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Lavoro d'amore - amore come lavoro


Un estratto dal libro di ombre corte

 


Lavoro d'amore - amore come lavoro
Birgit Jürgenssen, Hausfrauen, Küchenschürze -Grembiule da cucina da casalinghe, 1975

Nel testo omonimo del 1976, recuperato al dibattito italiano da Silvia Rodeschini che cura la traduzione dal tedesco e l’introduzione al volume (G. Bock - B. Duden, Lavoro d’amore - amore come lavoro. La nascita del lavoro domestico nel capitalismo, ombre corte 2024), le storiche tedesche Gisella Bock e Barbara Duden, che negli anni Settanta intrecciano la loro produzione politica e intellettuale all’esperienza internazionale della campagna «Salario al lavoro domestico», discutono la storia, fino ad allora mai scritta, della nascita del lavoro femminile come lavoro domestico: un nuovo e peculiare oggetto di studio imposto nel dibattito del tempo dall’emergente critica femminista. Nell’estratto che proponiamo, prevalentemente incentrato sui primi decenni del Ventesimo secolo, le studiose, femministe radicali, portano in primo piano lo stretto legame tra lo sviluppo del capitalismo fordista e lo sfruttamento del lavoro di riproduzione delle donne in casa, evidenziando, tra le altre cose, come«l’efficientamento della gestione della casa» fosse ritenuta condizione imprescindibile per «l’aumento dei redditi reali». Attingendo da un archivio sui generis fatto di fonti inedite o della lettura «in modo nuovo» di vecchie fonti - come il classico della sociologia Middletown dei coniugi Merrel e Lynd - o alcuni dossier sulla vita delle casalinghe, denunciano la «menzogna» dell’equivalenza tra lavoro e amore che rende possibile lo sfruttamento del lavoro di riproduzione.


***

 

A partire dal 1903 circa, negli Stati Uniti il problema del cost of living, il crescente costo della vita, venne discusso in modo sempre più feroce, in particolare insieme a quello dei salari, del sostegno ai salari e delle lotte per il salario nelle fabbriche e, infine, a quello dell’inflazione, che era iniziato con il passaggio di secolo, si era andato intensificando durante la Guerra mondiale e aveva raggiunto il suo apice nel periodo post-bellico. Erano soprattutto le donne che, con le loro organizzazioni e le loro attività – dalla Lega delle Casalinghe a quella dei consumatori, fino al boicottaggio delle merci e ai food riot, le «rivolte per il cibo» –, ponevano in rilevo il crescente costo della vita e lo combattevano. Viceversa, ora la donna che lavora in casa veniva scoperta dai pianificatori sociali come «colei che è capace di risolvere l’enigma di come fare a ridurre il costo della vita»[1] . Negli Stati Uniti, nei primi tre decenni del xx secolo, il lavoro domestico femminile non viene visto solo in generale come generazione e rigenerazione della forza lavoro, ma viene concepito in modo consapevole come contributo al salario reale dell’uomo, per coadiuvare la soluzione di problemi socio-politici incombenti, più precisamente, per rispondere alle lotte per il salario dei lavoratori e delle lavoratrici di fabbrica – soprattutto degli stranieri che sono i meno pagati in assoluto – senza alzare eccessivamente i salari. «Un dollaro speso male è solo un mezzo dollaro» era il livello di una ricca letteratura che si occupava del problema dell’aumento dei redditi reali attraverso l’efficientamento della gestione della casa. Il «reddito reale – scriveva un esperto di economia domestica nel pieno dell’inflazione del 1920 – include elementi che non si possono ottenere spendendo denaro. Questo riguarda soprattutto i servizi non pagati della casalinga, che è in grado di aumentare del 100% il salario reale»[2] . Vennero pubblicate numerose ricerche sul budget familiare e, infine, le scienze economiche e sociali concepirono per la prima volta una teoria politicamente efficace del salario, secondo la quale il salario non era più pensato per la semplice sopravvivenza individuale ma per coprire anche vitto e alloggio per la donna che lavorava per l’uomo e per i bambini[3]. Come risposta alla richiesta da parte dei lavoratori di un living wage o anche di un minimum wage si diffuse un sistema di family allowances aziendali che prese piede nello stesso tempo anche in Europa: assegni familiari, pagati con fondi di settore o regionali, ai quali dovevano aderire anche gli imprenditori, che altrimenti avrebbero preferito assumere lavoratori senza figli – danneggiando la forza lavoro di domani. La loro istituzionalizzazione e la loro generalizzazione coincise con l’istituzione di un sistema di salari differenziato e graduato in base allo stato di famiglia, che trasformò lo stato nel garante di una struttura familiare e di un lavoro domestico, la cui compensazione finanziaria – la distinzione in base alle classi fiscali – spettava al marito e non a colei che lavorava in casa[4].

