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Lettere al Governatore della Libia

Sull’eredità del colonialismo italiano (Parte I)



Il 29 settembre ricorre il 110° anniversario dell’aggressione colonialista italiana alla Libia. Come sezione, in collaborazione con la trasmissione radiofonica Going Underground, controstorie dal basso, abbiamo pensato di dedicare un approfondimento al tema, diviso in due parti, per cercare di capire gli immaginari coloniali della Libia a cavallo fra gli anni ’10 e gli anni ’30-’40 del secolo scorso, la sua eredità sull’oggi e la sua funzionalità alle politiche di sfruttamento e di controllo dell’occidente, l’assenza e l’emarginazione delle voci e dei corpi che rappresentano i territori colonizzati e infine i percorsi possibili di decolonizzazione del sapere. Lo facciamo cominciando con Gabriele Proglio (Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo), autore del volume Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità (Le Monnier, Milano, 2012).


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Immaginari coloniali

Gli immaginari degli anni 1911-’12, collegati poi a quelli del fascismo, sono importanti perché ci mostrano una prospettiva differente sull'eredità del colonialismo. Per approcciare meglio il tema del colonialismo italiano in Libia, bisogna forse partire dall’inizio dell’Ottocento. Alcune date danno le coordinate utili per definire il contesto internazionale: nell’estate del 1830 la Francia sbarca in Algeria e, nel contesto del Mediterraneo, alla fine del 1800, sostanzialmente i giochi sono fatti: la Libia, in Nord Africa, rimane l’ultimo spazio disponibile per una possibile colonizzazione.

Per ciò che concerne la guerra di Libia, gli estremi cronologici sono il 29 settembre del 1911 e il 18 ottobre del 1912: neppure un anno. In pochissimo tempo, dunque, cresce la propaganda interventista all'interno del contesto italiano con l’obiettivo di avvicinare l’opinione pubblica italiana - che fino a quel momento non aveva sentito parlare di Libia e non conosceva la Tripolitania - all’impresa di conquista della «quarta sponda». Gli Italiani e le Italiane conoscono bene, però, altre «sponde» verso le quali sono migrat*: quelle americane (uso il plurale, perché non si tratta solamente degli Stati Uniti, ma anche dell'Argentina e del Brasile). Con una serie di escamotage politici (il Parlamento rimane chiuso per parecchio tempo) e attraverso l’influenza di alcuni uomini chiave (come il ministro San Giuliano), il governo Giolitti avalla questa guerra.

Gli immaginari si costruiscono attraverso molteplici pratiche: innanzitutto la scrittura, intesa qui come visualità. Le voci sono diverse sui giornali: da Corradini a D'Annunzio, da Saba (che parla di «brava gente» che va alla guerra) ad Ada Negri, da Bevione (che utilizzerà il tema dell'orientalismo declinato nella prospettiva a sud della Tripolitania) a Cipolla. Una molteplicità di narrazioni che iniziano a raccontare la Libia e lo fanno in maniera stringente rispetto agli obiettivi militari, talvolta andando a supportare l'azione militare e di conquista.

Prima di entrare nello specifico degli immaginari coloniali, vorrei precisare che non tratterò in questo frangente le date, i fatti, le battaglie relative alla guerra di Libia, ricordando solamente che le navi italiane non puntano direttamente sulla Tripolitania, ma passano dai Balcani dove sono protagoniste di una serie di scontri militari contro l'Impero ottomano. Lo sguardo storico adottato riguarda, perciò, gli immaginari. Premesso ciò, questi immaginari sono costruiti in un preciso momento: il 1911 è il cinquantesimo dell'Unità d'Italia con un rimando continuo al Risorgimento e ai «padri della patria». Questi ultimi (Mazzini, Garibaldi, Gioberti, ecc.) sono tutti indistintamente mobilitati a supporto della conquista coloniale, messi all'interno di narrazioni declinate nella prospettiva di un nuovo Risorgimento, di una nuova liberazione attraverso la conquista della Libia.

Un secondo immaginario riguarda il mito di Roma imperiale, quel mito che verrà ripreso poi dal fascismo e da Mussolini. Una Roma, sì, imperiale, ma nel contesto specifico del Mediterraneo: attraverso la conquista della Libia, l’Italia riprende, secondo queste narrazioni, il controllo dell’area primaria d’origine e naturale d’azione: il cosiddetto Mare Nostrum.

