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La sete del mondo





Lo sherpa a volte ha sete, si ferma, beve e guarda avanti, sa che quel gesto, semplice e quotidiano, potrebbe diventare un ricordo. Con Roberto Marcatti, che se ne occupa da decenni, affrontiamo qui una panoramica su alcune tematiche legate all’acqua.


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Acqua e sostenibilità

«Il pensiero ecologico può oggi fornire la più rilevante sintesi di idee che vi sia stata dopo l’Illuminismo. Può aprire prospettive per una pratica che possa veramente cambiare l’intero paesaggio sociale dei nostri tempi», Murrey Bookchin, filosofo, sociologo, storico ambientalista e saggista americano (1921 – 2006).


L’economia fondata sul consumo indiscriminato delle risorse naturali, consumi di massa a basso costo, prodotti fatti prendendo a prestito le risorse dal futuro creano un debito ecologico. Consumiamo più risorse (compresa l’acqua) di quanto la Terra è in grado di (ri)generare.

Per far crescere l’economia usiamo un terzo in più delle risorse che il nostro pianeta rinnova ogni anno, prendendo la differenza dalle risorse non rinnovabili. Se nel 2030 l’umanità conterà 9 miliardi di persone, e se queste consumassero, come attualmente fa un cittadino degli Stati Uniti, avremmo bisogno di altri sei pianeti, pari ad altri 2.000 chilometri cubi di acqua dolce per sfamarci tutti.

Ma non esiste un pianeta di scorta e, poiché la nostra esistenza dipende proprio dalle sue sorti, dovremmo cominciare a preoccuparcene di più.

Ricordo sempre questo dato che a tanti fa storcere il naso, oggi il rinomato e blasonato «Design», lavora per il 10% del mondo, è ora che i progettisti si occupino veramente di progetti e prodotti di solidarietà, molto più importanti e significativi dei soliti oggetti visti al Salone del Mobile.

È ora che le Aziende capiscano che è il momento di avere più eticità e sostenibilità dei loro cicli produttivi e dei loro prodotti, con una responsabilità di impresa e sociale diversa.

È ora che i consumatori, noi tutti, capiscano l’importanza di non sprecare le risorse ambientali, di avere maggior rispetto e cura di elementi fondamentali per la nostra vita, l’aria, la terra, l’acqua.

Ma in questo mondo occidentale viziato dalle comodità, c’è un’altra parte del mondo che non ha mezzi per la sopravvivenza, che chiede progetti di collaborazione e prodotti per il trasporto, per la potabilizzazione e per la sanificazione dell’acqua, che chiede forse degli oggetti che li facciano vivere meglio, e noi progettisti dobbiamo impegnarci in questo nuovo modo di fare il nostro lavoro.

Accanto ai principi di sempre, forma e funzione, si sono affermati in questo breve tempo, come elementi di giudizio la sostenibilità, la riduzione dei consumi, il design for all.

Perché essi non restino sola dichiarazione di principio è necessario però che, in modo ancora più incisivo ed influente, questi elementi siano in grado di determinare l’assegnazione dei plus futuri sui consumatori. Solo in questo modo, creando quindi anche una coscienza ambientale ed ecologica nei consumatori, questi prodotti potranno contribuire ad indirizzare il progetto verso nuovi stili di vita, sempre più verso una maggiore sostenibilità.

L’inquinamento, il consumo delle risorse, l’inefficienza dei nostri sistemi di riciclo, sono ormai temi cari a tutti, com’è chiaro che il problema sia da affrontare in ogni occasione possibile, anche e soprattutto nel design attraverso la progettazione di nuove famiglie di prodotti e di sistemi.

Il contributo dei designer e delle aziende deve essere focalizzato sullo sviluppo di strategie in questa direzione, creando nuove figure professionali che abbiano parametri e conoscenze diverse dalle attuali, ma avendo sempre in testa, ed essendo consapevoli che progettare prodotti significa partecipare ad un modello di sviluppo dei consumi.

Più avanti analizzeremo questo aspetto da diversi punti di vista, di esponenti dell’economia, del marketing, del progetto, e dalla parte dei consumatori, cioè dalla parte di noi tutti.[[[

Forse però un design più attento alle reali necessità delle persone («Design for the other 90%», vedi mostra e catalogo a cura di Cyntia E Smith, Cooper Unit, New York) e alle loro attuali priorità potrà favorire il consumo di prodotto più utili socialmente, più durevoli, più sicuri, e garantire un godimento estetico e funzionale nel rispetto dell’ambiente e delle risorse a nostra disposizione.