Con questi contributi né la donna né il suo lavoro venivano pagati, e quest’ultimo era e continuava a essere non pagato pur rendendo possibile il suo sfruttamento. Esso, infatti, consisteva nel fatto che la donna, dipendente finanziariamente dal marito, lesinava sul suo salario familiare insufficiente in modo che il costo della vita scendesse, consentendo così al datore di lavoro di mantenere basso il salario dell’uomo; viceversa, il lavoro non pagato della casalinga consentiva di risparmiare più denaro di quello che si poteva sperare di ottenere grazie a un’attività professionale sottopagata in qualità di «percettrice di un ulteriore salario». Ida Tarbell, una delle più acute critiche sociali del suo tempo – anche se non su questa faccenda – ci fornisce una delle formulazioni più precise di questo insieme di questioni:


L’aumento del costo della vita si acuisce notevolmente nella classe dei lavoratori salariati in maniera proporzionale al tipo di management con il quale viene amministrato il salario. Di norma i prezzi salgono più velocemente dei salari – ed è possibile far fronte alla situazione solo grazie ad un’amministrazione domestica razionale. Sarebbe un disastro se si volesse affrontare la situazione mandando la madre a lavorare. Il suo salario non potrebbe mai controbilanciare ciò che andrebbe perso trascurando la gestione della casa. Perciò credo che la gestione scientifica della casa abbia un significato fondamentale, se vogliamo risolvere il problema del carovita[5].

 

Con questa saggia aggiunta di un circolo vizioso si chiude un processo che nel 1973 il noto economista John Kenneth Galbraith, sotto l’influsso del movimento femminista, descriveva in questo modo:


La trasformazione delle donne in un una classe criptoservile fu un risultato economico di primaria importanza. Mentre soltanto una minoranza della popolazione preindustriale disponeva di servi salariati, la moglie-domestica è disponibile, democraticamente, per quasi tutta l’attuale popolazione maschile[6].

 

