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La «seconda vita politica» di Amadeo Bordiga

Capitalismo e crisi ambientali


Pavel Kassin


Per la storiografia il Bordiga «che conta» è quello «politico», è la traiettoria che lo porta dalla milizia nella gioventù socialista napoletana a diventare il pivot della scissione comunista nel 1921 a Livorno, a dirigere il Partito comunista d’Italia negli anni dell’ascesa del fascismo e infine a entrare in contrasto con la nuova direzione gramsciano-togliattiana della «bolscevizzazione» fino all’epico scontro con Stalin al VI Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista a Mosca nel 1926. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso questo percorso – che non può essere ovviamente slegato dalla storia della sinistra socialista intransigente prima e della sinistra comunista poi – destò un certo interesse della storiografia italiana «ufficiale» (Cortesi, De Clementi, Livorsi, De Felice[1]) prima di tornare ad appannaggio sostanzialmente degli storici simpatetici al comunista napoletano (Peregalli, Saggioro, Gerosa[2]), al defluire dei movimenti che avevano accesso per qualche tempo l’interesse per ogni tipo di eresia del movimento operaio. Tuttavia se si esclude il pioneristico In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale (1952-1982) del già citato Sandro Saggioro, pubblicato qualche anno fa per i tipi di Colibrì e la meritoria opera di ripubblicazione sistematica dei suoi scritti da parte delle organizzazioni bordighiste, l’elaborazione del Bordiga sconfitto e isolato dall’Italia della ricostruzione e del boom rimane ancora ampiamente un territorio inesplorato. Recuperarla sarebbe invece importante perché probabilmente rappresenta il periodo più fecondo dal punto di vista teorico del comunista napoletano. Senza più urgenze politiche, senza più la necessità di dare ricadute pratiche e tattiche alla sua riflessione, Bordiga nella sua seconda vita alla testa del piccolo – ma non completamente insignificante – Partito Comunista Internazionale è capace di gettare uno sguardo non conformista ai processi più profondi della società italiana e al mondo del secondo dopoguerra. Si tratta di un quindicennio di lavoro tra l’inizio della guerra di Corea fino agli anni del centro-sinistra, in cui a fronte della formale rivendicazione all’ortodossia marxista (la «ribattitura dei chiodi»), in cui Bordiga opera in realtà delle rotture metodologiche e di elaborazione con il suo marxismo secondo internazionalista ancor prima che cominterniano, in cui si era formato. Non staremo qui a tornare a ricordare l’importanza della sua elaborazione sull’analisi della struttura sociale dell’Urss, su cui lavorò a lungo la mai troppo poco compianta Liliana Grilli[3]. Ci concentreremo invece sul Bordiga visionario e febbrile che anticipa – e di molto – alcuni temi divenuti nodali oggi, come la questione ecologica e la decrescita economica come conditio sine qua non per immaginare la società comunista.

