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La psicoanalisi è politica

Intervista a Silvia Lippi


La psicoanalisi è politica
Illustrazione di Angelica Ferrara

In occasione delle prime date di presentazione di Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista (DeriveApprodi, 2024) pubblichiamo l'intervista di Giulia Muccioli a Silvia Lippi, co-autrice del libro insieme a Patrice Maniglier. Nel testo emerge chiaramente la politicità intrinseca del discorso psicoanalitico che riconosce e colloca la «parola del paziente» all’interno della società e del legame sociale, riconoscendone il potenziale carattere trasformativo, sovversivo e rivoluzionario. A partire da qui viene pensata la psicoanalisi femminista: «non c’è bisogno né di una questione anatomica o biologica, né essenzialista, né un secondo sesso in relazione al primo, ma solo una modalità politica di legame sociale. E questo legame […] si costruisce come sorellanza o femminismo sul sintomo condiviso».

Sorellanze sarà presentato il 22 novembre a Bologna presso il Centro delle Donne, in via del Piombo 5/7 con la presenza di Anna Pramstrahler e Serena Panico. Appuntamento alle 18.

Il giorno dopo, 23 novembre, Silvia Lippi sarà una delle protagoniste del Festival «L'Eredità delle donne» che si terrà a Firenze.


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Giulia Muccioli: Nell’occorrenza del centenario della nascita di Basaglia, dato il lavoro che lei in prima persona svolge dal punto di vista clinico ma, soprattutto, attraverso i suoi studi e le sue pubblicazioni – anche recenti – come possiamo oggi ripensare un’articolazione tra la pratica psicoanalitica, o il campo medico della psichiatria e la filosofia? C'è, secondo lei, la possibilità che questo dialogo possa avvenire in maniera reciproca, in una modalità per cui non è solo la psicoanalisi a doversi rifare alla filosofia per epurare le ambiguità disciplinari che l’hanno sempre marcata, ma che anche la filosofia possa imparare qualcosa dalla psicoanalisi?


Silvia Lippi: Io credo che questo rapporto sia fondamentale: nel mio caso perché io stessa ho studiato filosofia e psicoanalisi. Faccio la psicoanalista e non faccio né la psicologa né la filosofa, però quando leggo i testi non riesco quasi a fare una distinzione. Che io legga Deleuze e Spinoza o Lacan, lo faccio sempre da una prospettiva clinica. Secondo me questo legame è quindi fondamentale per più ragioni. In primis, perché la psicoanalisi non è mai stata una disciplina – e non dico scienza – pura: Freud si rifaceva a sociologi, antropologi, medici e filosofi, anche se in misura minore, attivi nel suo tempo. È sempre stata una disciplina «impura» e che si nutre di tutto ciò che viene da fuori, spaziando anche dalla letteratura alla pittura, mai chiusa su sé stessa. D’altra parte, non si contano filosofi, antropologi, cineasti che hanno usato Freud e la psicoanalisi, che sia stato per amarli o per criticarli. La psicoanalisi è sicuramente entrata con prepotenza in tantissime discipline da quando è nata. Per quanto riguarda Lacan, inoltre, moltissimi artisti, filosofi, antropologi, linguisti hanno partecipato con fermento ai suoi seminari. Quando però quest’ultimo è morto, gli psicoanalisti che lo hanno seguito fino alla fine – i cosiddetti passeurs – e che ne hanno trasmesso la dottrina, si sono chiusi in una sorta di esegesi di Lacan stesso. In un certo senso, quindi, potevano parlare di filosofia, come di Kant, ma anche di Sade e Joyce, solo perché l’aveva fatto Lacan. È venuto a mancare questo «imbroglio» creativo che c’era stato prima. Oggi, però, credo che questa interpenetrazione disciplinare si sia riattivata grazie a personalità come Butler, Wittig, Paul Preciado, ma io citerei anche Valerie Solanas, riformulando un pensiero d’insieme. Che cosa può portare quindi la filosofia alla psicoanalisi? Io l’ho sperimentato nella pratica lavorando con il filosofo Patrice Maniglier che mi ha aiutato molto a pensare la politica in una maniera in cui io, dal mio rapporto istituzionale e privato dello studio, non avevo ancora formulato. L’evento del politico è quindi, sicuramente, stato un apporto dato dalla filosofia. Diversamente, direi che per la filosofia c’è un rapporto importante con il non sapere. C'è stata un’intera dinastia di filosofi, come Deleuze, Guattari e Foucault, che hanno usato direttamente la psicoanalisi, a cui è seguito però una sorta di oblio di questa disciplina. Oggi questo distacco mi pare si stia risanando, proprio a partire da ciò che è proprio alla psicoanalisi: un qualcosa di inconscio che può favorire un approccio filosofico interessato a un discorso che vada anche al di là del senso.

