Codici e trasgressioni nella narrativa di ogni genere (1851-1969)
Pubblichiamo uno stralcio di Letterariamente scorretto. Codici e trasgressioni nella narrativa di ogni genere (1891-1969) di Gianfranco Manfredi, in uscita a inizio 2022 per DeriveApprodi. Il libro analizza trenta opere narrative di largo consumo dalla metà dell'Ottocento agli anni Settanta. Con il progressivo allargamento del mercato editoriale, è in questo arco temporale che si definiscono nuovi generi letterari e si affermano campi narrativi specifici (il romanzo storico, oppure erotico, l'avventura, il western, il giallo, e l'horror, la commedia o il melodramma, ecc.). In un magma in cui i processi diventano sempre più rapidi e i prodotti sempre più effimeri, che senso ha parlare di correttezza e scorrettezza? I parametri imposti dalle accademie e dalla censura vengono continuamente violati da scorrettezze letterarie che diventano nuovi paradigmi, attraverso cui è possibile aderire alla rapidità dei tumultuosi mutamenti del mercato e della società. Il concetto di politically correct, pur nato dai movimenti di contestazione, implica un problematico passaggio al riconoscimento istituzionale, all’adozione cioè di un nuovo codice di riconoscimento universalmente valido. Attraverso una ricca e minuziosa analisi storica e letteraria, l’autore mette a critica le semplificazioni e schematizzazioni oggi dominanti delle forme narrative e dell’immaginario.
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In questo studio analizzeremo opere letterarie dei generi più diversi, nell’arco di più di un secolo, dalla metà dell’Ottocento, al 1970 circa. Alla metà dell’Ottocento, con l’allargamento del mercato editoriale, cominciano a definirsi generi letterari nuovi e diversi dalla tradizionale ripartizione aristotelica (tragedia, commedia, epica, lirica). I generi vanno progressivamente a identificare dei campi narrativi specifici (il romanzo storico, l’avventura, il western, il sensational novel antenato del giallo e dell’horror, la commedia o il melodramma sentimentali, il romanzo erotico eccetera). Grazie alla definizione di tali campi, il lettore può conoscere in anticipo quale tipo di romanzo sta acquistando. Certo si tratta di un’indicazione sommaria perché all’interno di un genere possono confluire elementi disparati, e ogni singolo romanzo di genere può esprimere una diversa declinazione del genere stesso, sia nella fase della formazione dei generi, sia nella fase della loro proliferazione che comporta la creazione di una fitta rete di sotto-generi. Con l’avvento del cinema la ripartizione dei prodotti in generi e sottogeneri diventa assai più accentuata e va a stabilire un rapporto molto stretto tra domanda e offerta: dimmi quale tipo di prodotto vuoi e ti approvvigionerò. Non si va più al cinema, si va a vedere quel genere di film (il che non significa vedere soltanto quel genere di film). Nelle varie fasi, la produzione può orientarsi su un certo genere o su certi generi rispetto ad altri, perché in quel determinato momento tali generi «funzionano» più di altri sul pubblico, perché alcuni tramontano e altri si impongono. Ogni genere conosce la sua golden age, che prelude a una fase di relativo declino e/o di profonde trasformazioni. A questo si aggiunge una divisione in target (per adulti o per l’infanzia, per gli uomini e/o per le donne, per le famiglie, per raggruppamenti sociali e/o culturali di vario tipo). Ciò ha un impatto significativo sulla letteratura. Dalla letteratura industriale (produzione quantitativa su larga scala di libri) si passa alla fase correlata, ma successiva, della letteratura commerciale che comincia a distinguere qualitativamente, non necessariamente in termini estetici, ma sulla base del contenuto dei libri. Da un lato la letteratura si allarga a fasce sempre più ampie e diversificate di lettori, dall’altro si specializza per gusti, orientamenti, etichette, varianti interne. Su tali percorsi di trasformazione non incidono