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La piscina di Paperone. Sintomi nel regno della merce



Pubblichiamo l’introduzione al libro Sintomi. Per un’antropologia linguistica del mondo contemporaneo, in uscita per Machina nella sezione scavi, che racchiude tutti i contributi della rubrica più alcuni inediti.

Marco Mazzeo e Adriano Bertollini riflettono sulla nozione filosofica di «sintomo», al centro del lavoro di ricerca di questa sezione della della rivista Machina.


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1. L’immagine del capitale: Debord contro Disney

Le difficoltà di espressione che ostacolano la descrizione del mondo contemporaneo («capitalismo» è parola che lo descrive da fuori e che, dunque, mette alla porta chi la pronuncia) impongono un’attività di apprendimento. Sarebbe opportuno provare a rileggere, riga per riga, il libro di Guy Debord intitolato La società dello spettacolo. Il francese, che non aveva il telefono e che nel 1994 decide di farla finita, mette a fuoco la metafisica di un termine oggi patrimonio del senso comune, oltre che di qualche corso di laurea, lo spettacolo per l’appunto. Oltre a questo, un altro merito del libro è aver coniato una serie di termini chiave e di passaggi concettuali. Probabilmente negli anni Sessanta potevano apparire scontati per quel che riguarda il richiamo, chiaro all’epoca, ai testi di Karl Marx. Per un altro verso, alcune delle sue conclusioni saranno apparse eccessive. Oggi ci troviamo nella situazione inversa. Marx è rimasto schiacciato dalla tradizione del pensiero marxista ufficiale filosovietico (Virno 2022). L’impressione di eccesso è sostituita oggi dallo smarrimento di chi si sente dire l’ovvio: Il pianeta malato, titolo di un saggio di Debord, è afflitto da una società che integra mercato neoliberale e sistemi di controllo neodittatoriale (il francese chiama questa una declinazione della «società dello spettacolo integrato»: Debord, 1967-1992, p. 194).

Spesso le parole chiave che aleggiano nel libro di Debord sembrano in grado di aggirare, almeno in modo temporaneo, i tabù della nostra epoca. Per questo, sarebbe opportuno un lavoro interlineare che commenti, discuta e renda vividamente presente quel che il suicida disse trenta o sessanta anni fa.

Qui, ci limiteremo a una bozza d’analisi dell'ultimo paragrafo della prima sezione del libro. Si tratta di un passo particolarmente breve e assai denso: «lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» (Debord, 1967-1992, § 34, p. 64).

Bello si dirà, ma forse non poi così perspicuo. Per comprendere la diagnosi, può essere utile procedere parola per parola: cosa vuol dire «capitale»? Come intendere la parola «accumulazione»? Il termine «immagine» ha qui un'accezione generica o particolare?

Punto di partenza del capitale è la «circolazione delle merci» (Marx, 1867, p. 180), «la sua prima forma fenomenica» è il «denaro» (ibidem). La dinamica principale del capitale è il rapporto, infatti, tra questi due termini:


La circolazione semplice delle merci – vendita per la compera – serve di mezzo per un fine ultimo che sta al di fuori della sfera della circolazione, cioè per l’appropriazione dei valori d’uso, per la soddisfazione di bisogni. Invece la circolazione del denaro come capitale è fine per se stessa.


I due movimenti (vendere per comprare, comprare per vendere) sono simmetrici solo in apparenza. Quando vendo per comprare non m'impegno in un movimento tipico del modo di produzione capitalista perché svolgo una generica operazione commerciale. Mi libero, ad esempio, di una casa di due stanze al fine di comprarne un’altra con caratteristiche diverse. Al contrario, quando compro per vendere, ad esempio acquisto un immobile al solo fine di rivenderlo a un prezzo maggiore, «principio e fine sono la stessa cosa: denaro, valore di scambio» (ivi, p. 184). Obiettivo fondamentale del capitalista è l’«appropriazione della ricchezza astratta. Quindi il valore d’uso non dev’esser mai considerato fine immediato» (ivi, p. 186). Nella prima circostanza, prendo in considerazione le qualità sensibili dei beni (il loro «valore d'uso») e la loro rispondenza alle mie esigenze: la bellezza del giardino secondo i miei canoni estetici, la comodità di quell’appartamento per le mie abitudini. Nella seconda, considero il bene solo in relazione alle possibilità di una vendita conveniente (il suo «valore di scambio»): compro qualcosa che magari non mi piace e non mi serve al fine di trovare nelle mie tasche, alla fine dell’operazione, una quantità maggiore di denaro.

