello sguardo e dell'importanza dello sguardo. Può parlarci di questo?


Prima di tutto avverto che, parlando dalla prospettiva dei Caraibi, non ho intenzione di essere dissolto nell’idea generale dell’«africano». Per questo motivo, pur parlando di continuità con un certo tipo di esperienza - continuità politica e di lotta - sono consapevole di parlare da uno spazio specifico e distinto, che può sovrapporsi e avere le sue connessioni con Camara Laye o Achebe o chi altro sia. Dico questo perché in quel momento c'era una grande pressione ad essere incorporati in qualcosa che riguardasse la personalità africana. Una cosa che derivava anche dagli imperativi della negritudine dell'epoca, e io dico: sono completamente a favore del dispositivo, dello strumento della negritudine come strategia necessaria, ma non con la negritudine come essenza.

D'altra parte, ciò che non posso evitare è che la mia stessa esistenza sia concepibile senza una consapevolezza dell’Altro, e questo vale anche per l'Altro. Si combatte, quindi, continuamente contro la colonizzazione di questa consapevolezza, contro il rendere reale la consapevolezza dell’Altro e darle autorità mentre si ricostituisce chi si pensa di essere. In questo modo, anche se non sono libero, non sono totalmente libero dall'influenza del significato di quello sguardo o di quella occhiata, posso di fatto attribuirgli un significato che mi permette di rimanere sovrano all'interno di un particolare sé che sto cercando di articolare. Se da un lato non posso cancellare o negare l'Altro, dall'altro posso esprimere una sovranità del sé (intesa in un senso molto ampio) che colloca l'Altro nella prospettiva in cui voglio che sia collocato a livello individuale.

È chiaro che non è possibile stabilire una libertà assoluta dall'influenza di un potere esterno. Si deve accettare la realtà di una sovranità limitata in un'area della percezione del mondo. Quando si tratta di affari pubblici - di come verranno prese le decisioni, in base ai vincoli delle risorse disponibili che sono in conflitto con aspettative illimitate o per un’aspettativa limitata dalle promesse acritiche e talvolta irresponsabili fatte da chi plasma la società - ci si rende conto che c'è una sovranità limitata, ma una sovranità limitata riconosciuta nel dominio pubblico non richiede necessariamente una sovranità limitata nel potere dell'io di percepire il motivo per cui si deve limitare tale sovranità. In altre parole, c'è una sovranità che rimane intatta nonostante le limitazioni che si devono concedere a un altro tipo di sovranità nello spazio pubblico. È un continuo processo di riflessione su come occorre sempre rielaborare il modo in cui si rivendica e si esercita il potere e l'autorità di una prospettiva individuale e soggettiva. In un certo senso, sto sostenendo che rimane un'area di scelta, di scelta indipendente, sui significati che si attribuiscono agli eventi. E quest'area non deve essere abbandonata, qualunque sia la superiorità delle forze che ti circondano e che ti chiedono di abbandonarla.


Voglio tornare a The Negro Writer and His World, sono molto interessato al modo in cui intendi la costituzione del senso di sé del nero o del colonizzato. In un certo senso, la dialettica del riconoscimento è elaborata attraverso le figure di Prospero e Calibano, e il dialogo shakespeariano tra i due traccia ciò che io penso sia una concezione hegeliana della co-costituzione del Sé e dell'Altro. È la dialettica servo-padrone che vedo funzionare in questa concezione del riconoscimento. La cosa soprattutto interessante è la sensazione che il concetto di sé del colonizzato non sia comprensibile al di fuori della gerarchia del linguaggio in relazione al quale si costituisce il senso della negritudine. In quel saggio parli del linguaggio come di una infinita fonte di controllo e del modo in cui viene stabilita una griglia concettuale egemonica, se così si può dire.