Forse non vogliamo smettere di consumare né di desiderare o di sognare, ma possiamo farlo in modo diverso e migliore, riducendo gli sprechi inutili, dando delle priorità ai nostri bisogni, pensando non solo a noi stessi e al tempo che viviamo, ma anche alle generazioni future.

Ritengo dai dati e dai nostri studi, che aumenterà a breve ed in parte è già aumentato, il consumo di prodotti “intelligenti”

Per la produzione dei quali è necessaria creatività e conoscenza dei materiali di secondo ciclo di vita, delle tecnologie e delle innovazioni che materiali e tecnologia oggi offrono.

Penso anche che la creatività non debba essere necessariamente associata solo al formalismo, quanto piuttosto alla capacità di prevenire i bisogni e nella risoluzione dei problemi annessi.

Ad un approccio edonistico si sostituirà un approccio più etico, più consapevole, che ha poco a che fare con la morale e molto con l’onestà intellettuale.

Forse questi cambiamenti indotti e messi ancora più in evidenza dalla crisi economica e dalla pandemia ancora in atto mentre scrivo questo testo, dovrebbero essere colti come un’opportunità, per resettare comportamenti e stili di vita che difficilmente potranno tornare e che hanno generato una dispersione di energia e di cumuli di prodotti e oggetti che hanno riempito le nostre case, in alcuni casi senza essere mai usati.

Abbiamo vissuto un’epoca del consumismo irripetibile, ubriachi e di cui forse eravamo in stato di dipendenza cronica, del marchio, del brand, delle ricerche di mercato, degli exit pool, bisognava avere a tutti i costi l’ultimo modello di scarpe, o l’ultima giacca di una nota firma, oppure la vacanza top in qualche relais esclusivo.

Forse la cultura del progetto deve tornare alle soluzioni individuali, al diverso, all’unicum, alla rivalutazione di certe pratiche artigianali e a chilometri zero che stanno sempre più scomparendo, alla cultura del riutilizzabile, dell’oggetto multifunzione, al fatto che le future merci siano una volta dimesse, valore per altre merci future da progettare ed utilizzare.

Più prodotti veri, più idee, e una cultura del progetto più consapevole e più etica, potranno essere le chiavi di lettura per la risoluzione di problemi ambientali e sociali, temi oramai improrogabili e che saranno la sfida dei prossimi anni.

Da anni non sospetti cerco di praticare questa teoria e modalità di vita nei confronti del mio prossimo proponendo progetti sociali, etici e sostenibili attraverso l’Associazione No Profit H2O Milano, costituita insieme a Cintya Concari, proprio a sostegno di una sperimentazione volta a migliorare il mondo, una sorta di volontariato laico a favore dell’umanità e del Pianeta.


Acqua e cibo

Food design. Esiste davvero una forma dedicata al cibo? Il packaging degli alimenti, l’estetica del piatto preparato, la precisione degli strumenti che servono per cucinare, la definizione stessa dell’ambiente che accoglie il rituale del cibo non avvengono ormai in modo spontaneo e casuale ma hanno molto a che fare con il design.

Anche perché nella nuova tendenza di «consumi intelligenti» rientra l’interesse per le performance che consentono di trovare piacere nel mangiare non solo con la bocca ma anche con gli occhi.

Se poi il tutto è anche un mangiare con prodotti stagionali, biologici, e a km zero, direi cha abbiamo fatto bingo. È cambiato il modo di mangiare, e le ore in cui si mangia. Cibo di strada, happy hours,

aperitivi, slow food, fast food, green food, dieta mediterranea, cibi biologici, etnici, interculturali, e

gruppi di acquisto solidali, ecc.