La questione dell’equilibrio del rapporto tra pianeta, natura, uomo e capitalismo è affrontata in una serie di suoi articoli pubblicati su «Il Programma Comunista» tra il 1951 e il 1963 e poi raccolti in volume un quarto di secolo dopo dalle edizioni Iskra, con il titolo Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale[4]. Il rivoluzionario di Resina in queste occasioni prende spunto dalla cronaca italiana dell’epoca per allungare lo sguardo alle dinamiche economiche, sociali e politiche che stanno a monte dei disastri ambientali nel capitalismo. Ne fa prova un suo primo articolo a commento della tragedia dell’alluvione del Polesine del novembre del 1951, che produsse oltre 100 vittime e 180.000 senza tetto. Bordiga non nega che siano venute al pettine alcune condizioni peculiari che hanno prodotto il disastro, tuttavia per lui «si tratta di dare a tali fatti una causa, che deve essere ed è sociale e storica, e che è puerile far risalire a “false manovre” di quelli che stavano o stanno oggi alle leve della macchina statale italiana. E inoltre non è questo solo fenomeno italiano, ma di tutti i paesi: disordine amministrativo, ruberie, imperversare dell’affarismo nelle decisioni della macchina pubblica, sono ormai denunziate dagli stessi conservatori, e in America sono state messe in relazione anche ai pubblici disastri: anche lì città modernissime del Kansas e del Missouri sono state maltrattate incredibilmente dai fiumi mal regolati». Ma se Amadeo si fermasse qui, alla denuncia degli sprechi, dell’affarismo e della corruzione potrebbe forse essere il nonno del populismo contemporaneo, magari di sinistra, ma non il raffinato marxista quale fu. Non è un caso che molti dei suoi articoli su tali questioni vengono raccolti sotto il titolo Sul filo del tempo, nell’intreccio tra passato, contemporaneità e avvenire e non in termini generali o meramente cronologici ma in relazione intima tra sfruttamento della forza-lavoro e sfruttamento della natura[5]. La scienza per Bordiga non è neutra né tanto meno saggia e scivola verso un’inevitabile china reazionaria quanto più reazionario diventa il motore del capitale. «L’alto capitalismo – scrive Bordiga – modernissimo segna gravi punti di rinculo nella lotta di difesa contro le aggressioni delle forze naturali alla specie umana, e le ragioni ne sono strettamente sociali e di classe, tanto da invertire il vantaggio che deriva dal progresso della scienza teorica ed applicata. Attendiamo pure ad incolparlo di avere esasperata cogli scoppi atomici l’intensità delle precipitazioni meteoriche, o domani “sfottuta” la natura fino a rischiare di rendere inabitabile la terra e la sua atmosfera, e magari di farne scoppiare lo stesso scheletro per avere innescate “reazioni a catena” nei complessi nucleari di tutti gli elementi. Per ora stabiliamo una legge economica e sociale di parallelismo tra la sua maggiore efficienza nello sfruttare il lavoro e la vita degli uomini, e quella sempre minore nella razionale difesa contro l’ambiente naturale, inteso nel senso più vasto». Tornando due settimane dopo sulla catastrofe sul Po, annota: «Non è un fatto morale o sentimentale che sta alla base di tutto questo, ma la contraddizione tra la dinamica convulsa del supercapitalismo a cui siamo arrivati, e ogni sana esigenza di organizzazione del soggiorno dei gruppi umani sulla terra, in modo da trasmettere utili condizioni di vita nel corso del tempo». La riflessione potrebbe sembrare interessante ma non nuova ai nostri occhi di persone che dal Club di Roma in poi hanno avuto la possibilità di riflettere e di mobilitarsi contro le ricadute dello sviluppo capitalistico sulla natura, se non fosse collocata nel primissimo secondo dopoguerra quando il Pci e il Psi (anche quest’ultimo ancora stalinista fino almeno al 1956) affrontano ancora la questione delle catastrofi «naturali» semplicemente come uno strumento di polemica politica contingente contro il centrismo e il governo, condividevano infatti in nuce la stessa cultura industrialista. Anzi, in alcuni casi, i partiti di sinistra, riuscivano perfino a sopravanzare in apologia dello sviluppismo gli stessi borghesi occidentali, imbevuti come erano del mito dell’accumulazione primitiva sovietica degli anni Trenta. In «Il programma comunista» n. 6 del dicembre 1952, Bordiga però mette in guardia, allo stesso modo, da ogni tipo di suggestione «primitivista»: «All’attuale stadio storico, e date le misure della terra, delle popolazioni e degli alimenti, occorre fare giustizia di ogni visione “arcadica” che presenti una piccola, serena e ingenua umanità vivente di frutti cadutile in grembo dalle chiome di alberi a vegetazione spontanea, sotto i quali giace cantando e baciandosi. Tanto si dice accadesse a Tahiti e nelle altre collane di isole del Pacifico, nel clima di permanente primavera: ma a tempo vi sono giunte le colonie del moderno capitalismo, e al posto dell’amore all’aperto e gratuito hanno importato amore mercantile e case chiuse. Come ben dicono i Francesi (il gioco di parole sta nella pronunzia): Civilisation et siphilisation (sivilisasion e sifilisasion) – carta moneta e spirocheta pallido»[6]. L’allusione di Bordiga è al Manifesto del 1848, allo straordinario passaggio sulla prostituzione di massa, ma con ben altri obiettivi, in questo caso. L’obiettivo di Bordiga è il sistema nel suo complesso, l’organizzazione sociale basata «sull’accumulazione per l’accumulazione»: «Non si tratta più di una questione di ripartizione dei frutti di un’azienda così irrazionale, come è la crosta del nostro pianeta quale è voluta dal sistema capitalistico e dai suoi effetti di preteso modernamento dei sistemi più antichi. Non si tratta più di economia intesa come litigio intorno alla ricchezza di merci o di moneta; si tratta fisicamente di introdurre un tutto diverso modo di attrezzatura tecnica del suolo, del sottosuolo e del soprasuolo, ove forse a fini archeologici si lascerà ogni tanto in piedi uno dei capolavori del tempo borghese, a ricordo per quelli che la secolare opera, partita dalla esplosione rivoluzionaria mondiale, avranno compiuta»[7].