Il terzo ed ultimo immaginario è la «terra promessa». Quest’ultimo immaginario nasce dall'esigenza di dare una risposta all’immigrazione prevalentemente transoceanica, ma anche in Europa e in Nord Africa (Egitto e Tunisia in primis), degli italiani; di veicolare nello spazio pubblico l’idea che la conquista della Libia avrebbe sfamato centinaia, anzi migliaia di bocche che, soprattutto nel Mezzogiorno, ma anche nel Nord Italia, non ne avevano possibilità di sostentamento. E di farlo a due passi da casa, in un’area che, per la mitologia evocata, è considerata dell’Italia, dagli italiani (uso solamente il maschile, perché la genealogia di questo ragionamento non contempla il femminile). La «terra promessa», tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, era rappresentata dalle Americhe: un luogo della memoria pubblica che, dopo le grandi aspettative, aveva generato sentimenti di nostalgia per il paese lasciato, di frustrazione e di rabbia per gli auspici disattesi e traditi. Nel 1911 la «terra promessa» viene declinata in prospettiva coloniale, cosa nuova per l'Italia, recuperando i modelli narrativi della Francia e dell'Inghilterra. Non a caso, Pascoli parlerà di una patria «proletaria» che si rialza dopo molti anni attraverso la conquista dell’oltremare. Ecco che nuovamente emerge il tema della Libia come sbocco naturale e compimento di un'unità d’Italia mai realmente raggiunta. E qui si aprirebbe un capitolo interessante sul Meridione, su un luogo interno alla nazione – anche dal punto di vista simbolico e di produzione di significati - che è stato conquistato come una colonia e raccontato, poi, come parte integrante della patria.

La «terra promessa» è importante anche dal punto di vista della «bianchezza»: con la conquista della Libia, infatti, l'Italia non sarebbe più considerata un Paese del Sud, ma potrebbe, sebbene in ritardo rispetto altre nazioni europee, sedersi allo stesso tavolo dell'Inghilterra, della Francia e di tutti gli altri Stati che da tempo avevano delle colonie, raggiungendo uno spessore politico, economico, sociale, culturale degno di nota sul piano internazionale. Questo è il proposito dagli immaginari coloniali che, come ben sappiamo, è lontano dalla realtà degli anni successivi alla conquista. Questi tre immaginari, esposti in maniera schematica, sono comunque connessi l'uno con l'altro e creano un archivio di memoria pubblico che forma il senso comune, per usare la terminologia gramsciana. Essi, all’indomani della conquista della Libia nel 1912 e dopo la prima guerra mondiale, sono riutilizzati dal fascismo per rispondere alle specifiche esigenze del regime.


Postcoloniale e decoloniale

L’Italia esce sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, pertanto le sorti della Libia vengono decise dalle potenze europee vincitrici (Francia e Inghilterra): è del 1947 l'accordo sulle zone di influenza nei territori libici (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan). Qui c'è già, secondo me, un primo elemento interessante e cioè che la «colonialità» continua a determinare le sorti dei territori oltre i confini d'Europa. In che maniera? Gli Stati europei continuano a definire e determinare il futuro non solo di quei territori, ma anche delle popolazioni che li abitano. Certo, nel 1949 la Risoluzione delle Nazioni Unite, anche se non dà il «via libera» immediato, fa comprendere che c'è la possibilità di un'indipendenza. Da questo momento in poi le date importanti si moltiplicano: il 24 dicembre 1951 è raggiunginta l'indipendenza sotto re Idris; nel 1953, la Libia entra nella Lega araba e poi nell'Onu; il 1° settembre del 1969 avviene il colpo di stato militare che porta Gheddafi al potere. Nel frattempo succede qualcosa di importante: i giacimenti di petrolio catalizzano l’attenzione di molte nazioni europee e non. L'Eni arriva in Libia nel 1959, mentre la compagnia britannica è già presente da molto tempo prima. Tutte dovranno fare poi i conti con la nazionalizzazione imposta da Gheddafi.

Ma ritorniamo alla questione principale: gli immaginari e l’eredità delle memorie coloniali. Che cosa rimane quindi del colonialismo o della colonialità? Beh, del colonialismo italiano rimangono dei frammenti in Italia e una memoria che, secondo me, non è stata rimossa, ma che continua a perdurare e a risignificarsi su altri corpi e in altri luoghi. Seguitare a parlare di “rimozione coloniale” è pericoloso oltre che capzioso. Dal punto di vista psicanalitico, la rimozione riguarda molti aspetti della vita del soggetto, ma il contesto coloniale – come ha insegnato Frantz Fanon e poi come chiarito da una parte degli studi postcoloniali e del pensiero decoloniale – è ineludibilmente segnato da un atto originario di violenza.

