La democrazia al servizio dell'apartheid israeliano
- Saree Makdisi
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È recentemente uscito per DeriveApprodi La tolleranza è una terra desolata. Come si nega un genocidio di Saree Makdisi. Il libro risponde ad una domanda: come può un progetto violento di espropriazione e discriminazione essere immaginato, sentito e profondamente creduto come se fosse l’esatto opposto, ossia un’incarnazione di sostenibilità, inclusività e tolleranza multiculturale? Al centro dell’analisi è lo Stato di Israele, da sempre difeso dai paladini dell’Occidente come presidio di democrazia e progresso in Medio Oriente.
L'estratto che pubblichiamo oggi, come suggerisce il titolo, spiega come il mantra dello «Stato-ebraico-e-democratico» sia cruciale per il diniego – e quindi per la persistenza – dell'apartheid imposto. Come scrive Makdisi, «affermando la democrazia ebraica (un valore positivo), si sta contemporaneamente sostenendo uno Stato razziale e una discriminazione razziale (una realtà negativa)».
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Cosa significa esprimere una situazione politica concreta in termini di «sogno» o «visione», «miracolo » e così via – termini questi che emergono costantemente in tali resoconti su Israele? Dopo tutto, nel più famoso riferimento politico a un sogno, il discorso I have a dream di Martin Luther King, il sogno dell’uguaglianza razziale è certamente una visione di un futuro, non di un presente. La maggior parte dei riferimenti al «sogno» di uno Stato ebraico e democratico, tuttavia, indicano una condizione presente, sebbene essa sembri un sogno o una visione e non essere realmente presente; ecco perché è un sogno, dopotutto. Ma, per continuare su questo punto, cosa significa riferirsi a un sogno più e più volte? Che tipo di strategia propone in sé questa affermazione? La ripetizione funziona come si dice che funzionino certi incantesimi magici: più ripeti l’incantesimo, più reale sembra essere il desiderio ripetuto? Oppure il semplice atto della ripetizione svolge il tipo di lavoro che fa una di quelle luci di emergenza azionate a manovella: si illumina finché giri la manovella, ma inizia a spegnersi non appena rallenti o ti fermi? La ripetizione stessa è necessaria per il proposito di affermazione che intende svolgere? Perché, non a caso, la semplice ripetizione dell’affermazione dello «Stato ebraico e democratico» è, come atto, di per sé sorprendente una volta che la si nota e si inizia a seguirla: una ripetizione non solo all’interno dell’intero ambito politico, ma anche all’interno di particolari discorsi. Come minimo, è una specie di copione che, come in qualsiasi film di Hollywood, ci aiuta volentieri a contenere la nostra incredulità. [...]
D’altro canto, bisogna continuare a ripetere il mantra per crederci! Perché questa proposta di uno Stato ebraico e democratico diventa credibile solo quando viene affermata più e più volte: l’atto stesso dell’affermazione genera e sostiene lo stato onirico della fede come in una specie di trance. I numerosi riferimenti a «sicuro» e «diritto di esistere» che invariabilmente accompagnano la ripetizione – «il diritto di Israele di esistere come Stato ebraico e democratico » (quante volte abbiamo sentito questa lamentevole richiesta?) – assumono improvvisamente un nuovo significato. Parlando materialmente e militarmente, Israele è più o meno sicuro di quanto possa esserlo qualsiasi altro Stato: è una potenza nucleare dotata delle armi convenzionali più avanzate a disposizione di qualsiasi Stato al mondo; nessuno dei suoi vicini rappresenta nemmeno la più vaga minaccia per lui in termini militari. Perché, allora, sentiamo le continue invocazioni disperate del suo bisogno di «sicurezza », le infinite ripetizioni petulanti del suo «diritto a esistere»; l’invocazione di «per sempre» ed «eterno» e «permanente» e così via che accompagnano quasi sempre l’affermazione dello status di Israele come Stato-ebraico-e-democratico? Nessun altro Stato che io conosca invoca costantemente l’«eterno» in maniera così straordinaria. La risposta è che tutta la forza militare del mondo non compensa un tipo molto diverso di insicurezza: una insicurezza immateriale che possiamo collocare nel regno dell’immaginario.