soltanto le mode, i cambiamenti del costume, i nuovi orientamenti in materia religiosa, morale, sessuale, politica, scientifica, ma anche e soprattutto le grandi trasformazioni storiche (la guerra, l’incidenza crescente della tecnologia sulla vita quotidiana, lo sviluppo del sistema mediatico, le lotte per i diritti civili e sociali, i flussi migratori, le crisi economiche e le fasi di boom eccetera). I processi diventano sempre più rapidi e i prodotti sempre più effimeri. Le classifiche dei bestseller nascono negli anni novanta dell’Ottocento. Al principio sono mensili e non distinguono neppure tra fiction e non-fiction, con il tempo diventano settimanali, si separa la narrativa dalla saggistica, è sempre più raro che un romanzo resti in classifica per due anni di seguito, e diventa invece piuttosto abituale che certi autori restino per molti anni in classifica con opere diverse, costituendo cioè essi stessi un riferimento per il pubblico, ma al contempo costretti a continuare a sfornare novità per poter restare in classifica. Le opere sono più effimere degli autori, eppure anche gli autori di bestseller possono scoprirsi, già in vita, effimeri. In questo magma in continua trasformazione, quale senso ha parlare di correttezza e scorrettezza? I parametri di correttezza non sono soltanto indicati dalle accademie, sono vincoli allo scrivere che si esprimono assai concretamente in processi di selezione del pubblicabile, di limitazioni e di censure, di punizione ai trasgressori di questo codice. Eppure, nella società di massa, i cambiamenti delle condizioni di vita, l’azione dei soggetti sociali, il mutare delle mentalità, rendono tale controllo sempre più precario. L’allargarsi stesso a sempre nuove fasce di lettori, e su scala globale, del mercato editoriale, implica continue e progressive scorrettezze, anzi, sotto questo punto di vista, la scorrettezza può diventare un paradigma, e creare un paradosso: diventare la forma estrema della correttezza. Se non sei scorretto non puoi aderire alla rapidità dei mutamenti, se non sei scorretto non crei nuovo mercato, se crei un prodotto corretto, ma desueto, esci dal mercato. Il concetto di politically correct, va ricordato, nasce in contrasto con gli statuti del «pensiero dominante», come espressione di movimento, come contestazione dal basso di visioni classiste, razziste, sessiste, discriminatorie ed escludenti. Ma va anche ricordato che esso corrisponde altresì a un’esigenza di rinnovamento del mercato, e tende a costituirsi in un assetto regolamentare. Tale tendenza implica necessariamente il passaggio dalla contestazione al riconoscimento istituzionale, e dalla scorrettezza, voluta, cercata, programmatica, all’adozione di un nuovo codice di correttezza universalmente valido. In una Lettera del 7 luglio 2020, più di centocinquanta intellettuali, tra i quali Martin Amis, Marie Arana, Margaret Atwood, Noam Chomsky, Wynton Marsalis, Steven Pinker, J.K. Rowling, Salman Rushdie, hanno chiarito che la giusta battaglia culturale contro discriminazioni e diseguaglianze, deve tener conto di un fenomeno parallelo e altrettanto rilevante, cioè la limitazione del «libero scambio delle informazioni e delle idee», le crescenti istanze censorie, l’intolleranza, l’attitudine all’ «ingiuria e all’ostracismo», e «la tendenza a dissolvere la complessità delle problematiche politiche in una cieca certezza morale». La Lettera si conclude così:
Il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso la spiegazione, l’argomentazione e la persuasione, non cercando di zittirle o espellerle. Rifiutiamo ogni falsa scelta tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lasci spazio per la sperimentazione, assumendosene i rischi e persino gli errori. Dobbiamo preservare la possibilità di un disaccordo in buona fede senza conseguenze professionali nefaste. Se non difendiamo le basi fondamentali del nostro lavoro, non dobbiamo aspettarci che il pubblico o lo Stato le difendano per noi[1].