Debord riprende il concetto di «accumulazione» per insistere su una doppia sproporzione. La prima riguarda il rapporto tra popolazione e ricchezza: «per quanto la popolazione sia cresciuta rapidamente, non ha tenuto il passo col progresso dell’industria e della ricchezza» (Marx, 1867, p. 712). La seconda, invece, consiste nel fatto che «questo inebriante aumento di ricchezza e di potenza è limitato interamente alle classi possidenti» (ivi, p. 713). Più denaro che persone; più ricchi che poveri.

Capitale e accumulazione s’intrecciano, dunque, perché entrambi i concetti sono astratti e circolari. Il capitale non indica la concentrazione di tanta ricchezza, ma il fatto che la ricchezza tramite il denaro tende ad accrescere se stessa senza uno scopo che non sia…la ricchezza stessa. D’altro canto, anche l’accumulazione è un fenomeno crescente che mira alla propria riproduzione: le ricchezze aumentano così tanto, nei pochi che le hanno, da divenire così astratte da risultare irrappresentabili. Nel mondo odierno, è difficile anche solo immaginare la ricchezza dei più ricchi. Si legge nella pagina sportiva: «il calciatore Lionel Messi ha il contratto scaduto, ciò vorrà dire che non guadagnerà più 10.000 euro al giorno». Cosa significa guadagnare 416,6 euro l’ora per ogni ora del giorno? Oppure: cosa significa, è il caso del fondatore di Amazon (giugno 2021), possieda «199 miliardi di dollari»? Cosa vuol dire ancora che, come titola un giornale economico, «le 500 persone più ricche del mondo possiedono 3 volte il prodotto interno lordo dell’Italia»? Aldilà delle espressioni di meraviglia, invidia o disprezzo, il punto su cui soffermarsi è che una tale accumulazione di ricchezza è inimmaginabile: posso dirne, ma difficile è averne contezza circa dimensioni, impiego, problemi.

Il senso comune definisce l’accumulatore un «Paperon de Paperoni». Il personaggio di Walt Disney è la rappresentazione caricaturale, non per questo poco realistica, del detentore del capitale. Guadagno per guadagnare, faccio denaro per farne altro. Il tentativo di rappresentare un'accumulazione irrappresentabile prende le sembianze dell’enorme salvadanaio, un deposito smisurato che tenga insieme tutti i denari del possidente. Il problema, piuttosto, è che l'accumulazione capitalistica si rivela talmente difficile da rappresentare nel concreto che anche il fumetto deve cedere e divenire, suo malgrado, realistico. Paperon de Paperoni non è, neanche lui, un’icona del tutto appropriata del fenomeno perché anche il vegliardo sente la necessità di fare qualcosa con tutto quel denaro che non sia farne dell’altro: e allora vi nuota, ci si tuffa, ne fa una doccia. Le fattezze sensoriali del denaro assumono un valore d’uso, particolare e idiosincratico (gli altri ricchi del fumetto non fanno altrettanto, questa è la funzione antropologica dell’arcigno Rockerduck). Pure Paperone, il cartone animato, è più concreto dell’accumulatore di capitale: sente l’esigenza di fare del denaro qualcosa che non sia solo denaro: piscina, comodino, letto.

Questo è l’aspetto più semplice del problema perché indica quel che accade in termini quantitativi: difficile immaginare quanto il capitale risulti accumulativo; anche Paperon de Paperoni, in fin dei conti, non riesce a tenere il passo col fenomeno. Si tratta, però, della conseguenza di un meccanismo di fondo che riguarda un altro termine chiave della modalità di produzione contemporanea, al quale Debord dedica tutta la parte seconda del suo libro: la nozione di «merce». La parola è molto vicina a quella di spettacolo. Ne è, per così dire, la madre.