Ciò che propongo in questo capitolo è che la costante ripetizione della frase «Stato ebraico e democratico» svolge un certo tipo di lavoro immaginario. Innanzitutto, come ho suggerito nell’apertura, l’affermazione sostiene e rende possibile una fede in Israele come democrazia che non sarebbe possibile senza il semplice fatto di un’affermazione costante. Il fatto stesso che l’incantesimo venga ripetuto più e più volte nonostante la palese contraddizione alle sue fondamenta – uno Stato non può essere sia democratico, cioè aperto alla volontà generale, e avere anche un’identità religiosa specifica, cioè chiusa, limitata a un’identità particolare – rende chiaro che la ripetizione pura e semplice è necessaria per sostenere la convinzione espressa: proprio come con un incantesimo magico che, senza una ripetizione costante, cesserebbe di essere «vero». Allo stesso tempo, la ripetizione della fede (e proprio di fede stiamo parlando qui) in Israele come Stato ebraico e democratico nasconde, occlude, nega la realtà che è di fatto legalmente, tecnicamente, costituzionalmente – non semplicemente retoricamente – uno Stato di apartheid. Mi occuperò dei dettagli tra poco, ma considerate cosa succede quando l’inverso dell’incantesimo del mantra dello «Stato-ebraico-e-democratico» esce allo scoperto. [...]
Il modo migliore per affermare che Israele non è uno Stato di apartheid è riaffermare che è una democrazia. In altre parole – e si noti la continuità di queste citazioni – il modo migliore per negare che Israele sia uno Stato di apartheid è affermare che è una democrazia; quanto più si sente l’accusa di apartheid, tanto più spesso bisogna ripetere l’incantesimo apparentemente magico per dissiparla. Qui, come negli altri casi esplorati in questo libro, l’affermazione (della democrazia) è il diniego (dell’apartheid); le due cose sono legate l’una all’altra. Tornerò più avanti sulla questione dell’affermazione e del diniego, ma prima vale la pena approfondire le circostanze materiali sia di questa affermazione che della sua contestazione. Nel 1986 un gruppo di ebrei americani fondò una nuova comunità in Galilea. La chiamarono Eshchar. Nefesh B’Nefesh, un’organizzazione che incoraggia gli ebrei stranieri a emigrare in Israele, afferma che la popolazione di Eshchar mira a «vivere in un ambiente di reciproca tolleranza e unione e offre ai residenti un posto meraviglioso in cui risiedere e far crescere i propri figli».
Pubblicizzando i suoi numerosi appelli ai potenziali immigrati che spera di attrarre – tra cui una vasta gamma di strutture come un asilo nido, un ufficio postale, un centro giovanile, un complesso sportivo, laboratori artigianali, un anfiteatro e persino un giardino botanico – la città si autoproclama come una «comunità pluralistica modello», dichiarando: «Eshchar è una comunità mista di ebrei tradizionali, religiosi e non religiosi, di ogni estrazione, impegnati nel rispetto reciproco, nel pluralismo e nell’apertura mentale ed è orgogliosa della sua identità eterogenea che include immigrati, israeliani, ashkenaziti, sefarditi, giovani e anziani»; aggiunge, inoltre, che i suoi residenti «credono che il messaggio ideologico di una vita comunitaria eterogenea sia essenziale per il futuro successo dello Stato di Israele e della comunità ebraica in tutto il mondo». Vista da un punto di vista un po’ più scettico, questa affermazione di straordinaria eterogeneità potrebbe sembrare sospettosamente omogenea; dopotutto, tutti quanti nella comunità sono – e devono essere – ebrei. «Quando tutto è ebraico», sottolinea Patrick Wolfe nella sua lettura del progetto sionista in Palestina, «la differenza stessa diventa ebraica». Sebbene la città sia fondata su terreni confiscati ai palestinesi, non un solo palestinese vive, o è autorizzato a vivere, a Eshchar. L’accesso agli insediamenti della comunità ebraica come Eshchar, che costituiscono l’84 percento di tutte le città rurali all’interno di Israele prima del 1967, è definito da commissioni addette all’ammissione le quali sono responsabili di garantire (come afferma una legge israeliana recentemente confermata dall’Alta Corte del paese, rendendo de jure ciò che era stata una prassi de facto) che i potenziali entranti nella comunità corrispondano alle sue «caratteristiche uniche» e al suo «tessuto socio-culturale» e siano altrimenti «adatti» alla sua «vita sociale». I palestinesi, compresi coloro che possiedono la terra su cui sono state costruite queste comunità, sono per definizione «inadatti»; nessuno di loro è stato liberamente ammesso a viverci. Essi vivono, invece, in città sovraffollate perché lo Stato ha confiscato la terra circostante e, anche se esso ha creato una nuova comunità dopo l’altra per gli ebrei (più di seicento dalla fondazione dello Stato), si rifiuta