La storiografia italiana ha usato «rimozione» in molteplici e differenti accezioni, al punto da rendere non chiaro, se non incomprensibile, il significato attribuito al termine. Per la verità, neppure nelle prime formulazioni di Del Boca questo elemento era esplicito dal punto di vista dei processi di memoria. Era sinonimo di dimenticanza? Sì, certo, ma non solo. E di chi esattamente? Dell’Italia, della storiografia, del dibattito pubblico, del mondo intellettuale? Chi avvalla tale ipotesi interpretativa, dovrebbe poi spiegare in che modo chi ha commesso violenza – l’Italia – possa rimuovere il passato coloniale. E, ancora, perché sia il soggetto che agisce la violenza – di nuovo l’Italia – a rimuovere e non, piuttosto, chi l’abbia subita – le persone dei territori colonizzati. Non si capisce perché, inoltre, queste domande non siano state evase dalla storiografia: non è ancora stato chiarito come è avvenuta la rimozione coloniale.

Ora, a mio avviso si può anche accettare di usare «rimozione» in una prospettiva metonimica, come sinonimo di dimenticanza, salvo descrivere il fenomeno memoriale nei particolari ed evitando di finire a parlare di un coacervo non ben definito di processi a cavallo tra ricordo e oblio. Ma il punto è che non solamente «rimozione» è impiegato come sinonimo di dimenticanza – senza problematizzare se essa sia avvenuta veramente, e, in caso affermativo, per quali ragioni – ma anche per affermare un modello preciso: ricostruendo la storia coloniale è possibile intervenire sull’eventuale rimozione. E questo è ovviamente molto ingenuo quando non delinea – in estrema ratio – un approccio elitario al sapere storico. Ma, soprattutto, cela completamente il ruolo dell’invenzione del mondo coloniale attraverso la razza per un’accumulazione originaria – faccio qui riferimento a Fanon, e ricordo la lettura fornita da Visentin, come anche, in una prospettiva differente per il genere, al lavoro di Silvia Federici. Adottando l’accumulazione originaria come sguardo prioritario, si scopre che categorie e classificazioni coloniali relative a razza, genere, etnicità, ecc. continuano a perdurare dopo la fine degli imperi, ad essere utilizzate in contesti postcoloniali – mi viene in mente il concetto di «floating signifier» proposto da Stuart Hall da estendere ad altri marcatori dei corpi: appunto il genere, l'etnicità, l'età, ecc.

Dunque, come si fa potenzialmente a rimuovere e a ricordare insieme? Quello italiano non è un inconscio coloniale, ma un vero e proprio background culturale – parlerei di archivio coloniale nelle prospettive di Spivak, Stoler e Wekker – mobilitato continuamente per affermare il privilegio bianco. Infine, se le lingue hanno un impatto nella costruzione dell'esistente – nel processo di naming, ad esempio – è da notare che «rimozione» viene usato solo in Italia: non in Portogallo o in Spagna, non in Gran Bretagna o in Francia, né in Belgio o Olanda. Dietro al termine, incapsulata, potrebbe esserci ancora quell'idea dell'italiano «brava gente».

Ciò precisato, della colonialità europea, dell'eurocentrismo, troviamo molte tracce concrete. Provo a dare alcuni spunti. Intanto il fatto che si interpreti, da questa parte del Mediterraneo, il futuro della Libia come un discorso su di una popolazione che non ha legittimità vera e propria ad autodeterminarsi. Lo sguardo dell'Europa e più in generale del «Nord», dei «Nord», definisce un territorio che non ha raggiunto la modernità europea e quindi, implicitamente, è ancora parte di quel Sud una volta colonizzato. Questo comporta tutta una serie di questioni, come ad esempio le velleitarie ingerenze militari: ne abbiamo avuto un esempio tragico e concreto durante la presidenza di Sarkozy. E poi credo sia necessario decentrare l’eredità coloniale dal Paese colonizzato, dalla Libia, e comprendere che quello stesso archivio coloniale è usato in altri luoghi: penso, ad esempio, alla gestione del flusso migratorio nel Mediterraneo, ma anche, attraverso la rotta balcanica, sulle zone del confine orientale e, più in generale, su tutte le frontiere nazionali e all’interno del territorio italiano.