È una questione che sto riconsiderando. Il linguaggio è una fonte di controllo. Ma il linguaggio è anche fonte di invenzione e il potere di controllo del linguaggio dipende molto da chi ha il potere di definirlo. È una delle questioni che mi pongo quando leggo, per esempio, autori della tua disciplina [l’antropologia]. Ho sempre attribuito alla straordinaria composizione di quella regione che chiamiamo Caraibi, il carattere di formazione globale, molto precoce, se vogliamo prematura, quasi come uno dei primi capitoli dell’esperimento che oggi si chiama globalizzazione. Ci è stata in un certo senso presentata la possibilità di rendere globale l'astratto, una comunità globale di quelle che [Martin] Carter avrebbe chiamato «persone valide». Non una globalizzazione delle cose e delle strutture o dello spazio, la vicinanza che abbiamo l’un l'altro e la comunanza del carico storico e del senso di sopravvivenza da quel carico che portiamo con noi, ci ha dato la possibilità di dare al concetto di globale un significato che non è all'ordine del giorno della globalizzazione. Trovo molto difficile capire come affrontare le cose quando le definizioni degli esperti - e intendo gli economisti, i sociologi, le persone che fanno parte di una varietà di discipline - circa la nostra situazione, sono impantanate in un linguaggio che li tutela e da cui non sono in grado di fuggire. Non so come si faccia, ma la questione del trovare il linguaggio è importante; e avrei dovuto già dire che uno dei fallimenti della sinistra è stata la mancanza di consapevolezza della necessità di trovare un linguaggio diverso da quella ereditato dai classici. Dobbiamo trovare un linguaggio, un linguaggio definito, che abbia una qualche relazione organica con quella che io considero l'unicità della nostra particolare evoluzione come popolo, negli ultimi cinquecento anni.

Mi sono imbattuto in una frase di Carter, agli esordi della sua carriera politica, quando si addolora per la disgregazione della Guyana, una frase meravigliosa che parla di una «libera comunità di persone valide» [3]. La difficoltà dell’arrivare a essere una comunità di persone valide è che le questioni che impegnano la nostra leadership a tutti i livelli, a livello politico, giudiziario, a livello aziendale, è una leadership che molto spesso è caratterizzata da alti livelli di competenza nel settore particolare ma mi sembra che sia, in quasi tutti i settori, quasi totalmente priva di una mentalità filosofica. Pensa cioè statisticamente, in termini di sistemi e di strutture, ma non pensa filosoficamente in termini di evoluzione della persona e della comunità di persone valide.


Ritorno ai Caraibi

[Passando dagli anni Cinquanta ai Sessanta n.d.t.] quali sono state le occasioni, all'indomani dell'indipendenza della Giamaica e di Trinidad, per fa ritorno ai Caraibi? E che tipo di partecipazione hai avuto nelle correnti intellettuali e politiche della regione caraibica di quegli anni?


Quando sono tornato alle Barbados negli anni Sessanta, ho a un certo punto sviluppato un rapporto molto interessante con il segretario generale del sindacato dei lavoratori, il Barbados Workers Union. Per molto tempo, non ho parlato con nessun altro se non con loro. Una delle ragioni è che il sindacato mi ha in qualche modo allontanato dalla fedeltà ai partiti. Il Barbados Workers Union era trasversale ai partiti politici, per cui si aveva un ascolto che non sarebbe stato possibile avere in un partito. Non ricordo la data ma ricordo di aver parlato davanti a una folla mai vista prima - con l'eccezione forse di Trinidad nella sede del sindacato - alla presenza di persone bianche che prima d'allora non avevo mai visto nella sede di un sindacato delle Barbados in occasione di una conferenza pubblica. Non erano lì solo per il fascino di [Lamming]. Erano lì per il titolo: L’uomo nero nel mondo moderno. A quel tempo l'espressione «uomo nero» alle Barbados era un’espressione esplosiva. Il mio intervento aveva a che fare con i cambiamenti del mondo, con il ruolo dell'Africa nel movimento anticoloniale e con il modo in cui, l’«uomo nero» visto come oggetto era diventato soggetto e autore della propria storia.