«Merce» e «spettacolo» sono parole del linguaggio ordinario: appaiono nelle cronache locali, nei discorsi privati, addirittura nel nome di alcuni corsi di laurea. Si tratta, però, di nozioni schiettamente metafisiche, giacché costituiscono un garbuglio concettuale paragonabile alla nozione di «volontà» di Schopenhauer o di «Uno» in Plotino. Sono parole della metafisica quotidiana: complesse e invisibili giacché, direbbe Wittgenstein (1953), sempre sotto i nostri occhi. Scrive Karl Marx (1867, p. 103): «il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso», vale a dire dalle caratteristiche organolettiche e d'impiego di cose considerate nel loro aspetto materiale. Si pensi alla comodità della poltrona del nonno, magari priva di valore commerciale perché vecchia e logora, ma insostituibile per l’anziano signore che ogni giorno vi si adagia per prendere il caffè; all'automobile in campagna che, secondo la rivista Quattroruote ha una valutazione di un centinaio di euro, ma che per le funzioni che le assegniamo è un perfetto compromesso tra costi di manutenzione, tenuta all’usura, utilità giornaliera. Il valore d’uso di un oggetto è legato non necessariamente al lavoro (può averne pure «aria, terreno vergine, praterie naturali, legna di boschi incolti»: ivi, p. 73). Anche quando legati al lavoro (gli esempi che facevamo prima circa poltrone o automobili), i valori d’uso «non possono stare a confronto l’uno con l’altro come merci» (ivi, p. 74).

La merce, dunque, vive della seconda accezione di valore cui abbiamo accennato: il valore di scambio. Le merci sono definibili come «tempo di lavoro coagulato» (ivi, p. 72). Ed ecco che le cose si fanno maledettamente astratte. In primo luogo, perché non entra più in gioco la qualità percettiva dell’oggetto, ma il tempo misurato necessario alla sua produzione. Si tratta di un fattore non più spaziale ma cronologico e quindi sfuggente: più difficile da ricostruire, impossibile da percepire quando si vede la merce in questione (quando vedo una sedia ne percepisco forma e colore ma non ne percepisco il tempo necessario alla costruzione). In secondo luogo, questo tempo non è fisso. Il tempo necessario alla costruzione della sedia dipende dalle modalità di produzione di quell’oggetto: farla a mano richiederà più tempo che in fabbrica; un artigiano ci metterà meno tempo dell’amatore; la piccola fabbrica sarà più lenta del grande complesso industriale. Il tempo coagulato di lavoro riguarda il lavoro «socialmente necessario», vale a dire il tempo necessario alla specifica società entro cui il bene assume valore. Negli anni Cinquanta, il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre un frigorifero era nettamente superiore a quello odierno; diverso quindi il suo valore di scambio.

Esiste, però, un terzo piano d’astrazione. La merce costituisce, continua Marx, l’«incarnazione generale del lavoro umano astratto» (ivi, p. 108). La nozione di valore di scambio deve superare una difficoltà ulteriore: i lavori sono tra loro molto diversi. Cosa hanno in comune il lavoro del carpentiere con quello del geometra? Il meccanico con il lavoro del netturbino, l’agricoltore con il pescatore? Nella scuola primaria, il primo insegnamento della maestra è che in aritmetica «non si possono sommare le pere alle mele». Stabilire una proporzione tra il frutto di lavori diversi pone, invece, proprio questo compito: a quante mele corrisponde un pesce? A quanti pesci un biglietto dell’autobus? A quante ore di pesca corrisponde un’ora in miniera? Per rispondere a domande del genere, bisogna cancellare «tutte le qualità sensibili» (ivi, p. 70) non solo dei prodotti del lavoro (le sedie, le mele) ma delle attività che si sono rivelate necessarie alla loro produzione (l’artigianato, l’agricoltura, l’estrazione mineraria). Oggi e per noi, questo procedimento pare ovvio. Non lo è. La merce, in quanto incarnazione generale del lavoro astratto, produce un salto metafisico: dalla qualità concreta delle singole attività e dei singoli prodotti a una quantità numerica incarnata dal denaro. Questa mela vale 50 centesimi; questa sedia vale 20 euro; dunque questa sedia vale 40 mele. Merce e denaro consentono di fare del mondo contemporaneo quel che la maestra ricorda essere impossibile nell’ambito, già parecchio astratto, della aritmetica. Il mondo delle merci è più astratto del regno dei numeri.

