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Meme e fiamme

L’estetica dell’insurrezione della Gen Z


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Che cosa accomuna le proteste dei giovani in Marocco dello scorso settembre con le rivolte in Asia, iniziate in Indonesia a febbraio, poi in Mongolia e, in seguito, in Nepal? Alessandro Sbordoni prova a rispondere a questa domanda, sottolineando alcuni elementi: i riferimenti culturali e i linguaggi comuni; la viralità dell'estetica della protesta.


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«La gioventù marocchina si fa portavoce della nazione», legge una lettera aperta del movimento Gen Z 212 al re Muhammad VI del Marocco. «Chiediamo lo scioglimento dell’attuale governo per la sua incapacità di proteggere i diritti costituzionali dei marocchini». A oggi, il movimento Gen Z 212 (dal prefisso telefonico nazionale del Marocco, +212), fondato a settembre da un gruppo di giovani marocchini contro il governo, ha riunito oltre duecentomila utenti sulla piattaforma Discord, organizzando sit-in e campagne di boicottaggio online.

Alcuni giorni prima delle proteste in Marocco, la gioventù nepalese aveva dato fuoco al Parlamento, poco dopo che il governo di Ram Chandra Poudel aveva vietato ventisei piattaforme social – tra cui WhatsApp, Facebook, Instagram, YouTube e X. In una serie di video postati su TikTok, si vedono i giovani nepalesi ballare sulle rovine in fiamme di Kathmandu sulla canzone virale Young Black & Rich del rapper americano Melly Mike. «Viral trend done right», trend virale fatto come si deve, legge la descrizione del video, seguita dall’emoji di una mano che si mette lo smalto sulle unghie. «Making reels after setting parliament on fire», facendo reel dopo aver dato fuoco al Parlamento, si legge in un altro video. In un altro ancora, il ministro della finanza nepalese è assaltato da un dimostrante. Allo stesso modo, un videomontaggio della Gen Z 212 mostra gli scontri tra la polizia e i manifestanti marocchini con HUMBLE di Kendrick Lamar come colonna sonora. La rivoluzione sta per essere trasmessa in televisione; avete scelto il momento giusto, ma ve la siete presa con la generazione sbagliata.


Che cosa accomuna le proteste dei giovani in Marocco dello scorso settembre con le rivolte in Asia, iniziate in Indonesia a febbraio, poi in Mongolia e, in seguito, in Nepal?

Dopo la rivoluzione in Nepal, preceduta da anni di proteste nel continente asiatico, tra cui Sri Lanka e Bangladesh, poi Indonesia e Mongolia, la rivolta della Gen Z si è trasformata in un movimento globale. Dal Nepal, la ribellione delle nuove generazioni si è ripetuta a Timor Est, Filippine e Maldive, per continuare in Madagascar e Marocco, fino alle Ande peruviane.

In Perù, le manifestazioni della Gen Z si sono focalizzate contro la corruzione politica e la criminalità organizzata. Indette tramite social media come TikTok, Instagram e X, hanno portato alla destituzione della presidente Dina Boluarte. Poco tempo prima, in Indonesia, i protestanti hanno spinto il governo a ritirare parte di una controversa legge sulla censura digitale. In Nepal, il governo è stato sciolto e un nuovo governo è stato proposto dopo una votazione pubblica su Discord. In Madagascar, il capo di Stato Andry Rajoelina è stato deriso sui social media per aver proposto di eleggere i nuovi ministri con LinkedIn…

Dall’Himalaya alle Ande, ciò che accomuna le recenti proteste della Gen Z in Asia, Africa e America del Sud è una stessa lingua dell’oppressione. In poco tempo, la bandiera di One Piece, con il teschio e il cappello di paglia, è diventata il simbolo della rivoluzione dell’ultima generazione contro la corruzione del governo. One Piece è un celebre manga e anime giapponese, recentemente adattato in una serie live action prodotta da Netflix, che racconta la storia di un gruppo di pirati che combatte le ingiustizie del potere. Come ha dichiarato di recente un manifestante filippino in un’intervista al Guardian, «anche se abbiamo lingue e culture diverse, parliamo la stessa lingua dell’oppressione. Vediamo questa bandiera come un simbolo di liberazione contro l’oppressione». In Nepal, i dimostranti hanno appeso la bandiera di One Piece ai cancelli del palazzo del governo. Il vessillo è stato innalzato alle proteste in Paesi come Indonesia, Filippine, Madagascar e Marocco. In precedenza, la bandiera nera con il teschio e il cappello di paglia è stata usata alle manifestazioni in solidarietà con la Palestina e, recentemente, era stato perfino issato sulla Global Sumud Flotilla diretta verso la Striscia di Gaza.