È possibile riassumere questo insieme di questioni nel seguente modo: il passaggio dalla prima fase pauperistica dell’accumulazione del capitale – che aveva a disposizione un’offerta pressoché inesauribile di forza lavoro – al capitalismo riformatore del xx secolo – che prevede salari più alti e una regolazione del mercato del lavoro – è stato possibile solo a discapito delle donne e come reazione alle loro lotte e al movimento femminista a partire dalla metà del xix secolo: cioè, attraverso la creazione, l’universalizzazione e l’istituzionalizzazione del lavoro domestico. Questa sussunzione del lavoro domestico al capitale deve essere compresa su due fronti: da un lato, si cominciarono a pagare salari più alti agli uomini, abbastanza alti da consentirgli di tenere una donna in condizioni di dipendenza sessuale ed economica; dall’altro, la sottomissione della donna e l’affermazione della famiglia come forma di organizzazione del lavoro domestico non pagato nella classe lavoratrice rese possibile il pagamento ai lavoratori di salari inferiori a quelli resi necessari dalla lotta di classe fino alle rivoluzioni del 1917-1919. In un certo senso il capitale rendeva disponibile ai lavoratori in sciopero le donne come forma di compensazione, e la misoginia del movimento operaio li spinse ad accettare questo scambio. L’abbassamento del valore della merce forza-lavoro e del suo prezzo sul mercato del lavoro non accadde – come sostiene secondo differenti versioni ancora oggi il socialismo – attraverso la «concorrenza sporca» delle donne (che di contro vennero ingabbiate attraverso l’istituzionalizzazione di un doppio mercato del lavoro attraverso salari femminili più bassi), ma grazie allo sfruttamento delle donne da parte degli uomini. Grazie al fatto che le donne svolgevano per gli uomini un lavoro essenzialmente non pagato, è stato possibile fino a oggi pagare agli uomini salari inferiori, ed è perciò possibile obbligare uomini (e donne) a quel lavoro in parte non pagato, che si trasforma in capitale. In cambio di un singolo salario, l’imprenditore e lo stato ottengono due forze lavoro, il rapporto di salario nasconde il lavoro gratuito della donna, tutto il lavoro appare come lavoro pagato o lavoro salariato, e viceversa: ciò che non viene compensato con un salario, non si presenta come lavoro. Le donne non sono solo il «cuore della famiglia», ma anche il cuore del capitale. Si dà per scontato di potersi servire gratis del loro amore, della loro «natura», del loro lavoro. Ciò diventa chiarissimo nel periodo della Prima e della Seconda guerra mondiale, nelle situazioni estreme della crisi e della guerra: durante la Prima, il lavoro salariato viene ridotto e il lavoro gratuito immensamente ampliato, fino all’ultimo pilastro dell’insieme sociale (da ultimo è, quindi, il fatto che il lavoro domestico non fosse pagato a costituire la base del ciclo delle crisi capitalistiche)[7]; nella Seconda, gli uomini vengono indotti a un lavoro improduttivo-distruttivo, e dietro la linea del fronte tanto il lavoro pagato quanto quello non pagato diventano una cosa che riguarda le donne.

 

Salario per il lavoro domestico

 Il processo che ha portato molte attività di gestione e di realizzazione di manufatti dall’interno all’esterno della casa nella produzione organizzata in chiave industriale sulla base della divisione del lavoro, della cooperazione, del salario e del profitto – che di norma prende il nome di socializzazione e che ha sottratto alle donne alcuni lavori pesanti – è andato avanti fino alla seconda decade del XX secolo. Poi sembra essere andata incontro a un arresto e negli anni Venti sembra essersi innescato un movimento all’indietro che è possibile vedere nel regresso delle forme abitative collettive o che non si basano sulla famiglia tanto in Russia, quanto nell’Europa centrale e occidentale e negli Stati Uniti: le boarding houses negli Stati Uniti, le comuni abitative nell’Urss[8]. Dato che la gestione della casa e il lavoro domestico non sono stati oggetto di ricerca sul piano storico, di questo processo non si sa molto; è logico pensare che esso vada messo in connessione con il regresso a livello mondiale del movimento femminista e con lo sviluppo del movimento operaio e dello Stato al quale si è fatto prima riferimento. In questo contesto, è possibile precisare in modo ancora più chiaro una delle ragioni della riprivatizzazione di quello che prima era lavoro domestico socializzato: cioè, il fatto che esso, nella sua forma privata, rimanesse non pagato. Per quanto risultasse meno efficiente sul piano tecnico e su quello organizzativo, esso era più efficiente dal punto di vista del valore, cioè era più a buon mercato e con ciò più redditizio di quanto fosse nella sua forma industrializzata, per la quale si sarebbe dovuto corrispondere un salario – anche se si fosse trattato solo del lavoro delle donne delle pulizie. È esemplare il caso del bucato che fino alla Prima guerra mondiale negli Stati Uniti e in Europa si faceva sempre di più – e si continuava a farlo – in lavanderie pubbliche, in parte gestite dalle comunità, in parte da imprese sotto forma di lavoro salariato; si distribuiva il bucato, e in Europa le donne si occupavano di lavare ancora i panni presso lavatoi comuni nei villaggi. Solo negli anni Venti le lavanderie pubbliche vennero sostituite dal boom delle lavatrici private, l’aggressiva politica di mercato dei produttori di lavatrici intensificò gli effetti degli elevati costi salariali per i servizi[9]. Questo processo venne reso possibile dal punto di vista tecnologico grazie alla realizzazione di un piccolo motore elettrico che, a differenza della macchina a vapore che era del tutto inadatta a questo scopo, con l’elettrificazione delle case consentì di collocare la fabbrica nella casa – e ciò senza i suoi salari, i suoi problemi salariali, le sue lotte per il salario. Anche qui abbiamo a che fare con un progresso che solo marginalmente è in effetti soltanto tecnico, abbiamo viceversa a che vedere con una scelta politico-economica nel senso più ampio del termine a favore di una tecnologia adatta tra tante altre, come accade in generale alla questione della centralizzazione e della decentralizzazione, della «grande» e della «piccola» fabbrica, dell’agglomerazione e della divisione della forza lavoro. A prescindere dalla sua «maggiore» efficienza nella dimensione psichica e sessuale del ruolo della donna, la riprivatizzazione dell’organizzazione del lavoro domestico grazie al motore elettrico di piccole dimensioni rispondeva a un criterio essenziale della razionalizzazione taylorista che ricordava ai suoi operai come l’efficienza della redditività finanziaria concreta nel lungo periodo prevalesse sull’efficienza della ragione che riflette in modo tecnico e astratto del lavoratore addestrato[10].