L’appello, come si vede, è anzitutto un invito agli scrittori a difendere le basi del loro lavoro, in prima persona e in libera associazione con altri scrittori. Il paradosso della nostra epoca è evidente: da un lato, attraverso la rete, tornano di dominio pubblico e a disposizione di un numero crescente di lettori nel mondo, testi che il normale mercato editoriale aveva di fatto marginalizzato, o lasciato cadere nel dimenticatoio, in virtù di qualche presunta selezione naturale, in realtà di mercato; dall’altro, contemporaneamente a tale espansione, e quasi per reazione ad essa, si stilano da varie parti e per i più diversi motivi nuovi Indici dei Libri Proibiti. Da un punto di vista teorico è come se si proclamasse la Superiorità dei Posteri in termini suprematisti. Che i posteri vengano dopo, non significa di per sé che siano superiori, anzi molti studi hanno rimarcato, in molte fasi storiche, processi culturali (e non solo) di tipo regressivo. Che i posteri tendano ad emettere sentenze è ovvio, ma dimenticare che tali sentenze sono ardue ed esposte a errori, è semplicemente stupido. Inoltre tali sentenze possono facilmente entrare in conflitto tra loro e con le proprie stesse motivazioni. Un esempio: è certo che il percorso e il ruolo delle scrittrici nella Storia della letteratura, è stato nei secoli ostacolato. Per più di un secolo molte scrittrici hanno usato pseudonimi maschili onde poter pubblicare senza subire il discredito di radicati pregiudizi. Riscoprire molte opere di scrittrici ingiustamente marginalizzate da accademie a egemonia maschile, rende loro giustizia, nel senso di restituire loro il ruolo che hanno davvero storicamente avuto. Dunque, in questo caso, l’atteggiamento critico nei confronti del passato comporta inclusione, invece di esclusione. Ma se nel merito delle opere si distinguono le scrittrici sulla base di criteri contemporanei di femminismo accettabile, discutibile, sviante o del tutto assente, il risultato contrasta con l’intento, creando nuove esclusioni sulla base di criteri ideologici. Ci sono state scrittrici chiaramente femministe, ma contrarie al suffragio femminile; sostenitrici della causa delle lavoratrici, ma incline alla «domesticità»; scrittrici a favore della libertà sessuale e scrittrici che la condannavano. Riscoprire il ruolo delle scrittrici non deve significare perdere di vista la diversità delle singole autrici e delle loro inclinazioni nei confronti di tematiche controverse oggetto di pubblico dibattito, a meno che non si vada in cerca dell’Eterno Femminino, smarrendosi nei suoi labirinti, invece di considerare le donne come soggetti storici reali e come soggetti individuali presenti al loro tempo. Chiarire i diversi punti di vista, non deve significare, dal punto di vista della ricerca storico-culturale, stabilire discutibilissime gerarchie premiali o di rifiuto. E infine: all’interno delle stesse opere possono essere ospitati punti di vista, su certi argomenti, del tutto opposti. In questo studio, si considererà per esempio la scrittrice spagnola Emilia Pardo Bazàn, che era schierata al contempo sul fronte dei diritti femminili e sociali, e su posizioni apertamente razziste e antisemite. Viviamo in un’epoca nella quale alla complessità si tende a reagire con schematizzazioni e semplificazioni estreme, binarie (questo sì, questo no) e mistificanti (la presunzione del cercare percorsi univoci, invece che intrecciati e/o contraddittori). Riguardo al giudizio sul passato, com’è noto, due sono le principali linee di pensiero: la prima rivendica la libertà di giudizio, di critica e di contestazione di opere o passaggi di opere che offendono la coscienza e la sensibilità di soggetti sociali emergenti e non più disposti a subire; la seconda invita a situare tali opere e passaggi nel loro contesto storico-culturale. Vediamole. La prima non è certo nuova. Nel femminismo militante degli anni 70, per esempio, l’attacco al maschilismo di molti scrittori non solo era giustificato, ma consentiva una sempre più larga presa di coscienza sociale dei meccanismi di distorsione ideologica. Un esempio fra i tanti, il saggio di Liliana Caruso e Bibi Tomasi, I Padri della Fallocultura. Il libro è dedicato «alle donne oppresse e soppresse sul fronte domestico lavorativo stradale». Scrive Gabriella Parca nella Prefazione:
Sulla scia di Kate Millett, che ne La politica del sesso ci aveva dato un saggio acuto e lucido sulla reale misoginia di quegli scrittori che magari passavano per grandi «amatori» nel limbo magico della creazione artistica, Bibi Tomasi e Liliana Caruso rivedono criticamente i nostri maggiori autori e la loro concezione del rapporto uomo-donna. Da Moravia a Pavese, da Brancati a Cassola, da Berto a Soldati, i mostri sacri della nostra letteratura vengono affrontati non più sulla base dei canoni estetici, per un giudizio sul loro valore letterario, ma in base ad un’analisi psico-sociologica dei loro personaggi maschili e femminili[2].