 

GM: Accanto ai riferimenti più tradizionali come Freud e Lacan, che abbiamo ricordato come «padri» fondatori della psicoanalisi, ricorrono con una certa frequenza nel suo discorso i nomi di Deleuze, Guattari e Foucault, ma anche quello di Spinoza. Possiamo pensare che è attraverso un dialogo e un uso strategico di questi pensatori che la psicoanalisi può allargare il proprio campo d’azione anche nello spazio politico-sociale?


SL: Certo che può. Innanzitutto, Lacan ha sempre detto che l’inconscio è politico. È una frase che molti psicoanalisti non hanno interpretato in maniera politica, per una sorta di paura verso la militanza, quando, paradossalmente, siamo noi i primi a militare nel momento in cui la psicoanalisi è esclusa dall’università o dalla filosofia. Quando si parla di politica o di militanza nel senso concreto dell’azione, dei corpi uniti ad altri corpi umani per fare la rivoluzione, c’è sempre una certa paura e fobia. Con «politica», però, voglio dire che la psicoanalisi ha un senso solamente se la parola del paziente, che naturalmente è una parola individuale, esiste in una società e nel legame sociale, riprendendo un punto su cui insiste molto l’ultimo Lacan. A fare il problema non è la nevrosi, la psicosi, la perversione o il sintomo, ma è, in primis, l’impossibilità di esistere nel legame sociale. Un sintomo – se esiste nel legame sociale permettendo al soggetto di agire e di interagire con gli altri – allora non è più tossico o da estirpare come lo era all’inizio dell’analisi o come lo è per la medicina, ma diventa una maniera per il soggetto di esistere; e anche di lottare contro un altro sociale o familiare. È quindi per me veramente difficile staccare la psicoanalisi dalla politica. In primis, proprio per questa maniera di pensare la cura sempre legata al sociale. In secondo luogo, anche per la mia esperienza personale nell’istituzione psichiatrica, in cui Deleuze e Guattari sono stati fondamentali per permettermi un accesso alla psicosi non da una posizione nevrotica; come spesso si tende a fare, pensando che un miglioramento di una psicosi si ha nel momento in cui si nevrotizza. La psicosi deve, infatti, trovare una sua strada: il punto geniale di Deleuze e Guattari è mostrare come questo modo di fare rivoluzione contro la società e contro il mondo capitalista moderno eteropatriarcale e familiare diventa poi una maniera di ispirazione per tutti come nuovo modo di fare lotta. Ancora una volta i miei due campi si intrecciano: anche in istituzione, pensare il cosiddetto folle o psicotico tagliato fuori dal legame sociale significa non aver capito nulla della sua problematica. Questa posizione è stata fondamentale nella mia pratica istituzionale con i pazienti, fare gite per creare legami, metterli insieme, toglierli dai momenti più catatonici e autistici. Essere con gli altri è fondamentale. Il terzo punto resta poi il mio modo di fare clinica dopo #MeToo. C’è stato infatti un altro livello del mio rapporto col collettivo perché mi sono resa conto che alcune delle pazienti – delle donne che hanno subito per esempio violenze di tipo sessuale – mi hanno parlato di questi traumi solo dopo aver conosciuto il movimento. È chiaro quindi che il collettivo ha influenzato direttamente l’inconscio: la parola, per essere liberata finalmente in analisi, ha avuto bisogno di qualcosa che il collettivo ha saputo rilanciare, ovvero la sensazione di non essere sole. #MeToo ha permesso di superare quel senso di vergogna che spesso colpisce chi subisce traumi simili, ha fatto sì che la parola potesse essere ascoltata. Per altre, far parte di gruppi politici, partecipare alle manifestazioni, unirsi ad altre persone in maniera disseminata o disorganizzata, anche attraverso un semplice post sui social media, ha avuto un effetto terapeutico. I sintomi si sono calmati, o meglio si sono trasformati: è da qui che è nata l’idea del sintomo collettivo di cui parliamo nel nostro libro Sorellanze. Quello che prima era un sintomo individuale, che poteva essere anoressia, bulimia o impossibilità di avere relazioni con l’altro sesso – tutto ciò che rientrava tra gli effetti di un certo trauma vissuto – si trasformava e diventava collettivo. Insieme queste donne facevano la rivoluzione. Ed effettivamente l’hanno un po’ fatta: oggi i professori prima di sedurre le loro studentesse ci pensano, i datori di lavoro prima di mettere una mano sotto la gonna di una loro impiegata ci pensano. Anche se il problema non è risolto qualcosa sta evidentemente cambiando grazie a questa parola liberata che ha il potere di cambiare il mondo.

