Le rivolte urbane del XXI secolo
Presentazione del corso dell'Università Parallela di Docks

Questo scritto è un estratto dal libro di Massimo Ilardi Le due periferie. Il territorio e l’immaginario (DeriveApprodi 2022) e può servire da presentazione al corso di quattro lezioni dal titolo Le rivolte urbane del XXI secolo che lo stesso Massimo Ilardi terrà nel mese di novembre (nei giorni 9-16-23-30 dalle 17.00 alle 19.00) nell’ambito dell’Università Parallela di Docks. Gli argomenti trattati nel corso, e cioè le rivolte urbane, le culture del consumo, le pratiche di libertà, la centralità del territorio, la società democratica e il potere destituente, sono anche qui presenti e strettamente collegati.
Per informazioni sul corso scrivere a: docksaps@gmail.com.
Qui l'articolo che spiega il progetto di Docks.
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1981-2021: quarant’anni di rivolte urbane hanno attraversato le grandi aree urbane dell’Occidente annunciando la fine dei movimenti sociali. Il conflitto si trasforma in rivolta che, a differenza dei movimenti, non mira ad abbattere il sistema, non costituisce soggetti né istanze politiche che riescano a dare un futuro, una forma e una organizzazione alla contingenza della lotta. Sono invece le culture di strada, le forme di vita disegnate dal consumo e le pratiche di libertà ad esse connesse a opporsi alle regole che il mercato cerca di dispiegare sul territorio per governare le metropoli del mondo. Il punto di rottura con la politica è quando i rivoltosi, invece di dirigersi minacciosi verso la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno, cominciano a prendere d’assalto gli shopping mall dei loro quartieri o a occupare i territori dismessi delle periferie per organizzare centri sociali o rave illegali. La catastrofe della politica sta nel non aver capito questo salto d’epoca: nel non aver colto che, da quel momento in poi, la necessità non è più dettata dalla storia ma dal consumo o dalla libertà, non risponde più all’assoluto ma ai desideri del presente; e che il conflitto non è più strumento istituzionale, non è più pilotato dalle ferree leggi del processo storico, ma dal connubio esplosivo di pratiche di libertà e culture del consumo che espellono la politica e trasformano il conflitto in scontro incondizionato, totalmente privo di norme e garanzie come incondizionati e privi di norme e garanzie sono il consumo e la domanda di libertà.
Sono individui o piccoli gruppi ad agire: joy riders, yobbos, casseurs, motards, beurs, squatters, kraakers, black bloc sono alcune delle figure sociali che, nel corso degli ultimi decenni, hanno acceso la miccia delle rivolte partite quasi sempre dai quartieri periferici delle grandi concentrazioni urbane. E le rivolte non parlano, non scrivono, non stendono manifesti. I nemici sono le istituzioni e la polizia con i suoi metodi repressivi, gli obiettivi non sono mai il lavoro, l’uguaglianza o la speculazione immobiliare ma la libertà sulle strade, l’amore sconfinato per una violenza senza politica, il saccheggio sistematico di merci e centri commerciali che inserisce queste figure sociali dentro la cultura del consumo e li allontana da ogni rischio di determinismo economico. La rivolta non rivendica vittorie né piange sconfitte. Va considerata per quello che è, nella sua autonomia e nei rapporti che stabilisce, non con il tempo come la rivoluzione, ma con il territorio, con la sua assoluta ed esasperata esperienza del territorio. Perché rivolta e domanda di libertà coincidono e la libertà si misura appunto dal territorio che riesce ad attraversare fuori dalle istituzioni che vogliono responsabilizzarla e dalla legalità che vuole limitarla. Nella rivolta invece tutto è permesso e di conseguenza le pratiche di libertà trovano qui, nei luoghi dove esplode, il massimo dispiegamento. La stessa domanda di libertà, che non è mai astratta e universale, si riferisce sempre, come la rivolta, a luoghi e a tempi reali. Ecco perché il ribelle contemporaneo, a differenza di quello jungheriano, non sceglie di «passare al bosco»: non può farlo perché non ci sono più «meridiani zero» da varcare, non ci sono più boschi, né altri luoghi di esilio dove fuggire e dissociarsi. Si muove invece in un luogo e in un tempo precisi e risponde sempre alle domande: dove chiedere libertà? Come raggiungerla? Quando? Essere ribelle non segue coattivamente alcuna legge di natura e non appartiene ad alcun ordine esistenziale (non si nasce ribelli) ma si origina e si forgia sul territorio, su quel territorio, e si spegne quando le cause che generano quello stato d’animo spariscono. La libertà, dunque, non è un viaggio interiore che si può fare ovunque. Afferma Spartaco, lo schiavo ribelle: essere liberi sì ma a Roma e non nel nulla. Questa è sempre la posta in gioco di ogni rivolta che si muove in quello spazio e solo in quello in cui specifiche forme di dominio o di condizioni materiali determinano lo stato di necessità che spinge appunto alla rivolta.