Quali sono le ragioni socio-politiche di questo processo? Per rispondere a questa domanda bisognerebbe ripercorrere, al di là dell’ambito tracciato sin qui, la storia sociale dimenticata delle lotte delle donne dentro e fuori il vecchio movimento femminista, e rivedere i metodi con i quali esse sono state di fatto bloccate o espunte dalla memoria storica. Si tratta in ogni caso di reazioni alle tendenze radicali del movimento femminista, dominanti fino agli anni Ottanta dell’Ottocento, e alle lotte meno note avvenute in seguito, incluse quelle che si manifestarono nella riduzione statistica delle nascite[11] – una sorta di vittoria preliminare su un movimento il cui contenuto originario non era affatto il diritto di voto o il «diritto» a lavorare di più e al doppio turno, piuttosto l’indipendenza delle donne e il loro diritto a lavorare meno. Allora era emersa in modo solo marginale quella richiesta di pagare il lavoro domestico che solo a partire dalla fine degli anni Sessanta con il nuovo movimento femminista è divenuta oggetto di un movimento vero e proprio[12]. All’inizio del xx secolo esso era finito in secondo piano rispetto alle richieste delle quali si facevano portatrici le donne borghesi e le donne socialiste che riguardavano l’ammissione nel mondo del lavoro «maschile» («Give us labour and the training which fits for labour»[13]) e richiedevano il disbrigo socializzato e industriale del lavoro domestico[14].

Presto, soprattutto durante la crisi degli anni Trenta, si vide che «la produzione domestica continuava a fare concorrenza alla produzione industriale di massa perché il lavoro per creare molti dei suoi prodotti non produceva costi»[15]. Dopo la sua sconfitta negli anni Venti, quando il lavoro domestico moderno si affermò e si generalizzò in via definitiva, nessun movimento di donne che volesse una liberazione reale poté più richiedere la socializzazione o – detto in modo più preciso – il superamento del lavoro domestico, senza lottare allo stesso tempo per la sua retribuzione; e, quindi, salario tanto per il lavoro socializzato quanto per quello che non era socializzato né socializzabile. Solo il rifiuto del lavoro domestico, com’è stato messo in pratica dal nuovo movimento femminista, quale metodo di lotta e quale contenuto della lotta, è in grado – e deve – imporre questa richiesta. Solo se la produzione e la riproduzione della forza lavoro verranno retribuite come tutti gli altri lavori, diventerà visibile e acquisterà valore sul piano sociale, solo allora verranno impiegate quelle tecnologie che lo riducono davvero, le donne diverranno materialmente indipendenti e così in grado di mettere in questione questo lavoro e la sua organizzazione che sin qui sono valsi come espressione della loro natura. Solo quando verrà rotta l’equivalenza tra lavoro e amore, tra lavoro e natura, quando si chiamerà lavoro ciò che è lavoro, noi donne potremo affrontare questo lavoro e riscoprire o decidere in modo autonomo che cosa sono amore e natura: una sessualità che non è sottoposta all’imperativo della produttività. Se noi non disciplineremo né addestreremo la forza lavoro per altri – né quella dei bambini, né quella di uomini e donne, né la nostra – non ci sarà più lavoro domestico. La sua distruzione non è un’utopia, essa diventerà una parte della realtà in questa lotta contro la menzogna del profitto del «servizio per amore» della natura femminile.