In pochi anni è cambiato il mondo, anche se è anche aumentato il numero delle persone che sono malnutrite e, al contrario, soprappeso, non c’è ancora una vera e propria attenzione, nel saper scegliere e o fare degli acquisti limitandosi a cibarsi, chi può, dei prodotti stagionali e territoriali, in modo da essere virtuosi anche nel cibo. Sempre più centri di ricerche e Fondazioni, in funzione di studi sulla alimentazione stanno cercando di capire quali possono essere le variabili possibili per garantire cibo a tutti in egual misura, senza un maggior sfruttamento ed inquinamento del nostro Pianeta. Anche un grande gruppo dell’agro alimentare come Barilla, si è dotata di una fondazione:

Barilla Center For Food Nutrition, dove la missione dichiarata è appunto lo studio e le proposte sui grandi temi legati al mondo dell’alimentazione e della nutrizione, partendo appunto dall’acqua, elemento di trasformazione del nostro cibo. Ma anche mangiare meno carne potrebbe essere la soluzione alla fame nel mondo. La rinuncia a bistecche e cotolette (a me care) nei Paesi sviluppati può spingere gli allevatori a diminuire il numero di animali da macello, cedendo all’agricoltura i terreni dedicati al pascolo e alla produzione di mangime. Conseguenza: più grano e cereali per tutti. Oggi l’80% del terreno mondiale è utilizzato direttamente o indirettamente dalla zootecnia. Con una resa piuttosto bassa: l’allevamento produce il 15% delle calorie totali. Senza contare che il bestiame incide sull’effetto serra: i bovini emettono metano e il loro mantenimento genera molta anidride carbonica. Per tornare ad una dieta settimanale «low meat», secondo alcuni studiosi, (70 grammi di manzo e 325 grammi di pollo/uova) si liberano 15 milioni di chilometri quadrati di campi coltivabili e si abbattono due terzi delle emissioni di CO2 entro il 2050. Fate anche conto che per 1 Kg di carne di manzo ci vogliono 15.000 litri di acqua.

Sono molte le mostre e si eminari sul tema del cibo, della giusta nutrizione e apporto calorico, della cultura del cibo, in particolare, mi ricordo quella svolta alla Triennale di Milano, dal titolo Paesaggio Domestico, e quella itinerante organizzata dal Gruppo Zeus che nel 1987, da titolo Desco, iniziava in un modo alternativo e fuori dai canoni istituzionali a parlare del rapporto tra cibo e design durante uno dei primi Fuori salone. Avevano partecipato Ron Arad, Pucci De Rossi, Francois Bauchet, Mattia Bonetti, Martin Szekely, Ginbande, e Robert Wettstein, oltre che al gruppo Zeus al completo. Da allora eventi e performance, spettacoli e chef, paragonati a guru e a star hollywoodiane, si sono succeduti con ritmo sempre più insistente, anche se per me sono sempre più importanti le ricerche e le motivazioni che associano diverse discipline nello studio di nuovi modelli di consumo, di nuovi stili di vita.

Un dato che mi ha stupito ed interessato venuto fuori da uno studio dell’Università Bicocca è che ogni milanese getta nei rifiuti circa mille euro di cibi ancora sigillati, dalle uova allo yogurt, si butta via uno stipendio l’anno. In Gran Bretagna esistono società che ritirano dal mercato prodotti prossimi alla scadenza e li rivendono via internet per il pronto consumo a prezzi ovviamente calmierati. La filosofia è di trasformare lo spreco in risorsa, bisogna educare la popolazione al consumo sostenibile, sia per ragioni economiche, sia per l’attenzione all’ambiente.

Forse l’iniziativa che qualche anno fa’ lo chef Vito Nolè ha realizzato e cioè l’aperitivo anti spreco in Stazione Centrale per 5 mila persone può essere un modo e un mezzo per sensibilizzare i cittadini sull’importanza del recupero domestico degli alimenti.

D’altro canto i nostri vecchi, che erano sicuramente più saggi di noi, hanno da sempre eseguito questa pratica, basta pensare ad alcuni piatti tipici del riciclo delle materie dalle lasagne, alle polpette, dal caciuco alla livornese alla torta di pane, all’uso in modo alternativo della frutta e della verdura con crostate e torte di verdura, ecc.

Il circolo virtuoso dell’agricoltura aveva, sino a poco tempo, fa altre pratiche, sopravvissute a una antica tradizione, che contribuivano a fare della fertilizzazione della terra una attività tutta interna a un’opera di riciclaggio dei materiali disponibili. Gli agricoltori, ad esempio, andavano acquistando o raccogliendo i rifiuti urbani quali spazzatura organica, residui della lavorazione del vino, dell’olio, della birra, ecc. per utilizzarli come materia concimante nei loro campi. Gran parte di ciò che la città produceva come scarto del consumo alimentare o delle lavorazioni artigianali ritornava alla terra per reintegrarla delle sostanze nutritive perdute attraverso lo sfruttamento agricolo.