Ecco perché Marx, interlocutore privilegiato dell’opera di Debord, insiste sul carattere mistico della merce fino a definirla una cosa «sensibilmente sovrasensibile» (ivi, p. 103). È «sensibile» perché le merci sono oggetti in carne e ossa: case, bistecche, ferri da stiro. Le merci sono, però, «sovrasensibili» perché in esse troviamo la coagulazione spaziale di un tempo (quello del lavoro); un lavoro che è astratto in quanto media di tutti i lavori necessari in quella società per produrre quell’oggetto; un lavoro doppiamente astratto perché non considera la specificità di tutte le diverse attività produttive. Emerge l’arcano: quel che vedo, sento, tocco di una merce sono le sue proprietà organolettiche e la sua rispondenza alle esigenze del singolo, il valore d’uso. Quel che, invece, fa diventare un oggetto merce è invisibile, il suo valore di scambio. Per la comprensione del passo di Debord è fondamentale un’altra parola apparentemente innocua, «immagine» (ivi, p. 104):


L’arcano della forma merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili […].


La merce è un’immagine speculare, sostiene Marx: incarna il modo della sua produzione, le tendenze del mondo produttivo che lo ha generato, i rapporti di forza che lo animano. Uno smartphone è immagine del mondo cui appartiene tanto da risultare incomprensibile a un ipotetico umano del neolitico che dovesse incontrarlo. La sua possibilità d’esistenza è l’immagine di un certo modo di produrre: senza il commercio globale, non sarebbe possibile avere così facilmente oggetti che provengono dalla Cina a basso costo. Per millenni quel che viene dall’Oriente è per definizione prezioso e costoso come la sete o le spezie perché solo questo poteva giustificare tempi e spese elevatissime per il suo trasporto. Senza raffinate attività estrattive, sarebbe impossibile avere le materie prime per costruire microchip potenti e di piccole dimensioni; senza il lavoro frenetico degli operai della Apple sarebbe impossibile avere un prodotto così sofisticato eppure disponibile in milioni di esemplari. Il quid pro quo di cui parla Marx consiste nello scambio di posto tra uso e scambio. Il bisticcio di parole è voluto: lo scambio è termine che compare due volte, sia come giocatore della partita che come modo nel quale la partita si gioca. Le condizioni che rendono possibile la produzione di un oggetto di scambio (astratte più dell’aritmetica, come abbiamo visto) diventano «oggettive», cioè sensibili, davanti ai nostri occhi, ovvie come il rosso della mela o l’arancione della carota.

Questo scambio di posto fa dell’immagine un'immagine speculare: l’aggettivo si riferisce al fatto che la merce è una fotografia fedele della situazione, come lo specchio fedelmente riproduce i tratti del nostro viso; ma anche al fatto che riporta in termini invertiti la sua struttura, come allo specchio la sinistra dell’immagine corrisponde alla nostra destra. La merce è una fotografia del mondo, certo; ma alla rovescia. Il rapporto tra esseri umani (lavoratori e imprenditori) diventa rapporto tra cose, cioè, per dirne una, proporzione tra il valore dello smartphone Apple e della Samsung.

Detto in termini grezzi ma forse più chiari: la merce è tale proprio perché in essa non è direttamente visibile il tipo di lavoro che richiede. Sono invisibili i rapporti di dipendenza (di sottomissione, controllo, obbedienza) che l’hanno resa possibile.