categoricamente di consentire ai palestinesi di creare una sola nuova città di loro proprietà e, anzi, spiana le città palestinesi esistenti per far spazio a nuove città ebraiche. I palestinesi costituiscono circa il 20% dei cittadini di Israele, ma le loro città esercitano autorità su poco più del 2% delle aree di governo locale dello Stato, e questo a causa di ciò che un gruppo di studiosi ha identificato come la giudaizzazione della terra e la mappatura, attentamente progettata, della razza sullo spazio – «biospazializzazione», come la definiscono Yinon Cohen e Neve Gordon. In altre parole, a due passi da Eshchar ci sono le città palestinesi di Arab al-Naim, al-Husseiniya, el Qubsi e Kammaneh. Ma il governo israeliano, proprio mentre stava accelerando lo sviluppo di nuove comunità ebraiche in Galilea, si è rifiutato di riconoscere l’esistenza di queste città palestinesi; ha negato loro i servizi municipali e statali; inoltre, ha programmato la demolizione delle loro case e le ha parzialmente o in alcuni casi interamente demolite, sostenendo che erano state costruite senza permessi, il che, a rigor di logica, è vero, se non altro perché sono antecedenti all’esistenza dello Stato stesso: lo Stato, infatti, non esisteva per dare loro i permessi quando furono sviluppate per la prima volta nel diciannovesimo secolo o anche prima. Lo sviluppo di Eshchar faceva parte di un’ondata di confische di terre in Galilea (ai palestinesi, per gli ebrei) annunciate nel 1976 allo scopo di — come affermato in un memorandum scritto dal commissario del distretto settentrionale del Ministero degli Interni — affrontare «il problema demografico » ed «espandere e ampliare l’insediamento ebraico in aree in cui la contiguità della popolazione araba è prominente», con l’effetto di «diluire le concentrazioni di popolazione araba esistenti». Così, mentre le strade per Eshchar e altre sessantuno città il cui sviluppo era destinato a cementare la «giudaizzazione della Galilea » venivano asfaltate ordinatamente e segnalate, solo sentieri sterrati senza segnaletica conducevano agli ingressi di Arab al- Naim, al-Husseiniya, el Qubsi e Kammaneh (e innumerevoli altre città palestinesi simili in tutte le parti della Palestina che caddero nel 1948, per non parlare dei territori occupati nel 1967). Eshchar divenne immediatamente visibile sulle mappe israeliane; i villaggi palestinesi vicini non riconoscibili non lo furono. Eshchar aveva fin dall’inizio meravigliose nuove strutture, i villaggi non riconosciuti invece no le avevano, né erano collegati alla rete elettrica nazionale, al sistema postale o alle reti idriche o fognarie, tutte immediatamente rese disponibili a Eshchar. Le nuove case a Eshchar avevano tetti di tegole, sistemi di irrigazione e prati rigogliosi; quelle nei villaggi vicini erano fatti di lamiera ondulata e tessuto e, essendo negati i servizi municipali, non avevano acqua corrente ed erano circondate dalla spazzatura; in quei luoghi non c’erano piani per costruire anfiteatri, complessi sportivi, giardini botanici, o anche scuole. Di recente, uno di questi villaggi, Arab al-Naim, è stato ufficialmente riconosciuto. Il più grande ostacolo nel convincere il consiglio regionale a estendere i servizi municipali si è rivelato essere la «comunità pluralistica modello» di Eshchar, i cui residenti, che vivevano su terreni confiscati ai villaggi vicini, tra cui Arab al-Naim, hanno affermato di non volere che i residenti palestinesi impoveriti «vivessero accanto a loro»35. In questo caso, quindi, arriviamo a una delle caratteristiche più importanti della versione israeliana dell’apartheid: non è solo semplicemente l’incapacità o il rifiuto dei suoi praticanti e dei loro sostenitori all’estero di riconoscerlo per quello che è, ma è anche la loro inflessibile insistenza nel sostenere esattamente il suo opposto. Quindi, Eshchar è un’opera di «rispetto reciproco, pluralismo e apertura», non ostilità verso gli altri; un modello di «tolleranza reciproca e unione», non un esperimento contemporaneo di segregazione razziale; un progetto di «vita comunitaria eterogenea» e non un tentativo di mantenere l’omogeneità insulare contro l’alterità circostante; in breve, una vibrante «comunità pluralistica», non un insediamento coloniale impiantato su terreni usurpati con la forza dai suoi proprietari indigeni etnicamente ripuliti. Sulla stessa linea, ma su scala più ampia, Israele è considerato un baluardo della tolleranza occidentale e della democrazia liberale: uno «Stato ebraico e democratico» in un deserto di tirannia musulmana arretrata, violenta e fondamentalista. E in questo caso, arriviamo anche a una delle differenze più importanti tra la versione sudafricana e quella israeliana dell’apartheid. Uno degli elementi più convincenti