Altro dato su cui riflettere è che il 70% della risorsa acqua viene usata in agricoltura per avere sempre e anche fuori dalle stagionalità frutta e verdura di ogni tipo che arriva da ogni parte del mondo, lasciando una impronta ecologia importante, vedi le tabelle di Hockestra (www.waterfoodprint.org)

Poi sono arrivati i concimi e tutto quel che sappiamo. Così, quel che mangiamo ha perso il gusto e le modalità temporali con le quali si aspettavano le primizie.

Tornare a un sano uso e sfruttamento della terra per la produzione del nostro cibo, senza sprechi e avanzi, è l’unica strada percorribile che ci è rimasta. Prima tutti capiamo questo, meglio è per l’ambiente e per eliminare le differenze tra un occidente, che consuma, mangia e butta risorse, e un sud del mondo che non ha cibo, non ha acqua.


Acqua e design

Il design sostenibile (chiamato anche «eco design» o «design ecologico») è la progettazione di un prodotto, di un sistema, sociale o economico, nel rispetto dell'ambiente.

L'intento del design sostenibile è quello di «eliminare completamente l'impatto negativo sull'ambiente attraverso un design intelligente e sensibile». La progettazione sostenibile coinvolge principi quali riduzione, riuso e riciclo, montaggio/smontaggio/autocostruzione, utilizzo di energie rinnovabili, riduzione delle emissioni nocive, scelta dei materiali, analisi, certificazione e dematerializzazione del prodotto-servizio.

I primi ad aver posto critiche riguardo il degrado ambientale, aprendo una significativa discussione dovuta all’espansione dell’attività industriale, sono i membri del movimento arts and crafts (1859-1900). Un esempio è https://it.wikipedia.org/wiki/William_MorrisWilliam Morris (1834-1895), il quale si dedicò ad una serie di attività e pratiche per raggiungere una migliore qualità della vita, degli oggetti e dell’ambiente.

Morris scriveva: «[…] ciascuno di noi è impegnato a sorvegliare il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, ciascuno con il suo spirito e le sue mani, nella porzione che gli spetta per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri». Chissà se era consapevole di aver definito lo «sviluppo sostenibile».

Le questioni teoriche iniziano ad avere un peso concreto sui progetti e sulle produzioni industriali di oggetti d’uso quotidiano quarant'anni dopo l'inizio del dibattito, che si aprì già tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta dove si riscontrano le prime prese di posizione nei confronti dei problemi ambientali. Alcuni esponenti della cultura del design spostarono la loro attenzione sulle problematiche legate alle responsabilità del progettista riguardo appunto il tema dei consumi. Un esempio è Tomas Maldonado nel saggio La Speranza Progettuale (1971), in cui integrava il proprio discorso critico riguardo alla società dei consumi con l'idea che si fosse persa appunto una «speranza progettuale» che lui stesso intendeva recuperare; oppure il movimento del Radical Design, detto anche Contro-design, con esponenti come Ettore Sottsass, Gaetano Pesce e Riccardo Dalisi.

Riuscire a preservare in modo dinamico un certo equilibrio ecologico che consenta alla specie umana di crescere, riprodursi e raggiungere un certo benessere, diffuso per il maggior numero possibili di abitanti, conservando il patrimonio biologico rappresentato da una ricca biodiversità e il patrimonio culturale accumulato nei secoli.

Dovremmo avere più fiducia nel futuro e in noi stessi. Nella nostra specie. Rimuovendo prima di tutto dal nostro orizzonte quel catastrofismo pessimista che ci impedisce di decidere razionalmente, e ci fa inseguire soluzioni propagandistiche, e placebo per i nostri sensi di colpa. I tempi di nascita e di propagazione delle innovazioni tecnologiche si stanno sempre più accorciando e stanno incorporando la sostenibilità ambientale e un basso consumo di risorse naturali. Abbiano a disposizione un set di tecnologie potentissime che potrebbero nell’arco di qualche decennio modificare profondamente i nostri assetti produttivi e la nostra vita sociale. Un mix di innovazioni nate in parte come miglioramento di specifiche attività produttive e in misura ancora più rilevante come sviluppo autonomo e continuo della rivoluzione informatica.


I creativi e l’ambiente.