Note

[1] Nevada Davis Hitchcock, The Relation of the Housewife to the Food Problem, «Annals of American Academy of Political and Social Science», 74, 1917, pp. 130-140, in particolare p. 130

[2] Ida M. Tarbell, The Cost of Living and Household Management, «Annals of American Academy of Political and Social Science», 48, 1913, p. 127; Benjamin R. Andrews, Thrift as a Family and Individual Problem. Some Standard Budgets, «Annals of American Academy of Political and Social Science», 87, 1920, pp. 11-12.

[3] Paul H. Douglas, Wages and Family, University of Chicago Press, Chicago 1925; Scott Nearing, Financing the Wage-earner’s Family. A Survey of the Facts Bearing on Income and Expenditures in the Families of American Wage-earners, B.W. Huebsch, New York 1913; cfr. Paul H. Douglas, Real Wages in the United States, Houghton Mifflin Company, Boston 1930; Henry Ford, La mia vita e la mia opera, Apollo, Bologna 1925, in particolare il capitolo Salari.

[4] In Germania si parlava di salario sociale o familiare, di assegni familiari [Hausstandsgeld], assegni alle donne [Frauengeld] e di assegni per i figli [Kindergeld]. L’imposta sul reddito fu introdotta in Germania con la riforma fiscale di Erberger del 1920 – non a caso poco dopo la rivoluzione! – e con la riforma di Popitz del 1925 si intensificò l’attenzione alla condizione delle famiglie. A proposito della relazione tra la struttura familiare e la politica finanziaria statale nel Nazionalsocialismo che, per ciò che riguarda la Germania, deve essere vista come l’apice dell’imposizione del lavoro domestico, come accade anche negli Stati Uniti durante la crisi degli anni Trenta, cfr. Tim Mason, Zur Lage der Frauen in Deutschland 1930-1940. Wohlfarht, Arbeit, Familie, «Gesellschaft. Beiträge zur Marxschen Theorie», 6, 1976, pp. 118-193. In questa prospettiva, lo sviluppo del sistema di tassazione negli Stati Uniti avvenne, tuttavia, in modo diverso rispetto alla Germania, almeno a livello federale: la tassa federale sui redditi introdotta nel 1913 passò dall’essere una rich man’s tax a una people’s tax solo dopo la riduzione del limite della franchigia avvenuta solo più tardi, cioè all’inizio degli anni Quaranta. Per il caso francese cfr. gli importanti riferimenti che si trovano in H. Hatzfeld, Du pauperisme à la sécurité sociale, 1850-1940, Armand Colin, Parigi 1971, capitolo 7 Le cas des Allocations familiales.

[5] Tarbell, The Cost of Living, cit., pp. 127-129.

[6] John Galbraith, L’economia e l’interesse pubblico, trad. it. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 1974, p. 48.

[7] Cfr. Samuel A. Stouffer e Paul F. Lazarsfeld, Research Memorandum on the Family in Depression, Social Science Research Council, New York 1937; Marie Jahoda, Paul F. Lazarsfeld e Hans Zeisel, Die Arbeitslosen von Marienthal, Leipzig, Hirzel 1933; Winona L. Morgan, The Family Meets Depression, University of Minnesota Press, Minneapolis 1939; Simon Kuznets, National Income and Its Composition 1919-1938, National Bureau of Economic Research, New York 1941, p. 432.

[8] A questo proposito v. Arthur W. Calhoun, Social History and the American Family, vol. 3, Artur Clark&Co, Cleveland 1919.