2. Una piscina piena di sintomi: concretezza magica delle merci

Mai come oggi, epoca del contagio, pare necessario parlare di «sintomi». Con questa espressione ci riferiremo a tutti i fenomeni per i quali valga la definizione seguente: «sintomo» è la manifestazione empirica e circoscritta di una condizione di possibilità dell’esperienza (per una definizione più tecnica, cfr. Mazzeo, 2019, pp. 31-32). Il sintomo corrisponde, in altri termini, a quel che l’antropologo e studioso di Aristotele Karl Marx (1864, p. 104) chiama, lo dicevamo prima, «fenomeno sensibilmente sovrasensibile».

Per illustrare il concetto, si avverte:


Per trovare un’analogia dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini.


Contro la vulgata, spesso lamentosa e reazionaria, che racconta di una progressiva laicizzazione del mondo occidentale, una filosofia dei sintomi propone un percorso inverso. Quel che Debord chiama «società dello spettacolo», vale a dire il capitalismo in grado di mettere in scena le impalcature architettoniche (merce, denaro, lavoro), vive grazie alla costruzione di una relazione magico-religiosa con il pianeta e i conspecifici. Al cospetto di un mondo in cui «i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti» (per rimanere a un esempio elementare, il vasto panorama dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi di calcolo), quelle che Lévy-Bruhl (1922, p. 21 e sgg.) definiva cento anni fa «partecipazioni mistiche» paiono fenomeni di precisione algoritmica. L’astrattezza eterea degli ingranaggi che la società dello spettacolo espone fa sì che i fenomeni più concreti trasudino, spesso, di teoria. Ne sono così intrisi da rendere paradossalmente invisibile il proprio carattere teorico. La merce, ancor più l’immagine di cui parla Debord, è un rompicapo cognitivo che vive dei paradossi linguistici dell’autoriferimento e del paradosso del mentitore: il mercato azionario, ricorda ad esempio Marazzi (2001, p. 14), è per sua natura «autorefenziale» perché non agisce sulla base di informazioni ma su ciò che si crede essere l’azione altrui di fronte a certe informazioni. Le singole merci ne incarnano gli enigmi con una forma densa e tridimensionale (IPad o auto elettriche) oppure digitale e scorrevole (dalle piattaforme social e siti di vendita online ai meccanismi della finanza contemporanea). In entrambi i casi, il quotidiano cerca un volto perturbante. La personificazione animistica delle piazze d’affari («le borse oggi sono nervose», «i mercati puniscono le scelte del governo italiano»), i riti di operatività magica del mondo dei personal computer («spegni e riaccendi» come mossa chiave di ogni disastro d’uso) sono solo due esempi di comodo per mostrare, in poche righe, quanto pensiero magico alberghi nel più tecnologico dei mondi storici finora organizzati sulla Terra.

Per questa ragione, la catalogazione dei fenomeni contemporanei più microscopici può aiutare la conquista di uno sguardo antropologico circa l’epoca in cui viviamo. Non più epoca della fine della storia, solo l’epoca in cui questa fine la si pretende con il maggior impiego di forme tecniche e, contemporaneamente, con l’uso intensivo di pensiero magico. La contemplazione della merce vive, infatti, di un controcanto operativo: la sostituzione del mercato a quella dimensione che nelle società tradizionali era il piano del «sacro» (Appadurai, 2016, p. 69 e sgg.) si avvale della rinascita di «un’arte pratica», così Mauss (1950, p. 147) definisce l’azione magica. Una serie televisiva, uno slogan giornalistico-pubblicitario, un testo della musica trap, un episodio di cronaca quanto un inaspettato tumulto carcerario paiono tutti ottimi candidati per una riflessione sul mondo contemporaneo, fenomeni semplici all'apparenza e invece masse aggrovigliate di contingenza storica e fatti della natura.