Il valore letterario è fuori questione, non si mette in dubbio il livello degli autori, se ne critica la concezione «fallocratica» del rapporto uomo-donna. Si crede che criticare una mentalità e un’ideologia radicate, sia sufficiente a superare la condizione reale di sudditanza femminile? Assolutamente no. Anzi, è proprio dal punto di vista delle donne come soggetto storico reale e del movimento cioè della loro azione, che si possono e si devono mettere in luce le distorsioni, e il tratto dominante, di potere, del pensiero maschile. Casomai si può obiettare a un’altra cosa, cioè la riduzione delle opere al contenuto o più esattamente la riproposizione della vetusta, e molto italiana, contrapposizione accademica fra forma e contenuto. La seconda linea di pensiero, potremmo definirla giustificazionista, in quanto, invitando a considerare il contesto storico-culturale, tende ad assolvere ciò che sovente ripugna a lettori contemporanei socialmente e politicamente consapevoli. Va osservato che quando, da un punto di vista storico-critico, si parla di contesto, non ci si può consentire vaghezza alcuna. Il contesto non deve riguardare soltanto opere simili, ma anche opere difformi. Nello stesso contesto, c’è chi si esprime in un modo e chi in un altro, ci sono scrittori che sposano pregiudizi diffusi e altri che li combattono. Inoltre, il contesto di un’opera letteraria si deve valutare anche attraverso la rete di riferimenti contestuali presenti nell’opera stessa. Riguardo alle opere del passato, molti riferimenti contenuti in esse, espliciti ai lettori dell’epoca, risultano impercettibili ai lettori contemporanei, vanno dunque ricostruiti pena il travisamento dell’opera stessa. Tali riferimenti sono sovente al contempo estetici, culturali e politici (nel senso sopra indicato). Non esiste estetica neutra, sostenere questo significa ignorare la storia dell’estetica. «Scrive benissimo, ma scrive cose ripugnanti» è un giudizio superficiale, perché non considera che sul terreno estetico si sono condotte battaglie politiche. Di nuovo, la rozza spartizione tra forma e contenuto, è essa stessa una finzione ideologica.
Veniamo al tema correttezza-scorrettezza. Un primo livello problematico è quello delle idee, in riferimento a mentalità diffuse, cioè idee-opinioni. Su questo piano, la coppia oppositiva correttezza-scorrettezza corrisponde nel dibattito contemporaneo a quella che per secoli si è definita come ortodossia-eterodossia. A posteriori, si è giustamente rilevato come l’ortodossia abbia fatto più danni dell’eterodossia, perché alla base negatrice della diversità e degli sviluppi trasformativi, del divenire del pensiero. D’altro canto, di eterodossie ce ne sono state di ogni tipo: ancor più reazionarie di quelle conformisticamente conservatrici; revisioniste in quanto mistificatrici di principi basici; deliranti, nel prospettare come positivi orizzonti nefasti; confusionarie nel senso di accogliere senza verifica e mescolare le soluzioni più disparate, come al mercato dell’usato ideologico. Ne consegue che il dibattito tra ortodossia ed eterodossia si è fatto nel tempo sempre meno legato agli assoluti e sempre più relativo. Quale ortodossia? Quale eterodossia? Dipende dai casi e dagli ambiti considerati. Un altro livello è quello dei comportamenti che, nella Storia, cambiano anche indipendentemente dalle idee, perché connessi ai cambiamenti delle condizioni di vita. Qui la coppia correttezza-scorrettezza può parzialmente corrispondere alla coppia adattamento-ribellione. Anche qui, se non si specifica di quale adattamento, quale ribellione, quale resilienza, quale resistenza si parli, non si cava un ragno dal buco. In letteratura, la situazione è ancor più complicata. Sul piano della mera correttezza di scrittura, si sa che scrivere «un altro» con l’apostrofo è scorretto, ma se si scrive un romanzo che include conversazioni via social media, riportare gli errori diffusi è espressivo, e per certi versi anche corretto, in quanto si documenta l’esistente senza alterazioni. D’altro canto si possono ospitare in un testo una quantità di espressioni gergali, e persino inventare parole; rientra tra le facoltà e i compiti della scrittura anche quello di creare