 

GM: Approfitto della sua risposta per riprendere uno dei fili da cui parte tutto il suo lavoro, la famosa formula lacaniana della politicità dell’inconscio che ha appena ricordato. Questo investimento sociale della carica libidinale determina una rivalutazione – di matrice foucaultiana prima, ma anche particolarmente affine ai postulati su cui Deleuze e Guattari hanno abbozzato la loro schizo-analisi - del delirio e della follia. Quanto la psicosi può quindi fungere da modello e quanto è difficile sottrarre quella che clinicamente è definita come un’interruzione discorsiva sulla realtà, una sorta di deficit della comunicazione, da questo stigma di inaccessibilità al mondo? Come politicizzare, se è possibile, e quindi rendere attiva nel reale, una soggettività a cui già da un punto di vista clinico è apparentemente preclusa ogni forma di dialogo con l’esterno?


SL: In questo senso credo che, ancora una volta, la psicoanalisi possa aiutarci. Innanzitutto, Freud ha detto che il delirio è un tentativo di guarigione. Ancora oggi nel parlare di delirio si pensa a qualcosa che vada bloccato, che sia nei migliori dei casi tramite i medicinali o, dove è legale come in Francia, con le sismoterapie o la contenzione, mentre Freud, ma anche Lacan con la considerazione che ha del sintomo e della sua trasformazione, pensa che questo non sia un metodo effettivo di guarigione. Il delirio è una maniera con cui il soggetto, nel caso dello psicotico, può crearsi un mondo in cui vivere. I testi di Philip K. Dick sono a tal proposito dei testi straordinari che ci danno un’idea di come un delirio può diventare un mezzo di costruzione di questo mondo. In un suo libro, per esempio, leggiamo «se questo mondo non vi piace, potete costruirne un altro». La psicoanalisi, a partire da questa semplice frase, e attraverso Freud, ci dà già l’idea che il delirio non indichi il fatto che un soggetto non riesca a adeguarsi alla realtà, ma che, semplicemente, esso ne inventa un’altra. Il punto sta nel capire, come ha fatto Basaglia, come noi accettiamo questa nuova realtà e come poter integrare e accogliere questo nuovo modo di vivere, di pensare il desiderio, di libidinizzare noi stessi e il mondo. Basaglia effettivamente ci offre molte testimonianze, a partire dalle sue esperienze, di questi movimenti pratici che mostrano come aprirsi concretamente a questo mondo, dimostrando che la possibilità di farlo non resta quindi un’idealità di alcuni psicoanalisti deleuziani o schizoanalisti. È sufficiente una conoscenza clinica di base per capire che gli psicotici sono esclusi da tutte le costruzioni falliche che interessano invece i nevrotici. Per questo Deleuze e Guattari avevano ragione nel vederci una lotta anticapitalista: non c’è alcuna spinta alla produzione, ma al contrario tutti i valori fallici, nel