Quindi c'è un piano inclinato tra l’Europa, l’uomo bianco e quindi i processi di razzializzazione, con i territori e i corpi al di fuori dei confini europei. Qui si innesta la critica postcoloniale, cioè il poter leggere la storia in controluce, ponendo critiche ai canoni storiografici europei, cercando di usare altre lenti e sguardi molteplici, considerando, ad esempio, il colonialismo e la sua continuità in termini di eredità memoriali dopo la fine materiale del colonialismo. Ad esempio, è evidente l’esistenza di una memoria, una memoria collettiva e individuale del colonialismo – sebbene non ancorata ad esperienze dirette o del periodo – che è tramandata attraverso la visualità, l'oralità, attraverso la rappresentazione e le pratiche. Spesso, come dicevo prima, viene risignificata. Cosa vuol dire? Ho ripreso questo termine ormai diversi anni fa, declinandolo nel contesto coloniale e postcoloniale, per studiare come i canoni della differenza e dell’alterità vengano poi riprodotti, magari su altri corpi e in altri contesti, con lo stesso principio di determinare una forma di dominio su soggetti e su territori che non sono considerati al pari di quelli europei. I confronti tra le genealogie prodotte, ieri e oggi, indicano come la razza sia al centro di processi continui di accumulazione originaria.


Deprovincializzare e decolonizzare il sapere storico

Come contrastare queste risignificazioni? Innanzitutto facendo emergere le voci silenziate, marginali, rese mute, inascoltate: operazione, però, non semplice per tutta una serie di motivi storiografici. Il tema è troppo ampio e non riuscirò a trattarlo in questa sede, ma proverò ugualmente a ragionare sui limiti della produzione di sapere storico perché è proprio lì che, in maniera più evidente, si possono osservare le maggiori contraddizioni.

Il primo limite è quello delle traduzioni. È questo un argomento su cui da decenni si è riflettuto nel campo linguistico, sociologico, antropologico. Ma cosa significa traduzione dal punto di vista storico? Ad esempio, che il privilegio bianco è conservabile solamente attraverso la capacità di una lingua – intesa come eredità coloniale, fatta di categorie e rappresentazioni, come archivio – di adattare i significati ai nuovi contesti. Lo sguardo, in questo senso, deve connettere il colore della pelle alle funzioni attribuite all’uso della lingua. Non è questo un ragionamento «culturalista»: intendo, invece, dire che il colonizzato di ieri non è il migrante di oggi, ma che entrambi sono soggetti a un processo simile di razzializzazione, di accumulazione originaria. Su questo piano diacronico si scorgono parallelismi e similitudini importanti. Ad esempio, la modalità con cui gli esploratori classificavano corpi e territori, come le amministrazioni coloniali normavano i rapporti tra le diverse razze. Quell’immaginazione geografica agisce, ancora oggi, tanto nei confronti dei migranti quanto dei Paesi non europei. Non è questo un tentativo di appiattire le differenze che esistono e sono palesi tra luoghi ed epoche storiche, ma di esprimere come nel meccanismo e nei processi di traduzione si giochino le sorti della produzione di sapere storico.

Un altro limite è quello dell’onnipotenza e, viceversa, della infallibilità della storia. Davvero la storia può tutto? Davvero può salvare dal razzismo? E poi sarebbe da aggiungere: salvare chi? L’Europa bianca middle class che auspica una società multietnica, senza però rinunciare a visioni pietistiche o a moralismi nei confronti del nero e della nera? Oppure, il nero o la nera, compiendo così un atto di cristiana redenzione nei confronti di esseri – forse non considerati ancora completamente persone, almeno non come il bianco – che potranno vivere in un mondo capitalistico in cui la razzializzazione è normalizzata da un linguaggio politically correct? Non credo la storia salvi, né possa servire per cambiare il presente. Darle così tanto valore è, ancora una volta, ingenuo o elitista: sintomi del medesimo fenomeno di parlare di sé per altri, di storie di altri. La storia non serve per fare giustizia, per risolvere le contraddizioni in un Paese. Né la storia è onnipotente, ossia non può arrivare ovunque in termini spaziali e temporali. Certo, è fondamentale ricostruire i passaggi che riguardano la storia coloniale, dare loro un’interpretazione. Le cronologie definite al secondo o in ogni più piccolo spazio svelano solamente le forme della colonialità, e al massimo mostrano alcune resistenze nelle fonti prodotte dalle istituzioni. In nessun archivio coloniale si trovano formule per contrastare il razzismo: esso produce tracce di poteri differenti e di istituzioni che funzionano attraverso norme, pratiche e linguaggi.