Successivamente ho aperto il Labour College. È stato fantastico. Ho stilato un elenco dei panel a cui il pubblico e le scuole avrebbero dovuto partecipare. Ne abbiamo avuto su «Storia del lavoro», «Il lavoro e la legge», «Gli economisti e il lavoro», e così via. Il gruppo di lavoro sull'economia era composto da William Demas, George Beckford, il trinidadiano Trevor Farrell e il giamaicano George Eaton. Il gruppo di diritto era composto da Telford Georges e Miles Fitzpatrick. Il panel di storia era una bellezza: Walter Rodney non è potuto venire perché era in lotta con Burnham ma ha registrato il suo contributo ed è stato meraviglioso.

È poi successo qualcosa che ha dato inizio al mio allontanamento. La sera dell'inaugurazione dovevo aprire, ma chiesi di cambiare posto perché non volevo sedermi accanto al direttore dell'AIFLD. Avevo un'opinione precisa sull'American Institute of the Federation of Free Labor. Era un'organizzazione di facciata e divenne presto chiaro che molti dei finanziamenti per il college erano in realtà collegati all'AFL-CIO. La cosa non mi era gradita. Frank Walcott, il segretario generale del Barbados Workers Union, la pensava diversamente. Quando una volta ne abbiamo parlato, mi ha detto una cosa molto interessante, mi ha chiesto: «credi che il sindacato abbia fatto un buon lavoro qui?». E io risposi: «Sì, certo». «Bene, mi fa piacere sentirlo. Io sono dell'idea che se si parla di soldi e tutto il resto, se il diavolo li porta, è il Signore che li ha mandati».


La radicalizzazione della politica caraibica alla fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta è stata per te fonte di ispirazione? E i fatti di Trinidad del 1970?


I fatti di Trinidad, soprattutto. È stato un momento particolare, di eccitazione e di angoscia. Sono arrivato a Trinidad non troppo tempo dopo la Ribellione di Febbraio che era partita dagli studenti. Non era stato permesso al governatore generale canadese, in visita nell’isola, di entrare nel campus. Gli studenti [della Guild of Undergraduates n.d.t.] avevano risposto con un grande corteo. La mobilitazione era poi andata avanti per circa sei o sette settimane coinvolgendo forze [sociali] di ogni tipo, compreso l’esercito che alla fine si ammutinò. In quelle settimane, sono stato invitato a partecipare a una conferenza organizzata dall'Oilfield Workers Trade Union (il sindacato dei lavoratori dei giacimenti petroliferi) a San Fernando. Questa è la parte più angosciante: c'erano molti poliziotti che facevano controlli. George Weekes, il segretario generale del sindacato era in prigione insieme a tanti altri militanti. Ho parlato con la pesantezza nel cuore perché non capivo come il segretario generale potesse essere in prigione senza che ci fossero manifestazioni di massa. È stato molto doloroso.

Quando sono arrivato a Port of Spain ho scoperto una cosa che non avrei mai creduto possibile. Tutti i cancelli di Woodford Square, che un tempo era l'Università di Woodford Square, erano stati chiusi. Non si poteva entrare nella grande piazza. Se si conosce il ruolo e la storia di Woodford Square, in particolare in relazione al People National Movement (PNM) e al dottor Williams, l'idea che non si potesse entrare era inimmaginabile; [ma] i cancelli erano chiusi. È stato un periodo molto pesante. In collegamento con questi fatti, la Giamaica stava per entrare nella fase di una politica ideologica molto pesante. Credo che uno dei «contributi» di Michael [Manley] - quando ha preso in mano il partito - sia stato quello di rendere l'enfasi ideologica più esplicita di quanto fosse ai tempi di Norman [Manley]. Ricordo anche l'entusiasmo per le elezioni del 1972. Ogni tanto mi recavo in Giamaica; ero spesso invitato al [campus] Mona [all’University of West India]. Gli anni Settanta sono un periodo in cui si è sempre sull'orlo di qualche accadimento, non si sa bene cosa [ma] qualcosa sta per accadere… C’erano molti gruppi politici ma la cosa importante è l'emergere della WPA [Working People's Alliance] e il ritorno di Rodney [in Guyana]. Poi, di tanto in tanto, sono andato a parlare anche in Guyana.