lingua. Molta correttezza contemporanea, editorialmente parlando, ha marginalizzato di fatto lo sperimentalismo, ha appiattito i diversi linguaggi in un basic standardizzato, avvilendo le potenzialità espressive della lingua, per un’idea del «semplice da leggere» che coincide con il «semplicismo dello scrivere». Qui non mi occuperò dei grandi capolavori della letteratura novecentesca che hanno ridefinito profondamente la stessa forma romanzo, né, se non occasionalmente, delle avanguardie che hanno trasformato il linguaggio letterario sperimentando forme, strutture e stili radicalmente innovativi rispetto alla precedente tradizione del romanzo. Qui mi occuperò, come sopra indicato, di una narrativa di largo consumo, ma non necessariamente di besteller, offrendo anche esempi di opere generalmente considerate minori o assai particolari, ma che bene illuminano come nemmeno nei romanzi di genere, destinati a un pubblico largo e/o di target, sia assente una buona dose di sperimentalismo, inteso come pratica della scorrettezza rispetto ai canoni prescritti, come deviazione dal tracciato delle regole di genere, come invenzione di soluzioni narrative insolite, come scelta di tematiche trattate, al limite o oltre il confine del pubblico scandalo. Tali opere possono rappresentare un’alternativa a quel tipo di correttezza odierna che consiste nell’aderire passivamente a codici narrativi standardizzati, e in qualche caso anticipano la tendenza altrettanto contemporanea, ma opposta, cioè quella di una letteratura della contaminazione non riconducibile all’interno del sistema codificato dei generi e neppure in toto nell’ambito, anch’esso di genere, della letteratura d’autore predestinata ai premi ufficiali, ai riconoscimenti accademici e a un target elevato di lettori forti ed estremamente esigenti e consapevoli (i lettori d’essai, ci si passi la definizione). I trenta romanzi che qui si propongono a titolo esemplare, mostrano come la definizione dei generi letterari sia stata un processo assai laborioso, caratterizzato al contempo da un’esigenza di definizione specifica di un ambito narrativo rispetto ad altri, e da una congerie di elementi-ingredienti ricavati da altri ambiti e contaminati secondo criteri mutevoli. Le scorrettezze che qui documento sono di ogni tipo, al punto che si può dire che ogni genere specifico nasce dalla scorrettezza rispetto ai codici del passato, e si nutre di scorrettezza nel suo attuarsi. Ogni correttezza raggiunta nel proporre un modello più o meno rigido che possa essere diffuso, imitato, e costituire una tradizione, comporta un recupero di scorrettezza necessario sia al singolo autore per distinguersi, sia al genere per non invecchiare e tramontare nella ripetizione di un modulo fisso. In altre parole, proprio la letteratura che consideriamo più «modulistica» non può dimenticare e lasciarsi alle spalle la sua origine scorretta, pena il morire. La stessa tecnica letteraria non è più tale se si limita ad applicare tecniche ereditate, senza inventare tecnica, svilupparla, condurla a risultati imprevisti. Fino al 1900, i romanzi qui considerati sono scorretti non tanto e non solo per certi passaggi intrinseci, ma in quanto trasgrediscono o conducono «oltre» dei moduli letterari tradizionali, costituiscono dunque esempi di romanzi all’apparenza di genere, ma sconfinanti su territori imprevisti. Con il passaggio al nuovo secolo la produzione di opere programmaticamente urtanti sia nei confronti del comune senso del pudore, sia dei valori dominanti dell’epoca, aumenta a dismisura. L’elemento di trasgressione rispetto ai generi rigidamente intesi, permane, ma quello che prevale è l’effetto scandalo, nel trattare temi proibiti (omosessualità, razzismo, sfruttamento, abuso di droghe, violenza esasperata e perversioni di vario tipo). La censura che ne consegue non è più semplicemente operata dalla critica letteraria (in forma di biasimo) o dalle accademie (in forma di esclusione), ma dallo Stato. La correttezza di Stato, imposta dall’alto e applicata dai tribunali, si è rivelata per fortuna impotente. Invocare una correttezza di Stato (è bene ricordarlo) è da un lato pregiudizievole della libertà letteraria, dall’altro è tentativo del tutto