[…] Si tratta di lotte anarchiche che attaccano una forma e una tecnica di potere che vogliono destituire e, dunque, hanno come fine gli effetti di potere in quanto tali, di cui il principale è il controllo dei corpi e del territorio; sono dunque conflitti orizzontali per la libertà e il riconoscimento; poi, sono lotte «trasversali», vale a dire che non sono circoscritte a un solo paese; e, infine, «sono lotte immediate – come scrive Foucault – per due ragioni. Attraverso queste lotte gli individui criticano le istanze di potere a loro più vicine, quelle che su di essi esercitano la loro azione. Gli individui non cercano il "nemico principale", ma il nemico immediato» (1983, p.240).
[…] Nel mettere al centro il territorio nelle proteste sociali non voglio certamente negare l’importanza della rete e dei social che hanno la funzione determinante di rendere visibili le rivolte e molto spesso di organizzarle. Ma qui mi interessa la strada e non un’estetica della strada, mi interessano le azioni e i comportamenti dei corpi sulla strada e non un’estetica dei corpi che lottano contro il potere, perché la rivolta è fatta di corpi concreti che non possono essere prodotti dalla comunicazione o dal digitale la cui energia è essenzialmente deterritorializzante. Ma soprattutto mi interessano le pratiche di libertà che non sono mai angeliche, non volano tra gli intelletti astratti, non attraversano le reti, non rivendicano l’interiorità delle persone ma percorrono il territorio e lo frantumano in luoghi.
Nel lungo elenco delle periferie investite dalle rivolte di questi ultimi decenni mancano quelle delle grandi città italiane. Perché? […] C’è, secondo me, un motivo che è vero più degli altri e che illumina la calma piatta non solo delle nostre periferie ma di tutto il territorio metropolitano. Dentro il processo di modernizzazione delle società occidentali, nella seconda metà del secolo scorso, la differenza italiana stava proprio nel connubio esplosivo tra cultura politica di massa e agire per fazioni che frantumavano questa radicalità sociale fino a portarla a livello individuale o di piccoli gruppi: messe insieme queste due tendenze produssero una stagione lunga e violenta di conflitti sociali che non ha avuto riscontro nell’area occidentale e che permise a questo paese di essere all’avanguardia nell’innovazione culturale. Non è che oggi non esistano più la conflittualità e la violenza, quella che è scomparsa totalmente è invece una cultura politica di massa che ha prodotto come conseguenza una microconflittualità diffusa che però non ha più l’intensità, la diffusione, la forza di concentrazione che solo quella socializzazione politica, che traduceva cultura e conflitti direttamente in azione politica, era in grado di dare. La stessa cultura italiana a partire dagli anni Ottanta del Novecento, scrive Douglas Mortimer, «si è ritrovata orfana dell’unico filtro – la politica appunto – che la può mettere in grado di raffigurare simbolicamente il conflitto e il mutamento sociale. Una cultura che non sa leggere, rappresentare, anticipare luoghi e forme in cui il conflitto si dispiega è una cultura agonizzante se non morta. Nel ventennio preso in esame [1960-1980] invece è proprio la pratica di una violenza comunque sentita come politica e l’esigenza di una sua rappresentazione che connette la produzione culturale con la realtà di una nuova società» (2013, p.23).