Dipesh Chakrabartry illumina, poi, l’altro lato della questione: la storia come storia d’Europa. Le altre storie sono considerate non scientifiche o minori, comunque subordinate o subalterne. Scrive Chakrabarty: «solo l’Europa è […] intellegibile teoricamente (cioè a livello di categorie fondamentali costitutive del pensiero storico); tutte le altre storie sono ricerche empiriche che rivestono uno scheletro teorico che rimane, sostanzialmente, “Europa”». Precisa, inoltre, che la storia indiana – ma noi potremmo declinare questo ragionamento sulle ex colonie italiane e per le diaspore giunte nella Penisola – è considerata manchevole, il prodotto di un’assenza, incompleta e inadeguata. Proprio di qui, e dalla pratica di capovolgimento del sapere (Guha), è possibile osservare come le presunte mancanze, assenze, incompletezze o inadeguatezze si riferiscono agli sguardi storici di chi valuta le altre storie. Va chiarito, però, che tale inferiorizzazione delle storiografie non europee non riguarda solamente l’atto di scrivere la storia, ma concerne anche l’uso delle fonti attraverso metodologie ben codificate dalle accademie, come anche la traduzione o la scelta di tralasciare aspetti culturali e sociali (Chakrabarty porta l’esempio della sfera pubblica e privata in India). Deprovincializzare l’Europa, dunque, è un progetto storiografico: «le storie finalizzate a rimuovere l’Europa iperreale dal centro attorno al quale gravita oggi tutta l’immaginazione storica dovranno esplorare assiduamente la connessione tra violenza e idealismo che sta al cuore del processo con cui le narrazioni della cittadinanze e della modernità hanno trovato una dimora naturale nella “storia”». Adottando tale prospettiva per il contesto italiano, ci si potrebbe chiedere quanto la storia coloniale sia stata raccontata prevalentemente come storia italiana, oppure se l’uso delle genealogie della razza impiegate nell’oltremare abbiano riprodotto narrazioni storiche in cui i soggetti colonizzati sono stati ridotti a rappresentazioni; se, ancora, la linearità del tempo abbia tradotto la complessità di fenomeni differenti (colonialismo e migrazioni) secondo un preciso schema della modernità europea.

Come decolonizzare la storia? Va chiarito che «decolonizzare» e «provincializzare» sono due azioni storiografiche differenti. Per Chakrabarty «provincializzare l’Europa» significa muovere una critica radicale ai modelli di costruzione della storia secondo precisi canoni della modernità. L’atto di «decolonizzare» la storia, invece, talvolta è inteso come un processo di estrazione della colonialità, di espulsione dell’eredità coloniale dei linguaggi, dagli sguardi, dalle interpretazioni, dalla cultura e dalle menti. Tale approccio spererebbe, inconsapevolmente o razionalmente, di giungere a una nuova condizione ideale futura, senza più disparità e preconcetti. Tutta l’attenzione è centrata sulla decostruzione dei discorsi razzisti – che portano «solamente» alla nomenclatura e alle genealogie prodotte da un certo modello - ma nessuna riflessione è centrata sul sistema economico, sul capitalismo. E qui ritorna una visione universalistica, tutta europea, dove i conflitti – di ieri e di oggi – scompaiono dinnanzi all’idealizzazione di una possibile società multietnica futura. Tale ipotesi non fa i conti con il ruolo di quella storia – fatta di categorie e sguardi eurocentrici - nel contesto della modernità. Come il razzismo non è riformabile, così anche è impensabile una revisione di quel modo di fare storia.

Credo, dunque, che un punto centrale sia rimettere in discussione il pensiero storico e come è stato prodotto. Non si tratta tanto della bontà degli studi storici, ma delle pratiche e delle metodologie utilizzate. La questione non riguarda più il caso storico in sé, il passato, le fonti indagate o prese in considerazione, ma il futuro che immaginiamo, la società che vorremmo abitare e costruire. Solamente invertendo lo sguardo, spostano l’osservazione storica temporalmente in direzione opposta, in questo luogo dell’immaginazione i cui prodromi stanno nelle conflittualità e nelle contraddizioni della società contemporanea, credo sia possibile dotarsi di nuovi strumenti, di altri approcci per tornare al passato in funzione decoloniale.



Immagine: Claudio Goulart, 1987


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Gabriele Proglio è docente di Storia Contemporanea all’Università di Scienze Gastronomiche. Ha pubblicato I fatti di Genova. Una storia orale del G8 (Donzelli 2021), The Horn of Africa Diasporas in Italy. An Oral History (Palgrave 2020), Bucare il confine. Storie dalla frontiera di Ventimiglia (Mondadori 2020) e curato, insieme a collegh*, diversi volumi tra cui si segnalano: The Black Mediterranean. Bodies, Borders and Citizenship (Palgrave 2021), Debordering Europe. Migration and Control Across The Ventimiglia Region (Palgrave 2021)

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