Un consiglio e un aiuto, sia per noi che per i nostri clienti, può venire dal saggio scritto da Matteo Clemente, dal titolo Gli architetti... dovrebbero ammazzarli da piccoli!.

È una piccola guida utilissima e dissacrante, per chi è in procinto di ristrutturare la casa, o per chi è reduce da questa avventura affascinante ed estenuante. Ma è anche molto di più, è un saggio colto e ironico sull'architettura, sull'estetica, sull'arte, sul design, sull'ambiente.

Sì l'ambiente, perché poi l'appartamento, l'edificio, la zona, il quartiere, ecc. fanno parte di un ambiente metropolitano, dove la sensazione di vivere bene o male passano attraverso la consapevolezza di noi progettisti di non costruire più quartieri dormitorio, di progettare periferie degradate dove l'unico centro di agglomerazione è una piazza con la chiesa, quando c'è, di “riqualificare” zone e parti importanti di città senza tenere presente l'ambiente che ci circonda, perché oggi più che mai abbiamo la possibilità di poter progettare e costruire con una consapevolezza ed una coscienza ambientale.

Oggi dove il cambiamento climatico, a causa dell'effetto serra, ha modificato anche gli usi e consumi di noi tutti, gli architetti devono capire, studiare e proporre nuove soluzioni e tipologie abitative in sintonia con i tempi che viviamo.

Un uso consapevole delle risorse, in fase di progettazione, di costruzione, di ristrutturazione, di scelta di arredo, ecc. va fatta capire ai nostri clienti e va fatto anche capire il risparmio non solo economico, ma anche quello di saper vivere poi in un ambiente globale migliore per sé e per gli altri.

Meno sprechi, meno energia, meno acqua, meno oggetti con uso di materie prime costose e non rinnovabili, ma uso anche negli arredi di oggetti fatti con plastiche riciclabili, di caloriferi a basso consumo e ad alto rendimento calorico, di finestre con diversi accorgimenti tecnici e materici, di rubinetti con sensori per un migliore utilizzo dell'acqua anche nell'ambiente domestico, di cassette dello scarico wc con carico differenziato, pavimenti galleggianti ad alta resa insonorizzante e calorica, ecc. forse dovrebbero essere le scelte di tutti.

Noi professionisti della cultura del progetto dobbiamo impegnarci a cambiare il modo di progettare e il dato che a tanti fa storcere il naso è che, a oggi, il rinomato e blasonato «design» lavora solamente per il 10% del mondo.

In questi anni di studio e di carriera professionale, mi sono reso conto che un ambiente più a misura d'uomo, con interventi architettonici di pregio, con la valorizzazione degli spazi comuni di aggregazione, con un arredo urbano più al passo coi tempi, con una migliore differenziazione tra gli spazi adibiti al lavoro e quelli dedicati allo svago, al divertimento, al fitness, alla cultura, fanno vivere meglio la popolazione, quindi si è più disponibili al contatto umano, meno aggressivi e meno individualisti.

Sembrano quasi concetti semplici e banali, ma basta andare in giro per le nostre città senza para occhi e verificare che le cose sono in tutt'altra direzione, e noi architetti dobbiamo prenderci una parte della colpa.

Forse non siamo stati abbastanza attenti alle trasformazioni, forse eravamo distratti da più interessi, forse non avevamo una coscienza ambientale ancora sviluppata, ma da adesso siamo obbligati a tenere conto che le risorse produttive, economiche ed ambientali si sono assottigliate e quindi vanno centellinate in modo intelligente.

È ora di passare dal culto dell’ambiente alla cultura dell’ambiente, dalle parole ai fatti, da chi si erge a guru e scrive articoli di cose già annunciate e populiste, a veri e propri progetti concreti sulla realtà del quotidiano. Victor Papanek nel suo profetico libro Progettare per un mondo reale (opera già citata) per chi lo ha letto e capito, ci riporta con i piedi per terra e mai un titolo è stato così azzeccato e attuale.

Papanek proponeva: «come progettisti, possiamo pagare il 10% della nostra messe di idee e di talenti al 75% dell'umanità bisognosa. Penso che persino il designer che gode del maggior successo possa offrire un decimo del suo tempo per i bisogni dell'uomo. Il modo o le circostanze non hanno importanza: quattro ore ogni quaranta, uno giorno di lavoro ogni dieci o idealmente un anno ogni dieci da dedicare a una specie di progettazione sabbatica, per l'umanità invece che per i soldi».