sull’apartheid sudafricano è che, dopotutto, ha osato avere un nome proprio; ha insistito nel richiamare l’attenzione su di sé tramite un sistema di segnali espliciti, di etichette e di indicazioni su ogni autobus, su ogni spiaggia e all’ingresso di ogni bagno. In altre parole, l’apartheid sudafricano si è impresso continuamente nel campo verbale e visivo della vita quotidiana attraverso numerosissime targhe, segnali, parole, leggi, nomi, classificazioni – una serie infinita di binarismi costruiti attorno al definitivo «Blankes/Nie Blankes» (Bianchi/ Non Bianchi). Alla fine dei conti, quindi, il bianco sudafricano, indipendentemente dalle sue convinzioni personali o dalla sua posizione ideologica, ha dovuto guardare il cartello con la scritta «Blankes/Nie Blankes» e decidere di conseguenza: una stranezza che l’Apartheid Museum di Johannesburg rievoca in modo molto efficace al suo ingresso. L’ebreo israeliano e il sostenitore di Israele all’estero non sono mai costretti a un simile confronto e alle relative forme di riconoscimento e consapevolezza; non devono mai fare quella scelta. Il diritto all’uguaglianza non è tutelato in nessun momento della legge israeliana, anzi al contrario: decine di leggi discriminano esplicitamente o implicitamente i cittadini palestinesi dello Stato36. Ma, in generale, queste leggi non richiamano apertamente l’attenzione su di sé come hanno fatto i loro precedenti sudafricani; da nessuna parte è ufficialmente segnalato che gli ebrei devono vivere qui (Eshchar, ad esempio) e i palestinesi devono vivere lì (Arab al-Naim, ad esempio). Un potente sistema di meccanismi formali e informali garantisce che le cose funzionino esattamente in quel modo: un sistema di una tale «estrema segregazione residenziale tra ebrei e palestinesi» – come osservano Cohen e Gordon – che il 99% dei 1214 distretti residenziali elencati dall’Ufficio centrale di statistica di Israele sono esclusivamente ebrei o esclusivamente palestinesi37. Ma queste cose sembrano accadere sullo sfondo, per così dire, piuttosto che essere così visibilmente e chiaramente in primo piano come in Sudafrica. Quindi, a differenza del bianco sudafricano, a cui venivano sempre ricordate le forme di privilegio di cui godeva a spese dei neri, l’israeliano ebreo, come i suoi sostenitori all’estero, può attribuirsi i valori di tolleranza, pluralismo, eterogeneità e così via, e non deve fare i conti con lo status o persino con l’esistenza dei palestinesi sulla cui terra vive. Prima di esplorare ulteriormente queste distinzioni visive e culturali tra le due forme di apartheid, vorrei prima occuparmi dei dettagli dei due sistemi e di ciò che essi hanno in comune.
Ogni singola legge importante sull’apartheid sudafricana ha un equivalente diretto in Israele e nei territori occupati nel 1967. Innanzitutto, proprio come nel Sudafrica dell’era dell’apartheid, non esiste in Israele una categoria universale di cittadinanza e nazionalità. Pertanto, il Population Registration Act del 1950, che assegnava a ogni sudafricano un’identità razziale in base alla quale aveva accesso (o gli veniva negato) a una gamma variabile di diritti, ha un equivalente diretto nelle leggi israeliane che assegnano a ogni cittadino dello Stato un’identità razziale distinta, sulla base della quale vengono anche concessi (o negati) vari diritti39. In Israele, le categorie di razza e nazione sono confluite una nell’altra. Secondo lo Stato israeliano e i suoi apparati giuridici, non esiste una nazione israeliana in senso laico o non razziale, e quindi non esiste una nazionalità israeliana in sé. Come ha affermato l’Alta Corte nel 1972 (in una sentenza ribadita nel 2013): «Non esiste una nazione israeliana separata dal popolo ebraico. Il popolo ebraico composto non solo da coloro che risiedono in Israele, ma anche dagli ebrei della diaspora». Di conseguenza, non solo i cittadini ebrei dello Stato, ma tutti gli ebrei ovunque essi siano, sono considerati, dagli organi dello Stato, sulla base della loro identità razziale, come aventi «nazionalità ebraica», mentre i non-ebrei, sebbene possano essere cittadini dello Stato, non sono esplicitamente membri della «nazione» – ovvero ebrei in tutto il mondo, che vogliano o meno essere affiliati a Israele, di cui proprio Israele afferma di esserne lo Stato. Pertanto, sin dall’inizio dello Stato d’Israele, «sebbene i passaporti statali designassero la cittadinanza (ezrahut o jinsiyya in arabo) dei loro titolari come “israeliana” – sottolinea Shira Robinson – le carte d’identità interne contrassegnavano la nazionalità dei loro titolari (le’om o qatom in arabo) principalmente come “ebrei” o “arabi” e cioè i raggruppamenti razziali incorporati nella legge obbligatoria e approvati dalla Società delle Nazioni». La legge nazionale di Israele, la