[9] Heidi I. Hartmann, Capitalism and Women’s Work in Home, 1900 1930, tesi di dottorato, Yale University, 1975, pp. 275-379 (Laundry. A Case Study). A proposito della riprivatizzazione delle condizioni abitative e riproduttive nell’Urss degli anni Venti, dove di fronte ai costi elevati della «socializzazione» si tornò alla gratuità privata e femminile, cfr. Lutz Holzinger, Gesellschaftliche Arbeit und private Hauswirtschaft. Theorie und Kritik des Reproduktionsbereich, Reith, Stanberg 1974, pp. 93-101. Questo libro, che altrimenti parla molto di rado di donne, costituisce un esempio di dogmatismo misogino volgare, che deride il materialismo (per esempio: «Immune dai rapporti di sfruttamento e dalla forma merce, il consumo privato, che ritrasforma la merce da valore per lo scambio in valore d’uso [...]. Il nesso obiettivo tra la loro [del lavoratore salariato] produzione sociale e la riproduzione della loro forza lavoro, tra lavoro e non [!!!] lavoro», pp. 15-18).

[10] Hugh G.J. Aitken, Taylorism at Watertown Arsenal, Harvard University Press, Harvard 1960, p. 30. Nonostante tutta la sua morale dell’efficienza, l’estraneità idealistica di Charlotte Perkins-Gilman di fronte a queste priorità del capitalismo emerge in un ragionamento che torna più volte nei suoi scritti: Perkins-Gilman valuta in una proporzione di quattro quinti lo «spreco di forza-lavoro» nella cura privata della casa; in grandi impianti servirebbe un quinto di forza lavoro qualificata per assolvere le stesse mansioni. Bene sin qui. «Valutiamo – prosegue l’autrice – l’attuale valore di mercato del lavoro femminile 1,50 dollari al giorno in base al salario delle donne delle pulizie, e supponiamo di avere 15 milioni di casalinghe che lavorano, in questo modo il loro lavoro vale approssimativamente 7,5 miliardi di dollari all’anno. Un quinto di loro potrebbe svolgere il lavoro al prezzo di 1,5 miliardi, che comporterebbe un risparmio annuale di 6 miliardi, circa 300 dollari a famiglia». Questo calcolo ignora che «le famiglie» non risparmiano assolutamente nulla poiché non pagano le casalinghe; gli 1,5 miliardi necessari devono essere pagati dagli «utilizzatori» – e qui diventa un affare in perdita. Se, però, si osa scaricali sullo Stato e, in questo modo, sui profitti, non si può più parlare di efficienza: perché, per quanto Gilman conferisca un valore elevato al lavoro domestico, sulla base del salario delle donne delle pulizie o dei redditi delle direttrici d’impresa, l’efficienza capitalistica consiste nel fatto che il contributo in effetti non viene pagato. Gilman rigetta nettamente l’ipotesi di pretenderlo dallo Stato e contro di esso a favore delle donne perché la dipendenza della donna sta proprio nel condurre un’esistenza parassitaria: ricevere senza dare (Charlotte Perkins-Gilman, The Waste of Private Housekeeping, «Annals of American Academy of Political and Social Science», 48, 1913, p. 92; Perkins-Gilman, The Housekeeper and the Food Problem, «Annals of American Academy of Political and Social Science», 74, 1917, p. 129; Perkins-Gilman, Women and Economics, (1898), Harper & Row, New York 1966., p. 15).