In ultima istanza, la questione finisce in Bordiga per sopravanzare lo stesso modo di produzione, perché il comunismo cambia i paradigmi dello sviluppo sociale. Ecco, forse ora il lettore inizierà a capire perché abbiamo parlato di un «Bordiga visionario», nel senso più produttivo del termine.

Nel suo articolo Spazi contro cemento del 1953, l’ex capo del comunismo italiano pone anzi immediatamente il problema dell’urbanizzazione capitalista e lo fa da specialista qual è, visto che campò tutta la vita facendo l’ingegnere civile, giungendo persino a immaginare un nuovo, rivoluzionario piano regolatore per Napoli. Scrive a tale proposito: «Se trascuriamo la popolazione “sparsa”, in prevalenza rurale, e ci occupiamo solo degli uomini che stanno “agglomerati” nelle città, come già avemmo a notare, abbiamo, considerando la densità, uno scatto a cifre che stanno molto al di sopra, circa mille volte più della media terrestre: come dicono gli scienziati, andiamo in un diverso ordine di grandezza. Non è arduo intendere come invece la popolazione delle campagne considerate sole vede scendere, in ogni grande o piccola circoscrizione, la densità rispetto a quella generale»[8]. Si tratta di una questione che Bordiga stava già affrontando da un altro punto di vista – della rendita fondiaria – ma che in questo caso assume una connotazione particolare. La metropoli è il luogo della concentrazione della rivolta ma anche dell’omogeneizzazione e questo a Bordiga non sfugge. Non è un caso che quando esplode nel 1962 la rivolta di Piazza Statuto a Torino, egli imporrà il titolo di apertura di «Programma Comunista» a Viva i teppisti della lotta di classe![9], ma al contempo intenda perfettamente quanto possa l’integrazione, la catena dorata del Marx di Lavoro salariato e capitale per intenderci, lavorare sul proletariato. Per Bordiga la questione si pone ancora nei termini di dittatura di classe tout court. «Quando sarà possibile, dopo aver schiacciata con la forza tale dittatura ogni giorno più oscena, subordinare ogni soluzione e ogni piano al miglioramento delle condizioni del vivente lavoro, foggiando a tale scopo quello che è il lavoro morto, il capitale costante, l’arredamento che la specie uomo ha dato nei secoli e seguita a dare alla crosta della terra, allora il verticalismo bruto dei mostri di cemento sarà deriso e soppresso, e per le orizzontali distese immense di spazio, sfollate le città gigantesche, la forza e l’intelligenza dell’animale uomo progressivamente tenderanno a rendere uniforme sulle terre abitabili la densità della vita e la densità del lavoro resi ormai forze concordi e non, come nella deforme civiltà odierna, fieramente nemiche, e tenute solo insieme dallo spettro della servitù e della fame»[10]. Sono processi che abbiamo visto crescere al massimo grado ancora nei primi decenni del nuovo millennio con l’esplosione del mercato immobiliare nelle ex periferie da Shangai a Mosca, da Dehli a Baku. Un mercato costruito inesorabilmente in verticale anche laddove come nella Mosca di oggi, per esempio, non esistono problemi di spazi.

Tre anni dopo Bordiga ritorna su questi temi, affrontando la vicenda della catastrofe mineraria di Marcinelle, in Belgio, del 8 agosto 1956, dove periscono 252 minatori. Si tratta di catastrofi a cui non siamo più quasi abituati tanto sono lontane geograficamente o che ci giungono ormai come lontana eco, come quelle dei minatori russi, tagicchi, ucraini di Vorkuta o del Donbass che, ancora oggi capita, non risalgono dai pozzi dove sono costretti a immergersi ogni giorno. Di quell’inutile e dannoso carbone che ancora si produce in giro per il globo e con l’unico inutile fine del profitto. Nella prosa che Bordiga ha creato ad hoc («gaddiana», dicono i linguisti) se ne invoca la semplice soppressione: «Fate uscire tutti i vivi, e tappate per sempre queste discese! Non potrà mai dirlo la società mercantile, che si impantanerà in inchieste, messe funerarie, catene di fraternità, in quanto capisce solo la fraternità da catena, lacrime coccodrillesche, e promesse legislative ed amministrative tali da allettare altri “senza riserva” a chiedere di prendere posto ancora nelle lugubri gabbie degli ascensori: di cappello alla tecnica!»[11].