Law of Return del 1950, si applica quindi solo agli ebrei e non fornisce alcun meccanismo per concedere la nazionalità ai non-ebrei. Una legge completamente diversa (la Nationality Law del 1952) consente l’estensione della categoria minore di cittadinanza, ma non la nazionalità, ai non-ebrei. Come sostiene Robinson: «nel suo esplicito privilegio offerto a tutti gli ebrei al mondo a discapito dei nativi non-ebrei, la Law of Return divenne così il primo e definitivo gesto legale di Israele contro il ritorno a casa dei rifugiati palestinesi e la pietra angolare della segregazione razziale tra cittadini israeliani. Ecco perché, ciò che conta veramente per la legge israeliana – come osserva Mazen Masri – non è la questione di chi è un cittadino, ma quella di “chi è un ebreo”». I palestinesi musulmani e cristiani (o almeno quelli sopravvissuti alla pulizia etnica sionista della loro patria nel 1948 e i loro discendenti) dovettero arrangiarsi per adattarsi a una serie mutevole di requisiti di residenza che il nuovo Stato rese quanto più difficile possibile da ottenere, e impose anche, nei loro confronti, la legge marziale (ma non ai cittadini ebrei) fino al 1966. Quando fu finalmente formulata, la legge che alla fine concesse loro la cittadinanza fece attenzione a non menzionare ebrei o arabi come tali, «delineando invece i due percorsi per acquisire automaticamente lo status in termini apparentemente neutrali e burocratici», come nota a proposito Robinson. E aggiunge: «La traduzione inglese autorizzata della legge sulla cittadinanza fu modificata in modo da nasconderne la discriminazione […]. Sebbene il suo nome ebraico, Hok ha-Ezrahut, si traduca letteralmente come “Legge sulla cittadinanza”, il governo la chiamò “Legge sulla nazionalità israeliana” [in inglese] per evidenziare il significato legale più ampio del termine così come è inteso in inglese. Ciò fu una cosa ingannevole». Come vedremo, questo inganno ha un suo scopo. Pertanto, a differenza dei cittadini ebrei, che sono riconosciuti come aventi un’identità nazionale in quanto ebrei, la legge israeliana spoglia metodicamente i cittadini palestinesi della loro identità nazionale in quanto palestinesi e li riduce a una mera etnia. Ancora oggi, come sottolineano Cohen e Gordon, «la parola “palestinese” non compare nelle analisi statistiche di Israele, mentre solo nel 1995 è emersa finalmente la parola “arabo” dopo decenni in cui i palestinesi venivano definiti in base alla loro religione o come “non-ebrei”». Lo Stato si riferisce, quindi, a malincuore ai suoi cittadini palestinesi definendoli genericamente al massimo come arabi. Questa netta razzializzazione penetra in profondità nelle viscere amministrative dello Stato. I cittadini ebrei, ad esempio, sono classificati nel registro della popolazione dello Stato in base al loro paese di nascita e a quello del padre. Se un cittadino e suo padre sono nati in Israele, quel cittadino è classificato come ebreo di «origine israeliana». I cittadini palestinesi, al contrario, non sono in grado di ottenere questo status di «origine israeliana». «In effetti, non hanno origine, ma solo religione», osservano Cohen e Gordon. «In altre parole, secondo le statistiche ufficiali di Israele, tutti gli ebrei alla fine diventano “israeliani” nell’arco di due generazioni, mentre nessun palestinese può mai diventare “israeliano”. Ciò produce una realtà razziale biforcuta in cui l’ebraismo supera tutte le altre categorie di identificazione, cosa che, a sua volta, riflette e aiuta a riprodurre i meccanismi di controllo dello Stato, nonché la sua politica spaziale». Sorprendentemente, il termine «arabo israeliano» non viene mai utilizzato per fare riferimento agli ebrei arabi che costituiscono una parte considerevole della popolazione ebraica di Israele – i veri arabi israeliani – perché ovviamente, nel loro caso, Israele vuole cancellare la loro identità araba e assimilarli come ebrei, mentre nel caso dei cittadini palestinesi, vale il contrario: non possono essere assorbiti come ebrei e, quindi, la loro indigesta arabicità viene enfatizzata. La razza, in altre parole, funziona sia in modo positivo che negativo in Israele, e le logiche della razzializzazione e della de-razzializzazione svolgono un lavoro ideologico straordinariamente complesso a sostegno dell’importantissima distinzione razziale tra cittadini ebrei (coloni) e non-ebrei non-nazionali (nativi). Il risultato è uno Stato nettamente razziale che a ogni possibile occasione ricorre a trucchi linguistici e giochi di prestigio verbali (ad esempio, traducendo male «cittadinanza» come «nazionalità») per nascondere quello che è esattamente. Questi stessi trucchi verbali vengono facilmente ripetuti a pappagallo dai numerosi ammiratori di Israele negli Stati Uniti e