Non è né la prima né l’ultima volta che la cultura popolare entra nelle piazze. Durante le proteste contro l’estradizione a Hong Kong, il meme di Pepe the Frog è stato riqualificato come simbolo di libertà e democrazia; in Myanmar, il saluto a tre dita ispirato a The Hunger Games è stato usato in segno di protesta; altrove sono apparse le maschere di Guy Fawkes di V per Vendetta o del Joker. Ancora più di recente, in Turchia, l’immagine di un dimostrante con indosso un costume di Pikachu che corre tra i cortei è diventata un simbolo virale della resistenza. Tutte queste non sono soltanto rivoluzioni politiche ma estetiche. L’ultima generazione sta creando un nuovo linguaggio della protesta. La sua grammatica è abbastanza semplice: meme e fiamme.

L’estetica della rivolta dell’ultima generazione ha una caratteristica comune: è virale. Nel giro di poche ore, uno studente in Marocco guarda e condivide un video pubblicato in Nepal con l’hashtag #GenZRevolution. Qualche giorno prima, lo stesso accadeva a ottomila chilometri di distanza, in Perù. Se movimenti come Occupy Wall Street del 2011, la Primavera araba del 2010–2012 o la Rivoluzione degli ombrelli a Hong Kong del 2014 hanno avuto un carattere regionale, le proteste della Gen Z si estendono dall’Himalaya fino alle Ande. La rivoluzione non è più locale ma globale. Internet non è più solo un mezzo di comunicazione: è diventato un’arma di dissenso planetaria.

La generazione Z è la prima generazione gettata nel mondo digitale, non più soltanto nel mondo analogico delle generazioni precedenti. Nonostante ciò, l’estetica della protesta, per quanto forte e immediata, non è ancora in grado di disturbare il mezzo che la riproduce. Dai videomontaggio del gruppo Gen Z 212 ai video virali della gioventù nepalese, la rivoluzione viene trasmessa online senza destabilizzare il potere delle piattaforme. La relazione tra la tecnologia digitale e il potere è, infatti, stata al centro di diverse proteste dei più giovani in Asia, Africa e America: contro la sorveglianza informatica in Indonesia, contro la censura online nelle Filippine, contro il blocco dei social media in Nepal e, infine, contro la mancanza di accesso a una connessione Internet in vari Paesi, tra cui il Marocco. Senz’ombra di dubbio, la tecnologia è soltanto una piccola parte delle problematiche principali di queste proteste, tra cui spiccano invece la disoccupazione, la corruzione e le disuguaglianze economiche e sociali.

Tuttavia, la contraddizione, come osserva la sociologa Zeynep Tufekci nel suo saggio Twitter and Tear Gas (Twitter e gas lacrimogeno) del 2017, è che questi movimenti fanno la storia con strumenti che non sono i propri. Anche chi fa la storia deve sempre accettare i termini e le condizioni della piattaforma. In questo riguardo, basta soltanto guardare al ruolo di Meta (Facebook e Instagram, nello specifico) nella censura dell’attivismo online in solidarietà con la Palestina – attraverso la rimozione di post, la sospensione di account, il cosiddetto shadow banning e così via.

Nonostante ciò, è soltanto attraverso l’utilizzo della comunicazione digitale che la rivoluzione è proliferata dall’Himalaya alle Ande e continuerà ancora a farlo, convertendo la protesta online in offline. Per citare una canzone di Kendrick Lamar, «do you really know how to play the game? Then tighten up!». Sai davvero come giocare? Allora non farti fregare!



Un ringraziamento speciale a @girlaccelerated per avermi dato il primo spunto per questo articolo.


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Alessandro Sbordoni è nato a Cagliari nel 1995. È l’autore di Semiotica della fine. Saggi sul capitalismo e l’apocalisse (Institute of Network Cultures, 2023; ed. it. MachinaLibro, 2025) e The Shadow of Being: Symbolic / Diabolic (Miskatonic Virtual University Press, 2023). Collabora con la rivista inglese «Blue Labyrinths» e la rivista italiana «Charta Sporca». Lavora per la rivista scientifica «Frontiers».

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