velleitario. Assai meno velleitario è il tentativo in atto di ridurre la letteratura a prodotto medio da consumo medio, di omologare il gusto, di svilire i soggetti reali, le loro diversità, di espellere dal mercato il non-conforme. Questa è la vera cancel culture in atto, che trita ogni specificità producendo immondizia indifferenziata. Ad essa va contrapposta, riguardo al passato, la riscoperta e la nuova inclusione nel circuito del sapere, di opere difformi. In tali opere che contestavano apertamente e spesso provocatoriamente gli statuti della pubblica morale, in un periodo di grandi cambiamenti della mentalità e della sensibilità, ci sono talvolta elementi che è assai difficile oggi giudicare libertari, e che nella sovversione scandalosa, possono anche conservare e persino dilatare pregiudizi radicati. Di fronte a queste opere, cercare di «aggiustarle» o di ricondurle a una nuova forma di correttezza, costituisce una forma particolare di negazionismo, che è il negare le contraddizioni, cioè implica il presumere che in fasi di turbolenti cambiamenti, si possano rimuovere i contrasti non solo dal passato, ma anche dal presente, occultando il fatto, oggettivo, che in ogni giusta istanza e spinta di trasformazione, permane e si riproduce l’ingiusto, magari trascurabile in fase nascente ed espansiva, ma evidente nei suoi aspetti repressivi quando viene codificato e riconosciuto come norma. Aspirare a nuove forme di dogmatismo è persino peggio del buttare via il bambino con l’acqua sporca, è buttare il bambino e tenersi l’acqua sporca. Il problema che mi sono trovato di fronte ha riguardato l’organizzazione espositiva di questo studio. Sarebbe stato certo più semplice, per il lettore, se avessi distinto in due diverse parti le devianze considerate, da un lato quelle relative (percorsi di ridefinizione dei generi), dall’altro quelle assolute (cioè l’aperta violazione dei codici dello story-telling e in particolare di quelli morali). Sarebbe anche stato più ordinato raggruppare le opere per temi (sessualità, politica, uso e abuso di droghe, razzismo eccetera). Ho però infine considerato preferibile un criterio cronologico, per due motivi: 1) la ridefinizione dei generi e la sovversione dei codici prescritti sono fenomeni concomitanti e sovrapposti, e la data di pubblicazione non è indifferente per l’illustrazione storico-critica di tale percorso; 2) una pluralità dei temi percorre le singole opere, anche quelle più decisamente incentrate su un tema specifico, considerarle dunque alla luce di un tema dominante, significa impoverirle e rinunciare a individuare le connessioni tra i temi stessi e tra opere all’apparenza assai diverse. La contestualizzazione delle opere implica considerarne la sequenza temporale, e insieme la rete di rimandi contenuti nelle opere e individuabili, anche per differenza o opposizione, tra le opere. Ogni classificazione esterna del materiale rischia di costituire un presupposto ideologico, un orientamento predeterminato del lettore. Seguire i percorsi nel loro procedere errabondo, dà modo di cogliere meglio l’insieme e di favorire la libertà di giudizio del lettore.
Tra il semplice e il complicato è sempre meglio il semplice, dal punto di vista della chiarezza dell’esposizione, ma se il semplice conduce alla semplificazione, allora è molto meglio dare conto della complessità. Se la semplicità è correttezza, molto meglio essere scorretti.
Note [1] A Letter on Justice and Open Debate, «Harper's Magazine», 7 July 2020 [2] Liliana Caruso, Bibi Tomasi, I Padri della Fallocultura, SugarCo, Milano 1974.
Immagine: Sergio Bianchi
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Gianfranco Manfredi (1948) è stato uno dei cantautori più importanti del decennio Settanta. Romanziere, sceneggiatore cinematografico e televisivo, autore di fumetti, non ha mai abbandonato l’attività saggistica, dal suo primo studio L’amore e gli amori in Jean Jacques Rousseau (1978), a numerosi scritti sulla storia e i protagonisti della musica pop italiana, fino al saggio sul 1977 Ma chi ha detto che non c’è (2017), e al recente C’era una volta il popolo. Storia della cultura popolare (DeriveApprodi 2021).
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