Molto più tardi, però…


Sì, molto più tardi. Siamo alla fine degli anni Settanta. Ma a partire dal 1971 circa, subito dopo la ribellione del 1970, c'è un senso di aspettativa in questa regione, l’idea che qualcosa stia per accadere. Tuttavia, dalla fine degli anni Sessanta in poi, il territorio caraibico che mi preoccupava maggiormente era Cuba. Sono stato spesso all’Avana per una visita o partecipare a qualche incontro.


La sinistra e il marxismo

Vorrei ora passare alla questione del tuo rapporto con la sinistra negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta. Come tutti sanno, hai con la sinistra un rapporto molto stretto ma anche critico. Ricordo molto bene un'occasione in Giamaica, in quello che per noi fu un anno molto difficile (il 1980), a ridosso delle elezioni di quell'anno, in cui hai tenuto una conferenza all'African Caribbean Institute of Jamaica. Ricordo bene che era l'anno successivo all'uscita dell'edizione di Season of Adventure per Allison & Busby. Dopo il tuo intervento ci sono state delle domande e nella tua replica hai detto: «Il problema della sinistra nei Caraibi è che non ha mai lasciato la scuola». Puoi dirmi cosa intendevi dire?


Credo che ciò che volevo dire è che, da un territorio all’altro dei Caraibi, ovunque si incontri la sinistra (intendendo con questo termine i leader o i potenziali leader di diverse organizzazioni) si incontrano sempre persone che provengono da una classe media che ha goduto dei vantaggi della scuola, mentre gli elettori a cui si rivolgono no. Li ho sempre visti, anche le figure migliori con forse una sola eccezione, nel ruolo di chi aveva il privilegio di interpretare e spiegare le cose agli altri, ma senza avere in realtà alcun collegamento organico o alcuna diretta identificazione con la vita quotidiana di quelli a cui si rivolgevano - ne immaginavano la vita ma non erano direttamente collegati ad essa, e davano quest’impressione di «non aver lasciato la scuola». Molti comportamenti erano quasi un testo vivente. Avevano letto la letteratura di sinistra, avevano letto Marx ma non proponevano la traduzione di quei testi in un'esperienza collettiva più ampia. L'ho visto molto bene nel caso della Guyana. Alcuni dei leader del People’s Progressive Party (PPP), che erano marxisti, si rivolgevano a un pubblico di operai e contadini a cui parlavano degli sviluppi che stavano avvenendo in Unione Sovietica, in Cecoslovacchia e in tutta una serie di altri luoghi per i quali, sono sicuro, la stragrande maggioranza non aveva alcun interesse. È come se un maestro di scuola vi portasse una specie di vangelo per la prima volta e vi chiedesse di accettarlo come vostro.

L'ho visto anche a Grenada. Una volta ho cercato di parlarne. Ero andato a una specie di raduno indetto dal Vescovo che si era aperto illustrando la situazione in Cile e l'assassinio di Allende. Era di nuovo la situazione di un gran numero di giovani, di scolari, e l'insegnante in classe che spiega i significati di Allende e del Cile. Dovevo parlare anche io e quello che ho fatto è stato chiedere in particolare ai giovani di ricordare che c’era nel paese una tradizione di lotta politica prima del New JEWEL Movement (The New Joint Endeavor for Welfare, Education, and Liberation Movement) e che, nonostante i suoi limiti, il compagno Vescovo non poteva non essere stato influenzato dal lavoro svolto dal defunto T. Albert Maryshaw. In altre parole, ero molto consapevole del fatto che la sinistra dirigente dell'epoca non aveva mai cercato di ricondurre le persone alla propria esperienza ma aveva, in un certo senso, sempre imposto l'esperienza di altri. Questo mi ha portato a ritenere che l'esperienza coloniale fosse molto profonda. Questo è il filo conduttore di tutto ciò che scrivo, è tutto legato alle dimensioni psicologiche dei colonizzati. L'esperienza coloniale era qualcosa di molto più profondo della semplice appropriazione delle risorse materiali altrui, molto, molto più profondo. È stata in realtà l'appropriazione effettiva delle menti altrui e la lotta di resistenza è stata soprattutto una lotta sul come recuperare questa facoltà, come riprenderne possesso prima che potesse effettivamente funzionare nel proprio interesse.