Oggi si deve partire dalla consapevolezza che l’avvento del primato del consumo e di internet ha polverizzato l’azione politica, l’ha localizzata innestandola, nelle poche volte che riesce a operare, nelle vite delle persone e nella loro quotidianità. Questo ha comportato, da una parte, la mancata formazione di una leadership e, dall’altra la scomparsa dell’agire collettivo: non ci sono più classi, non c’è più popolo, quello che una volta veniva definito il popolo delle periferie, non c’è più società. Gli individui si dividono e si raggruppano in una miriade di minoranze sociali che sono l’aggregazione più immediata dove si coagula e si organizza oggi il senso di un gruppo, della sua azione, dei suoi interessi. È una forma dell’agire, un precipitato microsociale quello di organizzarsi in minoranze o fazioni che destruttura le tradizionali categorie e le vecchie strutture che dividevano e insieme legavano la società del moderno (appunto i ceti, le classi, i movimenti, il popolo, la moltitudine) e riorganizza sul territorio le relazioni sociali con strumenti e obiettivi diversi rispetto alle costanti e ai modelli del passato. È il sintomo di nuove contrapposizioni e di una forma di soggettivazione più conseguente alle modificazioni del tessuto sociale. […]
La politica, se di politica si può ancora parlare, si trasforma allora non più in attuazione di un programma ma in produzione di territorio e presidio di uno spazio sociale. Un luogo diventa il risultato di azioni e di relazioni sociali. Ma non sono le azioni e le relazioni ad assegnargli un senso, bensì il fatto che quelle azioni e quelle relazioni sono territorialmente determinate. Dunque, un luogo non é ereditato dalla storia o dalla memoria, ma é sempre una conquista sociale seppure intrinsecamente fragile perché legato alla capacità di una minoranza e della sua cultura di conoscerlo, nominarlo e soprattutto di perimetrarlo. Di produrlo materialmente. La trasformazione dello spazio neutro in luogo é, dunque, un atto di forza che implica l’affermazione di un potere sociale organizzato che si esercita su posti e contesti determinati che si muovono su una linea di confine molto stretta dove legalità e illegalità, politica e antipolitica, violenza e azione risoluta si confondono senza trovare molto spesso una soluzione. […]
Il territorio, dunque, non é mai considerato un bene comune ma il risultato di particolarismi in lotta tra loro e la cui misura e forma si rendono spazialmente visibili attraverso separazioni, esclusioni, enclavizzazioni. […] Ma l’essere contro ha un senso solo nell’essere dentro per riuscire a sfruttare al massimo tutte le risorse che il sistema concede anche se questo comporta la chiusura definitiva dentro un recinto. Qui sta la potenza distruttiva di questi particolarismi, non rispetto al sistema ma alle sue procedure di governo e alle sue regole di controllo.
La conseguenza è una frammentazione di poteri (chi predomina e comanda a prescindere dal consenso) che si guardano bene però di assumere una veste e una organizzazione da contropotere ma cercano invece di ritagliarsi spazi di autonomia e di sfruttamento delle risorse dentro la crisi delle istituzioni e della loro capacità di governo. Un fenomeno, tra l’altro, che anche qui segnala il fallimento di ogni sintesi o di unità. E lo spazio proietta concretamente questa dimensione, ne è espressione. E così il comune, la comunità, il collettivo, lo stare insieme e altre simili utopie/distopie se vogliamo a tutti i costi andarle a cercare non ci resta che farlo nelle reti.
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Massimo Ilardi ha insegnato Sociologia Urbana presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, Università di Camerino. È stato direttore delle riviste «Gomorra» e «Outlet». Tra le sue ultime pubblicazioni: «Sinistra. La crisi di una cultura» (manifestolibri 2019), «Le due periferie. Il territorio e l’immaginario» (DeriveApprodi 2022).