senso dell’immaginario freudiano, non sono presenti se non per ricreare un mondo in una maniera inventiva dove è esclusa ogni forma di competizione e produttività. Non ci sono schemi di pensiero riconducibili all’essere la/il più bella/o o la/il più brava/o. Nella maggior parte degli psicotici che ho conosciuto è del tutto assente questa realtà. Durante una mia esperienza personale in un atelier di danza all’ospedale, ho notato, ad esempio, che se lo specchio poneva problema ai nevrotici - perché presi dalla sensazione di ballare male o di non essere all’altezza - al punto da abbandonare la sala, gli psicotici erano del tutto indifferenti alla loro immagine. Anche se facevano gesti e passi «sbagliati», si delineavano delle modalità creative ed espressive completamente diverse da quelle che troveremmo in un corso di danza in una scuola «nevrotica». Il corpo, e il problema della bellezza del corpo inteso come potere fallico, non esisteva. Penso ad una paziente autistica che si metteva in un angolo e creava dei legami con gli oggetti del mondo che non rispondevano alla logica del possesso a cui siamo abituati. Ovviamente il problema, come dicono Deleuze e Guattari e come sperimentiamo nella clinica psichiatrica, è il fatto che il mondo non è pronto ad accettare questa nuova realtà e da qui nascono tutte le problematiche attorno alla psicosi, le follie o le situazioni di pericolo. Il nostro mondo è così violento da non lasciare spazio ad altro: già pensare un mondo femminista, o che pensi i valori in un’altra maniera, è difficile, come si è visto da come è stato recepito il #MeToo da un mondo eteropatriarcale, liberale e capitalista; quindi, figuriamoci se è possibile accettare un mondo dove il discorso non è più finalizzato a quanto si guadagna a fine mese o alla logica del più forte, un mondo che risponde ad un immaginario quasi letterario! Quando la psicosi si esprime in modi meno bloccati, attraverso appunto l’espressione artistica o poetica, si nota che è assente ogni patologia. Non è la psicosi ad essere patologica, ma piuttosto questo incontro con un mondo ostile.

 

GM: Di tutti i nomi che abbiamo citato, però, è inevitabile, soprattutto alla luce delle tematiche centrali del suo lavoro sia pratico sia teorico, non notare che stiamo parlando sempre di uomini. Il fatto che, come abbiamo ricordato, la psicoanalisi abbia convenzionalmente solo «padri», quanto rende problematico il tentativo di riadattarla alle rivendicazioni femministe? Se poniamo che la filosofia possa fornire la chiave di volta per reinterpretarne alcune nozioni, come possiamo far fronte alla storica associazione del sapere accademico al mondo maschile? Per rifare una psicoanalisi femminista – o sororale, usando la sua terminologia in Sorellanze quanto è anche necessario rifare anche una filosofia?