Così ho visto che c'era una sinistra che, in un certo senso, soffriva degli stessi problemi della piccola borghesia e della destra; era cioè una sinistra colonizzata, una sinistra che era profondamente colonizzata come la destra. La destra - una sorta di destra tradizionale piccolo-borghese - aveva l'idea che l'organizzazione della società dipendesse da un modello chiamato Westminster, che era stato descritto in un libro e veniva chiesto che fosse acriticamente seguito e abbracciato; anche la sinistra colonizzata proponeva modelli e testi che si chiedeva fossero abbracciati acriticamente, di cui divenne l'evangelista. In ogni caso, la realtà delle persone e le loro esperienze concrete erano secondarie. Non la preoccupazione principale. Un’altra questione che mi preoccupava era quella del linguaggio: né la sinistra né la destra hanno mai cercato o tentato di trovare un linguaggio appropriato per descrivere e analizzare i bisogni delle persone a cui si rivolgevano e di cui presumevano essere leader naturali. Credo che ci siano molte altre cose da dire a questo proposito. E continuo a pensare che non abbiamo mai esorcizzato del tutto i demoni lasciati dall'esperienza coloniale, e uso il termine coloniale in un senso molto, molto più profondo della semplice gente che è venuta e ha sfruttato le tue risorse materiali. La mente è stata penetrata e plasmata o rimodellata da quell'esperienza in un modo così profondo che l'esorcismo non è ancora completo.


Mi viene in mente il titolo della famosa opera di Ngugi, Decolonizing the Mind. La sinistra, in effetti, non si è sufficientemente occupata della decolonizzazione della mente. Permettimi di farti due domande sul tuo rapporto con il marxismo e sulla tua lettura del marxismo. Hai detto da qualche parte che quando un uomo ti dice di essere marxista, la cosa che ti interessa è capire come ci è arrivato. Quindi la mia prima domanda è: come sei arrivato al marxismo?


La mia risposta è che, probabilmente, senza saperlo, sono partito da lì, nel senso che quando sono arrivato a leggere Marx e a capire ciò che pensavo proponesse come componente fondamentale nella formazione dei rapporti sociali, cioè di classe, mi sono detto: «Ma questo è ciò che ho vissuto». È come se lui stesse raccontando la mia esperienza, con un linguaggio in cui io non avrei potuto farlo. Avevo vissuto una vita alle Barbados e mi era perfettamente chiaro che il potere era detenuto esclusivamente da una cricca di persone che possedeva e organizzava la base materiale della mia vita quotidiana sotto forma di piantagione di canna da zucchero. Mi era chiaro che ogni istituzione importante della società civile, che mediava la mia vita quotidiana, riceveva la sua autorità e la sua approvazione da quell'élite dominante di piantatori. A Barbados, durante la mia infanzia, nessun membro della Chiesa anglicana, vicario o altro, avrebbe potuto essere nominato senza il vaglio e l'approvazione del piantatore della zona. Questo valeva anche per la scuola e sono sicuro che sarebbe valso anche per le nomine in magistratura. In altre parole, ciò che avevo vissuto, ma che allora non avrei potuto vedere come avrei fatto in seguito, era che, di fatto, coloro che possedevano e controllavano la base materiale della mia vita controllavano anche le istituzioni che avrebbero plasmato la mia nozione di come ero in relazione all'Altro e come ero in relazione a loro. O, per dirla con le parole che si sarebbero usate in seguito, che la proprietà, il possesso, l'organizzazione della produzione materiale rientravano nella stessa orbita di controllo della produzione mentale; che queste due cose erano strettamente connesse. L'ho vissuto. L'ho vissuto anche vedendo il modo in cui la scuola era organizzata per creare la divisione del lavoro tra la popolazione. Se andavi in una certa scuola, significava che eri escluso da certe forme di lavoro. Se andavi in un altro tipo di scuola, significava che venivi addestrato per essere collocato in modo permanente in quella forma di lavoro. Per me la scuola - e questo emerge anche nel lavoro di molti scrittori delle Indie occidentali - era anche un agente di organizzazione delle distanze sociali e un agente fondamentale di controllo sociale.