altrove, motivo per cui, quando vogliono sottolineare quanto Israele sia meravigliosamente democratico, sono subito pronti a evidenziare quanti «arabi» ci sono nel suo parlamento (notare le citazioni di politici e altri menzionati precedentemente). Non solo non si riferiscono ai «palestinesi» in quanto tali: la loro insistenza nel riferirsi a loro come arabi contribuisce a cancellare la loro specifica identità palestinese. In altre parole, affermare la loro etnia araba fa parte del diniego della loro presenza come palestinesi. Tuttavia, privare i cittadini palestinesi della loro identità nazionale in quanto palestinesi non è solo semplicemente degradante. Infatti, come sostengono Dugard e Reynolds, «a sostegno delle politiche discriminatorie di Israele contro i palestinesi – sia all’interno di Israele che nei territori palestinesi occupati – c’è un sistema legale che crea una nozione di “nazionalità ebraica” e privilegia, in base alla giurisdizione israeliana, i cittadini ebrei rispetto ai gruppi non-ebrei». Pertanto, in Israele, vari diritti fondamentali – come, ad esempio, l’accesso alla terra e all’alloggio – sono connessi all’identità razziale («nazionalità») come viene definita dallo Stato e non alla categoria inferiore della mera cittadinanza. Come sottolineano Dugard e Reynolds, i palestinesi «sono enormemente limitati in aree critiche come l’uso del territorio e l’accesso alle risorse naturali e ai servizi essenziali, esclusi dalle leggi e dalle istituzioni di pianificazione e sistematicamente discriminati a livello municipale e nazionale nell’ambito dei diritti economici, sociali e culturali». Allo stesso tempo, «i cittadini ebrei, i cui interessi esclusivi sono garantiti da istituzioni parastatali come l’Agenzia ebraica e il Fondo nazionale ebraico, hanno il vantaggio di accedere, in maniera esclusiva, alla maggior parte del territorio dello Stato e di rivendicare diritti e privilegi extraterritoriali nelle aree controllate da Israele». In effetti, gli ebrei che non sono cittadini hanno in realtà più diritti in alcuni ambiti, in particolare per quanto riguarda la terra, rispetto ai palestinesi nativi. In nessun altro paese della terra i non-cittadini privilegiati dal punto di vista razziale godono di maggiori diritti rispetto ai residenti svantaggiati dal punto di vista razziale del territorio controllato dallo Stato.
Esistono ovviamente differenze tra i regimi razziali in Sudafrica e in Israele. Il sistema di apartheid in Sudafrica, nonostante tutta la sua violenza e brutalità, aveva una logica diversa da quella vigente in Palestina. Il movimento dei neri in Sudafrica era controllato, non del tutto vietato, come nel caso ad esempio del movimento dei palestinesi dentro e fuori Gaza che Israele ha in gran parte isolato dal mondo per oltre un decennio: un’intera generazione di bambini sta crescendo a Gaza senza mai mettere piede fuori dalla minuscola fascia costiera. Il regime di apartheid in Sudafrica voleva che i neri lavorassero; uccidere o affamare la forza lavoro – o rinchiuderla in una gigantesca prigione a cielo aperto come Gaza – sarebbe stato impensabile. E questa, naturalmente, è la principale differenza sostanziale tra l’apartheid sudafricano e quello israeliano. C’è un’enorme differenza tra sfruttamento ed espulsione, trasferimento, eliminazione o annientamento; tra il razzismo dello sfruttamento e il razzismo dello sterminio, come afferma Ghassan Hage. In Sudafrica, il sistema dell’apartheid fu concepito per consentire lo sfruttamento della manodopera nera in case, uffici e miniere d’oro, negando al contempo ai neri pari diritti. Il sistema israeliano, a livello ideologico, non riguarda lo sfruttamento della manodopera palestinese. Gershon Shafir osserva che il progetto di insediamento sionista in Palestina mirava fin dalle sue origini non a sfruttare, ma a eliminare la manodopera palestinese autoctona. Certamente persiste da anni e, in qualche modo, ancora oggi lo sfruttamento israeliano della manodopera palestinese in vari settori dell’economia (in particolare l’edilizia). Ma in generale, il progetto sionista in Palestina mirava, ove possibile, a sostituire la popolazione nativa, a trasferirla e a reclamare la terra. Il processo iniziato nel 1948 continua ancora oggi ogni volta che una casa palestinese viene demolita a Gerusalemme, ogni volta che una famiglia palestinese viene espulsa dalla città fantasma del centro di Hebron, ogni volta che una palestinese di Gerusalemme viene privata dei suoi documenti di residenza ed espulsa dalla sua città natale, ogni volta che una famiglia palestinese viene distrutta e rovinata a causa di una legge israeliana – istituita nel 2003 – che impedisce a un palestinese in Israele o a Gerusalemme di sposarsi e vivere con un coniuge proveniente