[11] Il miglior compendio sul movimento femminista negli Stati Uniti resta Eleanor Flexner, Century of Struggle, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1975. Per ricostruire in chiave storica lotte invisibili o divenute tali è necessario trovare nuove fonti o leggere quelle vecchie in modo nuovo. Come esempio vale qui la pena citare la nuova edizione di Women’s Cooperative Guild (a cura di), Maternity. Letters from Working Women, G. Bell & Sons, London 1915. Il testo è composto da 160 lettere brevi che costituiscono delle descrizioni della vita di mogli casalinghe di lavoratori inglesi osservate dal punto di vista della maternità. A fronte della generale mancanza di testimonianze scritte di donne di questo tipo, questo è un documento unico e non fornisce solo un’impressione della povertà e della monotonia delle loro vite ma anche delle loro lotte ininterrotte nell’ambito domestico: per tenere il marito lontano dal proprio corpo e ridurre la miseria, le malattie e il lavoro legati a una prole numerosa. Il rifiuto dell’eterosessualità come rifiuto del lavoro domestico si trova anche in un noto classico della sociografia: Hellen Merrell e Robert S. Lynd, Middletown, Comunità, Milano 1970-1974, cap. 10 Matrimonio. Le risposte delle donne intervistate si distinguono profondamente rispetto a quella che negli anni Trenta si sarebbe definitivamente affermata come una forma di «pazzia femminile». Alla domanda circa che cosa farebbero in una giornata libera dal lavoro, nessuna donna rispondeva spontaneamente di volerla trascorrere con il proprio marito (p. 129).

[12] A proposito di precedenti richieste di pagamento del lavoro domestico: Robert W. Smuts, Women and Work, New York, Columbia University Press 1971, p. 133; nella lettera 87 della raccolta Maternity già citata, la moglie di un minatore pretende il pagamento del suo lavoro domestico, nella stessa misura nella quale viene pagato quello di suo marito. Cfr. Hildegard Kneeland, Women’s Economic Contribution in the Home, «Annals of American Academy of Political and Social Science», 160, 1929, pp. 33-40, questo saggio discute la possibilità di un «salario per il lavoro domestico» (come accade anche in Germania v. Käte Schirmacher, Die Frauenarbeit im Hause, ihre ökonomische, rechtliche und soziale Wertung, Dietrich, Leipzig 1912). Poiché l’autrice è in grado di pensare questo salario solo come il pagamento da parte del marito che percepisce un reddito – nella forma della sua divisione a metà tra marito e moglie –, la sua proposta resta molto lontana dalla richiesta dell’indipendenza economica per la donna. Come avvenuto sino a allora, il pagamento sarebbe, infatti, passato dal marito e quindi, detto francamente, sarebbe passato per una sorta di prostituzione: il salario dell’uomo sarebbe stato talmente ridotto e quello della donna talmente basso che di fatto entrambi sarebbero rimasti incatenati l’uno all’altro, la pura e semplice redistribuzione entro la classe lavoratrice. Le cose stanno diversamente per il nuovo movimento per il salario al lavoro domestico che richiede il pagamento allo Stato e, in questo modo, pretende una «redistribuzione» tra la classe che incassa il profitto e quella che lo produce, ove la seconda è fatta soprattutto di lavoratrici della casa non pagate. (Al contrario di quanto fa Robert Lekachman, che lega la richiesta rivolta allo Stato a una riduzione del reddito maschile: una delle molte soluzioni riformiste, la cui teoria è stata concepita prima che alle donne venisse riconosciuto un reddito anche solo sul piano teorico v. Robert Lekachman, On Economic Equality, «Signs», i, 1, 1975, pp. 93-102. Tra i testi più importanti della campagna femminista per il salario al lavoro domestico ci sono, in tedesco, Mariarosa Dalla Costa, Die Macht der Frauen und der Umsturz del Gesellschaft, Merve Verlag, Berlin 1973 (ed. it. Potere femminile e sovversione sociale. Con Il posto della donna di Selma James, Marsilio, Venezia 1972; ora anche in Mariarosa Dalla Costa, Donne e sovversione sociale. Un metodo per il futuro, Introduzione di Anna Curcio, ombre corte, Verona 2021); Mariarosa Dalla Costa, Frauen in der Offensive: Lohn für Hausarbeit, oder: auch Berufstätingkeit macht nicht frei, Trikont, München 1974. Questa traduzione (purtroppo carente per molti aspetti) contiene testi tratti da: L’offensiva, «Quaderni di lotta femminista», 1, 1972 e da Power of Women Collective in London. Per quanto riguarda l’Italia si vedano inoltre Il personale è politico, «Quaderni di lotta femminista», 2, 1973; Collettivo Internazionale Femminista, 8 marzo 1974. Giornata internazionale di lotta delle donne, Venezia, 1975; Collettivo Internazionale Femminista, Aborto di stato. Strage degli innocenti, Venezia, 1976; Collettivo Internazionale Femminista, Le operaie della casa, Marsilio, Padova 1975 e i cinque numeri dell’omonima rivista pubblicati a partire dal 1974. Per gli Stati Uniti, l’Inghilterra e il Canada v. Silvia Federici, Wages against Housework, Falling Wall Press, London 1975; Silvia Federici e Nicole Cox, Counterplanning for the Kitchen, Falling Wall Press, London 1975 (trad. it. Contropiano dalle cucine, in Ead., Il punto zero della rivoluzione, Lavoro domestico, produzione e lotta femminista, a cura di Anna Curcio, ombre corte, Verona 2020 2 ); Selma James, Sex, Class and Race, London, Falling Wall Press 1975; Selma James, Women, the Unions, and Work, London, Falling Wall Press 1972; Wages For Housework, Women Speak Out, Amazon Press, Toronto 1975; Women in Struggle, vol. 1-3, Toronto-New York, 1975; «Power of Women. Magazine of the International Wages for Housework Campaign», 1972. Nell’ambito della campagna per il salario al lavoro domestico nella Germania Occidentale, a partire da febbraio 1977, è stata pubblicata la collana Lohn für Hausarbeit. Materialien zu einer feministischen Strategie, i cui primi volumi sono: Pieke Biermann, Das Herz der Familie, [stampato in proprio], Berlin 1975; Selma James, Frauen gegen den Staat. Alleistehende Mütter kämpfen um Geld. Si veda inoltre il focus Lohn für Arbeit, «Courage», 3, 1977.