Hai detto che ciò che Marx ti permette di fare non è tanto focalizzare l'attenzione sulla classe, che, come dici, ha fatto parte del contesto della tua esperienza di vita, ma focalizzare l'attenzione e chiarire la concettualizzazione del lavoro e la centralità del lavoro in qualsiasi comprensione della cultura. In moli dei tuoi interventi, quando parli di produzione culturale e di lavoro culturale, c'è dentro un tentativo di riflettere sul rapporto tra lavoro e cultura.


Comincio offrendo una sorta di definizione di cultura. Uno dei primi usi della parola, cultura, ha a che fare con l'allevamento degli animali e la cura delle piante [David Scott, richiama in una nota il lemma «culture» in Keywords: A Vocabulary of Culture and Society di Raymond Williams, (Oxford University Press, New York 1976, pp. 87–93. ]. E quindi quello che sento è che la prima responsabilità, la prima necessità, il primo imperativo è l'acquisizione di cibo: il come procurarsi il cibo, perché se non c'è cibo, non ci sarà libro, perché non ci sarà vita. In altre parole, tutti gli edifici che si costruiscono possono essere costruiti solo dopo che è stato completato l'impegno fondamentale di creare la base materiale e, in un certo senso, tutti gli edifici che si costruiscono saranno in qualche modo influenzati dalla natura e dal carattere di quella base materiale. Ma comincio con il cibo perché è ciò con cui la specie che chiamiamo Uomo (cioè uomini e donne) rende possibile l'esistenza. Successivamente, avendo reso possibile l'esistenza attraverso il cibo, sono anche condannati a un istinto che li costringe a interrogarsi sul significato di questa esistenza. Perché faccio questo sforzo per riprodurmi? E questa domanda troverà risposta in una serie di quelle che voi chiamate discipline: questa domanda troverà risposta in riflessioni chiamate religione, filosofia e così via. Ma tutte queste aree di indagine derivano in realtà da quella prima domanda, il riconoscimento che io sono qui, esisto, mi sono riprodotto.

(…)



Note [1] Questo testo è un estratto da The Sovereignty of the Imagination: An Interview with George Lamming, «Small Axes», 6 (2), 2002, pp. 72–200, disponibile online: https://read.dukeupress.edu/small-axe/article/6/2/72/32475/The-Sovereignty-of-the-Imagination-An-Interview. Trad. it. «Machina». [2] G. Lamming, The Negro Writer and His World, «Présence Africaine» n. 8–10, giugno-novembre 1956, pp. 318–25. Il congresso, sponsorizzato da «Présence Africaine» si tenne alla Sorbonne tra il 19 e il 22 settembre 1956. [3] La frase è tratta dal discorso pronunciato da Martin Carter in occasione della Eighth Convocation Ceremony at the University of Guyana (Georgetown, 1974). Il testo del discorso è stato successivamente pubblicato come A Free Community of Valid Persons in A Martin Carter Prose Sampler, Kyk-Over-Al, 1993, pp. 30-32.


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George Lamming (Carrington Village, Barbados, 8 giugno 1927 - Bridgetown, Barbados 4 giugno 2022), poeta, romanziere e saggista, ha scritto sulla decolonizzazione nei Caraibi. Il suo romanzo più noto è l’autobiografico In The Castle of My Skin (1953).


David Scott è direttore di «Small Axes» (Duke University Presse), insegna antropologia al dipartimento di Antropologia della Columbia University.



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