SL: Mi rendo conto che in ambito psicoanalitico i miei punti di riferimento siano due uomini – Freud e Lacan, ma che anche in filosofia i nomi sono quelli che abbiamo citato, Deleuze, Guattari, Foucault e Spinoza. Però, per quanto riguarda le psicoanaliste contemporanee io sono personalmente una grande lettrice di Catherine Millot e Colette Soler. Inoltre, nel libro Sorellanze tutte le donne che sono citate, a partire dalla nostra guida spirituale che è Valerie Solanas, ma anche Butler e Wittig, sono chiamate per nome, laddove tutti gli uomini, compresi Deleuze e Guattari, sono chiamati col cognome, fatta eccezione per Freud, che chiamiamo anche sorella per delle ragioni che sono meglio spiegate nel libro. Non dimentichiamo, inoltre, che la psicoanalisi  – che essendo nata a fine Ottocento è una disciplina piuttosto recente nasce dando parola alle donne, Freud in primis sul famoso divano, a partire dall’isteria che resta uno dei discorsi fondamentali anche per Lacan. Io non sono a favore di un’impostazione clinica basata sui generi ma è sufficiente leggere i resoconti di Freud per vedere che, nella maggior parte dei casi, le sue pazienti erano appunto donne. Questa presenza si può vedere, in secondo luogo, anche ricordando tutte le sue colleghe. Marie Bonaparte, Lou André Salomé, Sabrina Spielrein e dopo Anna Freud, sua figlia, Melanie Klein: tutte hanno avuto un ruolo estremamente centrale. Se dovessimo citare tre nomi tra le personalità più importanti per lo sviluppo della psicoanalisi, almeno uno sarebbe quello di una donna. Non credo ci siano così tante discipline che possano contare una presenza femminile di questa portata. Come ho già ricordato, le due figure che hanno saputo dare la migliore lettura di Lacan sono Colette Soler e Catherine Millot, due donne che sono al di sopra di tutti gli uomini che ho avuto modo di studiare nella mia vita. La psicoanalisi conta molte donne anche oggi: Sophie Mendelsohn, che si occupa per esempio della clinica postcoloniale; Patrizia Gherovici, che è una delle autrici che mi ha maggiormente ispirato per la questione della transidentità; Laurie Laufer e tante altre autrici che stimo e che frequento. Il fatto che spontaneamente io non abbia citato i nomi di queste donne è sicuramente un’eredità della nostra formazione. Penso al fatto che ho conosciuto Irigaray, una grandissima psicoanalista e linguista che ha a lungo frequentato l’École Freudienne, solo grazie a un libro regalatomi da una mia amica italiana. Nessuno l'aveva menzionata in tutte le scuole lacaniane che ho frequentato. Nessuno, nella generazione che mi ha formato, ha mai discusso per esempio con Butler o Wittig: io sono favorevole, come credo si veda anche nei miei libri, al dibattito e alla critica. In filosofia, mi pare che questo discorso di ripresa sia antecedente e che la situazione sia sostanzialmente migliore, mentre nelle scuole psicoanalitiche la divisione è più evidente. All'Espace Psychanalytique erano gli uomini che prendevano parola, erano i maestri quelli che venivano ascoltati, mentre alle donne non veniva dato neanche uno spazio fisico. Io mi sono formata in questo ambiente, ma spero di essere riuscita a uscirne almeno un po’.

 

GM: Colpisce sicuramente l’attenzione e la centralità che nel suo lavoro ha la figura di Valerie Solanas, come punto di convergenza di numerose linee strategiche da far giocare contro un sistema sociale borghese, patriarcale e eteronormativo: donna, schizofrenica e criminale, Valerie risulta infatti il miglior antidoto contro il fallologocentrismo che impernia la psicoanalisi, tanto dal versante teorico quanto pratico, ma anche il miglior punto di partenza su cui costruire in positivo una nuova definizione di donna, o meglio di sorella. Che ruolo gioca il desiderio attivo e creativo, che lei vede incarnato in Valerie, in questo nuovo tentativo di creare uno spazio, che sia fisico, mentale o sociale, per e di donne – lungi dal riproporre certe definizioni essenzialiste e biologizzanti?