Per rilevare sintomi, e non solo fatti o episodi, paiono necessarie dunque due caratteristiche minime: uno sguardo antropologico verso quel che ci circonda (la nostra è un'epoca storica, non la fine della storia); il coraggio di partire dalle cose brute (cioè materiali) della nostra esperienza senza alcun intento apologetico. Una sintomatologia del tempo presente è l’opposto di una semiotica postmoderna (Vattimo, Rovatti, 1983). La seconda spulcia il mondo attuale in cerca di chicche imperdibili visto che saremmo arrivati al migliore dei mondi possibili. La prima, al contrario, vuol seguire con scrupolo i suggerimenti lasciati da Walter Benjamin nelle cosiddette Tesi sul concetto di storia. Per uscire dall’«incantamento dell’intelletto» (Wittgenstein, 1953, § 109) prodotto sui parlanti dal senso comune del mondo neoliberale, occorre riscoprire quel che Nietzsche chiama «storia antiquaria» che «dà dignità al piccolo» (ivi, p. 24) contro lo sguardo megalomane che solo nell’opera monumentale e nella personalità eccellente crede di ravvisare i movimenti del tempo umano. Per evitare quel che Nietzsche chiama «mummificazione della vita» (ivi, p. 27), Benjamin non ricorre all’appello circa un vago equilibrio di dosi tra i diversi tipi di sguardo storico che magari finisca nel vitalismo autoritario di chi ritrovi nella storia il «maschile» dei «forti e non dei deboli» (ivi, pp. 43-44).

L’ossessività antiquaria evita di limitarsi alla conservazione che venera del passato, e del presente, se e solo se prende ossigeno dal taglio critico di chi seleziona e giudica. Il secondo verbo potrebbe ingannare. Il termine «giudizio» non si riferisce alla lamentela morale («i giovani non sono quelli di una volta»), ma alla postura politica di chi lotta contro la tentazione di immedesimarsi con il vincitore. «Giudicare» significa contrapporsi alla fallacia naturalistica di chi afferma che «così è perché deve essere» oppure, ma è lo stesso, che chi ha avuto la meglio nei conflitti del passato e del presente ce l’avrebbe fatta perché in fondo aveva ragione. Lavorare su sintomi contribuisce a evitare l’equivoco pernicioso che farebbe della «debole forza messianica» presente nella storia – questa la celebre espressione di Benjamin (1995, 2, p. 76) – la fusione con i dintorni dell’Homo sapiens o comunque un riferimento appiattito direttamente sulla sua lettura religiosa (la dilatazione temporale tipica del «Regno»: Agamben, 2019, p. 114). Viceversa, qui vale la lettura del concetto offerta da Elvio Fachinelli (2010, p. 212): la concezione messianica della storia corrisponde alla «percezione acuta delle esigenze radicali del presente che, proprio perché soffocate, o respinte nel futuro, torneranno a ripresentarsi con sempre nuova urgenza».

Proprio per via di questa urgenza occorre fugare un equivoco nascosto dietro l’angolo, anche a costo di risultare ripetitivi. Per un verso il sintomo è la spia di un malanno, la percezione dolorosa che qualcosa sta alterando un equilibrio. Etichettare i fenomeni empirici con questo termine significa dunque, paradossalmente, partire da una diagnosi precisa: la società dello spettacolo non è salutare, l’organizzazione produttiva contemporanea è in sé nociva. Una presa di posizione teorica che consente di guardare all’attualità sicuramente in maniera più parziale, ma forse anche più nitida. E tuttavia non è questo il luogo dei «si stava meglio quando si stava peggio». Proponiamo una seconda accezione di sintomo da affiancare alla prima, anche se meno diffusa tanto nel gergo medico quanto nell’uso comune. La troviamo condensata in espressioni quali «la fronte alta è sintomo di intelligenza», oppure «il prurito alla ferita è sintomo di guarigione». Fuor di metafora: giudicare il presente, non condannarlo a priori. Andare alla ricerca, là dove c’è il malanno, dello spazio per una rinnovata salute. Si tratta, insomma, di fare i conti con l’ambivalenza delle forme di vita contemporanee (cfr. il volume Sentimenti dell’aldiqua), concependo i fenomeni studiati alla stregua di occasioni: occasioni per far emergere la morfologia di un’epoca, ma anche inaspettate chances per metterla in crisi.