[13] Olive Schreiner, Woman and Labor, Frederick A. Stokes, New York 1911, p. 29

[14] Queste richieste, con accenti diversi, sono state avanzate anche dal cosiddetto domestic feminism che, come fa Gilman, denuncia la mancanza di efficienza nell’economia domestica privata (si veda per esempio il saggio di Catharine E. Beecher e Harriet Beecher Stowe, The American Woman’s Home, J.B. Ford and company - H.A. Brown & co., New YorkBoston 1869, p. 333-334). La distanza su molte questioni tra il femminismo domestico e quello orientato al diritto di voto e all’industria sembra essere inferiore rispetto a quanto lascino intendere alcune rappresentazioni comuni, soprattutto quelle diffuse tra alcune parti del femminismo «borghese» e del femminismo «socialista» («proletario»): per esempio, per ciò che riguarda il loro atteggiamento rispetto alla morale dell’efficienza e altre questioni socio-politiche (cfr. infra nota 42). Il femminismo delle casalinghe che ci sta dietro o che li attraversa resta ancora per gran parte da ricostruire – un compito che non spetta tanto alla «teoria femminista» quanto piuttosto alla storiografia femminista che non intende il femminismo come una nuova ideologia ma come lotta delle donne e come potere delle donne. Sui nuovi percorsi di ricerca nella storiografia delle donne v. Gerda Lerner, The Majority Finds Its Past, «Current History», 70, 416, maggio 1976, pp. 191-197, 231; Berenice A. Carroll (a cura di), Liberating Women’s History. Theoretical and Critical Essays, University of Illinois Press, Chicago 1976; Lois Banner e Mary Hartmann, Clio’s Consciousness Raised. New Perspectives on History of Women, Harper & Row, New York 1974.

[15] Margaret Reid, The Economics of Household Production, J. Wiley & Sons, New York 1934, p. 201 (per la citazione v. Hartmann, Clio’s Consciousness Raised, cit., p. 26s.).


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Gisella Bock è una storica tedesca, teorica femminista militante, tra le promotrici della campagna internazionale Salario al lavoro domestico.

 

Barbara Duden è una storica sociale tedesca, teorica militante, sin dagli anni Settanta, nel movimento femminista tedesco.

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