SL: Valerie Solanas è sicuramente il punto di partenza del libro. Avrei dovuto tenere una conferenza che poi è saltata dal titolo «Solanas e Lacan, quale donna per il XX secolo». Ammetto che mi ha sempre infastidito la maniera di Lacan di pensare al femminile e alla decisione del desiderio, che critico già, anche se meno direttamente, nei miei primi libri per delle ragioni ben precise. È una maniera di pensare il femminile che non prende in considerazione la possibilità per una donna di unirsi con le altre donne, ma che, al contrario, pensa al momento in cui si crea il collettivo esclusivamente dal lato dell’uomo. C’è una circolazione, nel senso che le donne non sono identificate con le persone nate coi genitali femminili o gli uomini con quelli maschili, ma in ogni caso Lacan non opera una grande rivoluzione perché la sua teoria resta del tutto ancorata a considerazioni anatomiche. Indipendentemente da questo, c’è l’idea che una posizione femminile sia pensata radicalmente al singolare, aspetto che non mi ha mai convinto. Quando mi sono avvicinata al testo di Solanas ho trovato un po’ la dimostrazione di ciò che abbiamo detto prima rispetto all’idea del delirio come portatore di una verità. Sia il femminismo sia la psicoanalisi hanno interesse a ispirarsi a un discorso delirante: niente meglio della psicoanalisi permette di essere dentro e fuori al discorso, che può essere preso più o meno alla lettera. Quando Valerie, per esempio, parla della sterminazione di tutti gli uomini, può essere presa alla lettera, in maniera violenta e reale, cosa che ci fa capire che ci sia qualcosa di irrisolvibile – e qui ha ragione – nell’eterosessualità, che costringe le donne a imitare gli uomini per vivere; ma si può anche ridere, essere sconvolti, essere presi da un affetto. È un discorso, questo, che permette un movimento affettivo molto ampio e tutto ciò è dovuto proprio al delirio, come modalità espressiva che lei ha potuto sviluppare. Questa prima tesi di sbarazzarsi degli uomini – insieme alla seconda con cui Valerie inverte la teoria del «penisneid», dicendo che non sono le donne a voler essere come gli uomini, ma al contrario gli uomini che provano invidia verso le donne – io l’ho presa come pensiero che ci permette, nella maniera più radicale, di pensare alla donna indipendentemente dall’uomo. Nonostante altre donne l’abbiano già fatto, avevo bisogno di qualcosa di così radicale per pensarlo dal punto di vista dell’inconscio, per pensare ad un mondo dove l’uomo è assente, visto che nel discorso psicoanalitico tutto è imperniato e attraversato dalla questione del Fallo. Questa lettura mi permesso di evitare il riferimento all’uomo e alla questione maschile andando sin subito da un'altra parte, a differenza di Lacan, che, per arrivare da un'altra parte, inizia sempre dal Fallo. Secondo me Valerie Solanas ci ha permesso di pensare questa radicalità della donna senza riferimento all’uomo, dicendo chiaramente che la sua forza sta nel sapersi unire con le altre donne. La donna è forte perché non è sola e lo scopo è non essere sole: l’unica maniera per definire la donna, se vogliamo farlo, è politica. Si uniscono qui tutti i punti del mio discorso su psicosi e militanza. Non c’è bisogno né di una questione anatomica o biologica, né essenzialista, né un secondo sesso in relazione al primo, ma solo una modalità politica di legame sociale. E questo legame sociale non si fa attraverso l’ideale, il rinforzo narcisistico, o attraverso un leader come dice Freud. Né si costruisce all'insegna della colpa, come nel mito dell'assasinio del padre da parte dei fratelli per possedere tutte le donne sotto la legge del fallo. Il legame sociale si costruisce come sorellanza o femminismo sul sintomo condiviso. Il legame sororale, o femminista, è il legame di questo sintomo che non rimuove il trauma ma che, allo stesso tempo, dà ad esso una forma vivibile, lavorando, nello stesso tempo, politicamente la società per cambiarla. Valerie Solanas, includendo per esempio gli omosessuali e i trans, ci fa capire che non è una questione di genere e tantomeno di sesso, ma che è un problema di posizione rispetto al proprio trauma nella relazione sociale. Chiunque prende questa posizione, che fa legame sociale a partire dal sintomo condiviso, agendo quindi al contrario rispetto al meccanismo nevrotico di rimozione del trauma, entra in questa apertura che è la sorellanza. Uomini, donne, bambini, trans, persone della comunità LGBTQ, chiunque può essere una sorella.


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Giulia Muccioli, 23 anni, studia Filosofia all'Université Paris VIII dopo essersi laureata all'Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle riletture femministe e decoloniali del post-strutturalismo francese.


Silvia Lippi  è psicoanalista e docente titolare dell’Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata (IRPA), diretta da Massimo Recalcati. Tra le sue pubblicazioni: La decisione del desiderio (2017), Sigmund Freud. La passione dell’ingovernabile (2018), Ritmo e melanconia (2018), Trasgressioni. Bataille, Lacan (2019). Per DeriveApprodi ha pubblicato, insieme a Patrice Maniglier, Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista (2024).

 

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