dai territori occupati, sebbene un ebreo israeliano possa sposare un colono ebreo della Cisgiordania e possano vivere insieme dove desiderano. (Quando una legge simile fu proposta al culmine dell’Apartheid in Sudafrica nel 1980, fu completamente respinta dall’Alta Corte di quel Paese come un’inaccettabile violazione del diritto dei neri alla famiglia; l’Alta Corte israeliana ha confermato la nuova legge di quel Paese nel 2006 e l’ha ripetutamente confermata negli anni successivi). In poche parole, come ho già detto altrove, l’apartheid sudafricano era di natura biopolitica, riguardava la gestione e l’amministrazione del lavoro nero vivo. Quello israeliano è – per usare l’espressione elaborata in modo così efficace da Achille Mbembe – necropolitico, riguarda cioè la distruzione e la cancellazione dei palestinesi – qualcosa a cui ogni palestinese resiste ogni singolo giorno, anche solo per il semplice fatto di continuare ostinatamente a esistere. Questa necropolitica dipende in modo cruciale e assoluto, tuttavia, dal sistema di imperscrutabilità e invisibilità che permette agli israeliani e ai sostenitori di Israele di continuare a praticare o sostenere una forma violenta di razzismo senza dover fare i conti con esso e riconoscere il fatto che questo è esattamente ciò che stanno facendo. È impensabile che la maggior parte dei sostenitori americani di Israele – soprattutto in settori liberali come il mondo accademico – continui ad appoggiarne il razzismo e l’apartheid se li vedesse per quello che sono. Questo ci riporta alla principale differenza tra i regimi razziali di Sudafrica e di Israele, con cui ho iniziato il capitolo: la leggibilità dell’apartheid sudafricano e la relativa illeggibilità – l’imperscrutabilità – dell’apartheid israeliano. Da nessuna parte in Israele o nei territori occupati c’è un cartello, equivalente a quelli del Sudafrica, che rechi la scritta «Solo ebrei». Ma non è nemmeno necessario che ci sia: il razzismo si manifesta nella pratica, non nel linguaggio. Mentre l’apartheid sudafricano insisteva nel nominare e attirare l’attenzione su di sé attraverso infiniti segnali verbali e visivi, l’apartheid israeliano cerca, ogni volta che è possibile, di elidere e coprire le forme di razzismo che incarna altrettanto pienamente. È un perfetto esempio di ciò che David Theo Goldberg ha recentemente teorizzato come «razzismo senza razzismo». Gli ammiratori di Israele possono affermare che tratta tutti i suoi cittadini allo stesso modo, non tanto perché non si rendano conto che la discriminazione opera a livello di razza e «nazionalità » piuttosto che al livello secondario della cittadinanza (chi può preoccuparsi di tali sottigliezze tecniche?), ma piuttosto perché agli israeliani e ai loro sostenitori all’estero, a differenza dei sudafricani bianchi, viene risparmiato il fatto di essere costretti a fare i conti con questa consapevolezza. È loro permesso – e si permettono – di vederci chiaro, di ripetere a pappagallo gli slogan che vengono fuori facilmente dalle loro bocche, di abbandonarsi al misconoscimento di una brutta realtà che li sta di fronte e a fraintendere continuamente i fatti quando qualcun altro insiste nel tabularli, documentarli e presentarli, e a esplodere in una furia cieca e risentita se i fatti vengono messi davanti a loro anche solo un po’ troppo insistentemente. Ciò che è in gioco qui, quindi, è una forma di diniego che non riesce a riconoscersi per quello che è. È fissando ossessivamente il linguaggio, senza vedere i significati assenti perché non sono espressi in esso – «Dov’è scritto “solo ebrei”?» – che i sostenitori di Israele si permettono di evitare di riconoscere la realtà materiale dei fatti: non c’è bisogno di un cartello che dica esplicitamente «solo ebrei» perché solo gli ebrei possano usare una strada in Cisgiordania, frequentare una certa scuola o vivere in una certa città in Israele; non c’è bisogno di una legge che impedisca a ebrei e non-ebrei di sposarsi perché ebrei e non-ebrei non possano sposarsi in Israele. A differenza dell’apartheid in Sudafrica, dove tutti questi tipi di divieti erano esplicitamente enunciati, ciò che vediamo in Israele è un razzismo che evita il linguaggio. Questo non lo rende tuttavia meno razzista. La forma biopolitica dell’apartheid in Sudafrica è finita perché, in quel luogo, l’élite bianca si è resa conto (grazie alla resistenza locale, ai boicottaggi e alle sanzioni globali) che era in definitiva insostenibile e che doveva essere smantellata e sostituita con un sistema di governo e rappresentanza più democratico, e in effetti si è verificato un meccanismo di verità e riconciliazione come parte integrante del processo di transizione dall’apartheid al sistema che lo ha sostituito. Ma la stessa trasparenza del sistema in