Dalle opinioni alla fattibilità dei progetti, tecnologici, scientifici, sostenibili.

Inoltre, per approfondire ancora meglio la stretta contiguità del tema salute dell’uomo e stato di salute del Pianeta, altri due libri importantissimi: l’enciclica Laudatosì di Papa Francesco, e I limiti dello sviluppo di Donella e Dennis Meadows e Jorgen Randers.

Certo, negli anni Sessanta, il decennio in cui sono nato, quando il design e l’ambientalismo hanno preso piede, c’era l’esigenza di comunicare i temi difficili ad un pubblico non avvezzo né attento a queste tematiche, complice anche il boom economico di cui sono figlio. Pochi si ponevano il problema dell’impronta ecologica e dell’impronta idrica e così si scelse una strategia più rude, ma di forte impatto emotivo. Siamo stati tormentati da scenari di paura, l’esplosione demografica, svariate carestie globali, epidemie di cancro a causa delle sostanze chimiche (vedi il film Erin Brockovich), l’aviaria, la mucca pazza, la pandemia del corona virus, e poi la desertificazione, e le piogge acide (vedi il film Black Rain).

Abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo in uno stato d’ansia anche se la sensibilità su alcuni temi è andata crescendo soprattutto nei confronti dell’aria che respiriamo e dell’acqua che beviamo.

È necessario assicurare al più presto sia in sede Europea che Globale una “governance” complessiva e coerente delle risorse mondiali, e non come sino ad oggi i vari Summit hanno fatto con grandi proclami in date improponibili.

Non c’è più tempo e le risorse, come l’acqua, sono al limite!!!

Oggi è un virus che si trasmette in modo aerobico, ma un domani la prossima emergenza potrebbe essere proprio l’acqua.

Anche in caso di siccità e di alluvioni bisognerà adottare un quadro normativo condiviso e improntato a una logica unitaria della gestione integrata delle risorse ambientali, anche in quei Paesi che già oggi hanno gravi problemi.

Pensiamo ad esempio alla necessità di un buon governo sulla risorsa acqua (l’acqua presente sulla terra è pari a circa 1.400.000.000 Km3, è prevalentemente salata ed è raccolta per il 97,2% negli oceani. Il rimanente meno del 3% è acqua dolce, di questa la parte più consistente pari a 28.000.000 Km3, pari al 2,5% è bloccata nelle calotte polari e nei ghiacciai. I laghi d’acqua dolce hanno un volume di 120.000 Km3 pari a 0,0001% e le acque sotterranee ammontano a 8.064.000 Km3 pari a 0,62%) che rappresenta non solo un fondamentale pilastro della sostenibilità nell’uso delle risorse naturali, ma anche l’elemento decisivo per il benessere sociale e per una crescita economica, etica e globale. E il Design cosa fa? Si interroga sul ruolo del progetto e dei progettisti, di come cambiare gli stili di vita a partire proprio dai progetti e dai prodotti, ma anche materiali e produzioni alternative, ed in fine la distribuzione. Alcuni libri che spiegano molto bene la situazione che stiamo vivendo sono: Verso una nuova ECO – Nomia di R. Lombardi, Economia a colori di A. Segrè, Design Politico di Paolo Deganello, L’economia della ciambella di Kate Raworth.

Solo focalizzando la nostra attenzione all’uso urbano ed extra urbano dell’acqua potabile, e dell’acqua destinata alle attività produttive (il 20% sull’ammontare totale), se resteranno confermate le previsioni di un raddoppio dei consumi nei prossimi 20 anni, nel 2040 i rubinetti rimarranno a secco e, conseguentemente, circa un miliardo e cinquecento milioni di persone è destinato a non poterne disporre e le aziende stesse bloccheranno qualsiasi tipo di produzione.

Forse la Cultura del Progetto deve arrivare prima dell’emergenza e pilotare scelte di progetti, scelte di produzioni, e scelte che i consumatori faranno in funzione di una responsabilità civile ed etica che non solo è necessaria, ma obbligatoria.



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Immagine: M. Teresa Carnaghi, Acqua, 1997


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Roberto Marcatti è architetto, designer e curatore di mostre. Ha partecipato alla nascita del Gruppo Zeus ed è fondatore dell'associazione H2O Milano.




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