Per chiarire il concetto, può essere utile fare riferimento alla nozione di «diagramma storico-naturale» per come l’ha elaborata Paolo Virno (2004). L’idea di fondo è che gli accidenti storici non siano altro che configurazioni transitorie della natura umana. Ciò che accade proprio ora (puerilismo, lavoro non specializzato) è funzione del modo contingente in cui organizziamo ciò che ci appartiene da sempre (neotenia, carenza di istinti specializzati). La ragione di ciò sta nel fatto che la biologia umana è contraddistinta da una spiccata dose di potenzialità. La nostra risorsa adattiva non sono moduli comportamentali specifici che si innescano di fronte a situazioni determinate (l’impulso alla riproduzione legato al ciclo dell’estro), ma una serie di facoltà che devono venire di volta in volta tarate sulle circostanze che emergono: il sapiens è chiamato a trasformare in capacità concrete una pura virtualità. E così veniamo al mondo provvisti della facoltà del linguaggio, ma per imparare a parlare dobbiamo apprendere una lingua; nasciamo con una generica propensione alla manipolazione, ma servono anni di esercizio per padroneggiare una tecnica. In quest’ottica, storico è il modo in cui diamo forma alle nostre facoltà naturali.

Sintomo e diagramma insistono entrambi su questo cortocircuito tra eterno e transeunte, ma mettono l’accento su due aspetti diversi. Il secondo va a caccia, nella giungla dei fenomeni, dell’appiglio metastorico, della caratteristica trascendentale che si dà a vedere nell’empirico. È un risalire dal condizionato alle condizioni, scorgendo nel proprio ora le fattezze del già da sempre. Complementare al diagramma è il sintomo, che va – per così dire – nella direzione opposta, indugiando sull’oggi, raccogliendo e catalogando accidenti storici con cui mappare minuziosamente il presente. Il sintomo è il modo in cui una facoltà umana (neotenia) prende forma in un frammento della società dello spettacolo (puerilismo della musica trap), segnalando tanto una condizione patologica (lo stato di passività e senso di impotenza caratteristico di millennials e generazione Z) quanto uno spiraglio di guarigione (capacità innovativa di adattamento alle circostanze). Diagrammi e sintomi sono due lenti da usare insieme per scorgere, in ciò che è in atto, il baluginio di una potenza, nell’istante la scintilla messianica (cioè irredenta, che richiede di far giustizia oggi per quel che avvenne ieri) che vi è nascosta. Lenti ultrarosse per far emergere dal «proprio così» un potenziale «altrimenti». Nel mondo religioso delle merci, del loro consumo magico e della loro contemplazione estatica, occorre soffermarsi su dettagli all’apparenza insignificanti. In queste briciole di metafisica albergano pagine di un abecedario della resistenza o, addirittura, di una liberazione. Se il medico non teme di strizzare l’orrido bubbone per capire l’infezione, il filosofo non può permettersi lo snobismo della chicca culturale o della primizia erudita. Per superare il tempo presente, occorrono collezionisti spietati.


* Il saggio è stato progettato e discusso dai due autori nel corso di due anni di lavoro teorico ed editoriale. Detto questo, Marco Mazzeo ha stilato il primo paragrafo, Adriano Bertollini ha redatto il secondo.




Bibliografia

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A. Appadurai, Banking on Words. The Failure of Language in the Age of Derivative Finance, University of Chicago Press, Chicago 2016 (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, trad. it. di F. Peri, Raffaello Cortina, Milano 2016).

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L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953 (Ricerche filosofiche, trad. it. Di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983).



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Adriano Bertollini

ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università della Calabria con una tesi sul ruolo del linguaggio nell’amicizia. Ha studiato a Roma Tre e svolto soggiorni di ricerca in Germania e negli Stati uniti. Per DeriveApprodi ha pubblicato Filosofia dell'amicizia. Linguaggio, individuazione, piacere (2021).

Marco Mazzeo

insegna filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. È stato tra i fondatori della rivista «Forme di vita». Nel 2013 ha vinto il premio internazionale C. Perelman. Per DeriveApprodi ha pubblicato Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile (2017), Capitalismo linguistico e natura umana. Per una storia naturale (2019) e Il pirata. Antropologia del conflitto (2021).


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