Sudafrica ha in definitiva facilitato la capacità di calcolo politico dello stesso governo bianco. Il problema dell’apartheid israeliano è che si basa su una mancanza di trasparenza, soprattutto verso se stesso; è posizionato in modo tale da non essere visibile; non è lì per essere interrogato, riconsiderato e smantellato. Per quanto riguarda i suoi stessi praticanti e i sostenitori all’estero, non esiste nemmeno e, per loro, Israele è uno Stato democratico meraviglioso: cosa può esserci, allora, da riconsiderare o smantellare? La sua logica necropolitica continua a essere portata avanti non in nome del razzismo ma, al contrario, in nome del «rispetto reciproco, del pluralismo e dell’apertura», della «tolleranza» e della «democrazia». Da qui ne consegue l’importanza della negazione dell’apartheid e, soprattutto, dell’affermazione di Israele come democrazia, con cui si apre questo capitolo. Ogni tentativo di mettere in discussione questo duplice mantra si scontra con l’immediata condanna e la riaffermazione, ancora una volta, dell’invocazione dello Stato-democratico- ed-ebraico. Quando, nel marzo 2017, la «Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale» ha pubblicato il rapporto sull’apartheid israeliano (citato in precedenza in questo capitolo), la reazione è stata immediata. L’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha denunciato il rapporto definendolo «falso» e «diffamatorio». L’altro ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, ha affermato che si trattava di un rapporto «disprezzabile e costituisce una palese menzogna». Il nuovo Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha immediatamente preso le distanze dal rapporto e lo ha fatto rimuovere dai siti web delle Nazioni Unite. Non si è mai tentato di esaminare le argomentazioni e le prove del rapporto (redatto da due eminenti studiosi americani di diritto internazionale, Richard Falk e Virginia Tilley, ed esaminato da altri tre studiosi prima della pubblicazione), né di confutare le argomentazioni o di raccogliere controprove. Indignazione e diniego hanno prevalso sulle argomentazioni e sulle prove. [...]
Non sorprende, quindi, che il mantra dello Stato-ebraico-e-democratico con cui si apre questo capitolo sia cruciale per il diniego – e quindi per la persistenza – di questa forma di apartheid. Affermando la democrazia ebraica (un valore positivo), si sta contemporaneamente sostenendo uno Stato razziale e una discriminazione razziale (una realtà negativa). Dopotutto, cosa significa essere uno Stato ebraico? Come condizione di possibilità, è uno Stato che privilegia gli ebrei rispetto ai non-ebrei. Cosa significa essere una democrazia? Significa essere uno Stato che tratta tutti i cittadini allo stesso modo senza privilegiare un tipo di cittadino rispetto a un altro. Come può, allora, uno Stato privilegiare alcuni (gli ebrei) ed essere aperto a tutti (la democrazia)? Come può uno Stato essere sia particolare che generale? La risposta ovvia è che non può esserlo, a meno che tutti i suoi membri non corrispondano a tale descrizione limitata, il che renderebbe ridondante la proposizione stessa – ebraico e democratico. Perché, allora, l’incessante affermazione dello Stato-ebraico-e-democratico per descrivere uno Stato che governa e definisce la vita quotidiana di milioni e milioni di non-ebrei? Qual è il ruolo di questa affermazione? Questo: consente l’approvazione di un programma razziale senza riconoscere il fatto che di questo si tratta. Come proposizione logica, Israele può essere autenticamente sia ebraico che democratico solo se non ci saranno più non-ebrei: una condizione a cui lo Stato si è storicamente dedicato nel modo più possibile espellendo o uccidendo («Dovremo uccidere, uccidere e uccidere… tutto il giorno, ogni giorno», come, a suo tempo, ha riassunto questa logica il principale allarmista demografico israeliano, Arnon Sofer) quante più persone possibile che non «corrispondessero» alla definizione di ebreo che lo Stato si attribuisce. Sotto le spoglie di un testamento di valori liberali, il mantra «Stato ebraico e democratico» è in realtà una dichiarazione di intenti omicida. Ma la stragrande maggioranza di coloro che ripetono a pappagallo questo slogan ossimorico non si considererebbe mai un sostenitore del genocidio. Ed è proprio questo il punto.
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Saree Makdisi è docente di Inglese e Letteratura Comparata alla University of California, Los Angeles. Di origine libanese-palestinese, nipote di Edward Said, è tra i più importanti studiosi internazionali di cultura e politica araba. Tra i suoi diversi libri, si segnalano Palestine Inside Out: An Everyday Occupation (2010) e Making England Western: Occidentalism, Race and Imperial Culture (2014).