Sette anni ancora più tardi, siamo all’alluvione del Vajont dell’ottobre 1963 in cui perdono la vita più di 2000 persone, sottolinea: «Il problema geologico non è da calcoli da fumoir o da gabinetto di prove. È un problema di lunga esperienza umana sulla prova che hanno fatto i manufatti storici. Esperienza umana e sociale. Tutta la moderna ingegneria in quanto fa manufatti non tascabili o automobili, ma opere fisse alla crosta del pianeta, ha il suo problema chiave nel rapporto fra terreno e costruzione (per una umile casa la fondazione) e non ci sono formule che valgano per ogni caso, ma molteplici mezzi di arte tra cui si può scegliere avendo una sudata esperienza, e non basta prendere stipendi da tre milioni al mese per fumare dietro la calcolatrice elettronica»[12].

Tutta questa riflessione pone a Bordiga il problema di una critica implicita dell’idea stessa di sviluppo perché il dominio del lavoro morto su quello vivo, sulla forza produttiva proletaria, diventa assoluto. Si tratta di porre la questione della decrescita economica, di programmi di «disinvestimento», di un nuovo rapporto tra uomo e natura che non sia l’ottuso sfruttamento, archiviando un marxismo che continui a basarsi sull’apologia delle forze produttive. «Se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in deflessione, è altrettanto vero che maggiore è la sua virulenza, peggiori sono le condizioni di vita della massa umana di fronte ai cataclismi naturali e storici. A differenza della piena periodica dei fiumi, la piena dell’accumulazione frenetica del capitalismo non ha come prospettiva la “decrescenza” di una curva discendente delle letture all’idrometro, ma la catastrofe della rotta»[13]. Come si vede da questo passaggio, forse Serge Latouche non ha inventato nulla che non fosse già stato affrontato dal bistrattato «marxismo schematico e settario» (il marxismo come «ultima delle mistiche») di Bordiga!

Un approccio che già nel 1952 diventa, per la compagine internazionalista che dirige, programma politico immediato: «“Disinvestimento dei capitali”, ossia destinazione di una parte assai minore del prodotto a beni strumentali e non di consumo, […] “Elevamento dei costi di produzione” per poter dare, fino a che vi è salario mercato e moneta, più alte paghe per meno tempo di lavoro. […] “sottoproduzione” che la concentri sui campi più necessari, […] “Arresto delle costruzioni” di case e luoghi di lavoro intorno alle grandi città e anche alle piccole […] Riduzione dell’ingorgo velocità e volume del traffico vietando quello inutile».

Di acqua ne è passata tanta sotto i ponti, ma si tratta di «un piano di specie» ancora tutto da realizzare.



Note [1] Cfr.: L. Cortesi, Amadeo Bordiga nella storia del comunismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999; A. De Clementi, Amadeo Bordiga, Einaudi, Torino 1971; F. Livorsi, Amadeo Bordiga, Editori Riuniti, Roma 1976; F. De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia 1919-1920, De Donato, Bari 1971. [2] Cfr.: A. Peregalli, S. Saggioro, Amadeo Bordiga. La sconfitta e gli anni oscuri (1926-1945), Colibrì, Paderno Dugnano 2019; L. Gerosa (a cura di), Amadeo Bordiga. Scritti 1911-1926, 8 voll., Fondazione Amadeo Bordiga, Formia 2011-2018. [3] Cfr. L. Grilli, Amadeo Bordiga: capitalismo sovietico e comunismo, La Pietra, Milano 1982. [4] Cfr. l’Url https://www.quinterna.org/pubblicazioni/storici/drammigialli.htm. [5] Cfr. l’Url http://www.rottacomunista.org/classici/bordiga/filitempo.html. [6] Cfr. l’Url https://www.quinterna.org/archivio/filitempo/105_1952_crostaterrestre.htm. [7] Ibidem. [8] Cfr. l’Url https://www.quinterna.org/archivio/filitempo/106_1953_spaziocemento.htm. [9] Cfr. l’Url https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/evviva_teppisti.htm. [10] Cfr. l’Url https://www.quinterna.org/archivio/filitempo/106_1953_spaziocemento.htm. [11] Cfr. A. Bordiga, Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale e altri scritti sull’antitesi fra la dinamica del capitalismo moderno e le esigenze di una razionale organizzazione sociale, Iskra, Milano, 1978, p. 69. [12] Ivi, p. 74. [13] Ivi, p. 7

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