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L'ipotesi di un interregno secolare

Estratto da «Convenzioni e governo del mondo»




Ipotesi di un interregno secolare

Il volume appena uscito di Massimo de Carolis completa una ideale trilogia, cominciata con Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica (Quodlibet 2008), poi proseguita con Il rovescio della libertà.Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà (Quodlibet 2017). In ConvenzionI e governo del mondo il filosofo affronta, con la consueta chiarezza, un tema a dir poco centrale per una ontologia del presente. Qual è il rapporto tra regole e norme? Quale la relazione tra la prassi consueta e gli ordini, le direttive che dovrebbero dare loro una sagoma uniforme? Cosa succede quando il tema del governo, tradizionalmente legato a un'entità determinata come lo Stato nazionale, diventa questione che coinvolge un intero pianeta?


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5. Nel suo Trattato sulla natura umana, David Hume presenta la convenzione come la più elementare forma di coordinazione tra agenti dotati di ragione: più semplice e più spontanea di qualunque altra perché in essa l’intesa è raggiunta «anche se manca qualsiasi promessa» (Hume 1740, libro III, parte II, sez. 2, p. 315). L’esempio canonico è quello di due rematori su una stessa barca: ciascuno tenderà spontaneamente a uniformarsi al ritmo dell’altro, benché nessuno dei due obbedisca a una promessa, un vincolo o una qualunque costrizione esterna. Gli altri due esempi di Hume – la lingua e la moneta – rendono ancora più chiaro il suo punto di vista. Nessuno di noi è obbligato a rispettare le regole grammaticali né, tanto meno, ad accettare dei piccoli pezzi di metallo o di carta in cambio di beni e servizi dal valore materiale sicuramente maggiore. Potremmo non farlo, senza incorrere in alcuna sanzione. Eppure lo facciamo e, così facendo, spingiamo gli altri a seguire il nostro esempio.

Ognuno, dunque, resta libero di fare ciò che vuole, ma è proprio da questa libertà generalizzata che si genera, si riproduce e si evolve un ordine convenzionale, che si nutre della spontanea concordanza delle aspettative e dei comportamenti.

Ora, lingua e moneta sono, indiscutibilmente, istituzioni basilari delle società umane, oggi come nel passato più remoto. Per quanto però la loro importanza sia fuori discussione, è innegabile che l’ordine sociale, nel suo insieme, ricorra anche a regole, promesse e vincoli molto più stringenti delle semplici convenzioni. Nelle società moderne, tali «regole del gioco» oscillano approssimativamente tra due poli: da un lato, le norme e i decreti promulgati dall’autorità politica e imposti, se necessario, con l’uso legittimo della violenza; dall’altro, gli impegni contrattuali su cui poggia la vita economica che, per quanto liberamente stipulati, una volta sottoscritti si traducono in obblighi inderogabili. Sono quindi le norme e i contratti, più che le convenzioni in senso stretto, a regolare la vita collettiva.

E per quanto si tratti di due istituti profondamente diversi tra loro, ciò che li accomuna è che si tratta comunque di vincoli, obbligazioni e dunque, in senso lato, di promesse. Del resto, anche volgendo le spalle alla realtà contemporanea, sarebbe difficile anche solo immaginare un ordine sociale affidato esclusivamente a delle convenzioni, che lascino a ciascun agente la completa libertà di uniformarsi o meno alle aspettative altrui, a proprio insindacabile arbitrio. Con tutta probabilità, una così totale assenza di obblighi e promesse si tradurrebbe in un perenne «stato di incertezza tra la festa e la guerra» (Mauss 1950, p. 239): elettrizzante, forse, ma difficilmente compatibile, alla lunga, con un livello minimo di stabilità. È perciò che tutte le civiltà (comprese quelle arcaiche, cui si riferisce la frase di Marcel Mauss appena citata) sono portate a rinforzare le convenzioni con strumenti di governo delle condotte collettive più diretti e vincolanti. Anche Hume, nel suo Trattato, considera inevitabile il ricorso a simili misure di governo, che trascendono il piano della pura e semplice convenzionalità. È convinto però che né la coercizione né i contratti possano mai soppiantare del tutto le convenzioni. Dal suo punto di vista, per quanto l’ordine sociale possa stabilizzarsi (e irrigidirsi) attraverso contratti e norme, al fondo la sua riproduzione e la sua durata non potranno mai prescindere del tutto dal libero gioco delle convenzioni.

La ragione è di natura prettamente logica. Ogni azione o decisione consapevole, per quanto vincolata ad obblighi pregressi, conserva inevitabilmente un certo margine di scelta. Una volta promesso qualcosa, dovrò comunque scegliere di mantenere la parola data, come devo scegliere di obbedire alle leggi. Persino nel caso in cui le forze di governo dispongano di un potere coercitivo in apparenza irresistibile, la disobbedienza o il mancato rispetto dei patti potranno forse apparire irrazionali (e, in qualche caso, moralmente riprovevoli), ma il punto è che gli esseri umani possono scegliere di agire anche in modo irrazionale e autodistruttivo, e non c’è legge o obbligazione contrattuale che possa annullare un tale residuo ultimo di scelta. Una legge o un contratto che volessero obbligarmi a rispettare le leggi e i contratti cadrebbero in un evidente vizio logico, riproducendo il problema all’infinito. All’atto pratico, perciò, promesse, leggi e contratti restano comunque convenzioni, anche se spesso tendiamo a dimenticarcene (e se le autorità possono non gradire che lo si ricordi).

La distanza logica che separa le convenzioni dagli obblighi (leggi o contratti che siano) ha, virtualmente, un valore politico cruciale – e Hume ne è pienamente consapevole – perché marca in un certo senso i limiti di qualunque azione di governo. Per quanto, ad esempio, possa spingere la coercizione fino alla brutalità, il governo avrà comunque bisogno di poggiare su un grado minimo di consenso, che includa almeno «i mammalucchi o le schiere di pretoriani» chiamati a farne rispettare gli ordini (Hume 1741, p. 33). E, analogamente, un contratto avrà sempre bisogno di un certo grado di fiducia tra le parti: chi, ad esempio, abbia contratto un debito, difficilmente si rassegnerà a pagarlo se il creditore insiste su una qualche penale intollerabile, come Shylock nel Mercante di Venezia. Consenso e fiducia sono, evidentemente, il frutto di dinamiche spontanee, in cui convergono innumerevoli spinte soggettive. Si tratta quindi di convenzioni in senso stretto e sta di fatto che, senza il loro rapporto, nessuna obbligazione potrebbe mai acquisire il grado di stabilità necessario per dare forma a delle istituzioni sociali.

A ben guardare, dunque, le dinamiche convenzionali sono segnate da una profonda ambivalenza. Da un lato, assicurano il terreno basilare per ogni forma stabile di legame sociale. Dall’altro, marcano un margine ineliminabile di libertà soggettiva, una specie di principio di anarchia e quindi anche di imprevedibilità e incertezza.

Per secoli, il pensiero politico moderno ha rivolto a una tale ambivalenza un’assidua attenzione, cercando le strategie più efficaci per rafforzare il potenziale costruttivo delle convenzioni, addomesticandone allo stesso tempo la componente incerta e virtualmente distruttiva. Alle soglie del Novecento, finalmente, il problema sembrava risolto con tanto successo, da poterlo archiviare in un passato arcaico dai contorni mitici. Anche ammesso che in un remoto «stato di natura» la vita fosse stata incerta e pericolosa, nel mondo civile il contratto sociale sembrava ormai una solida certezza, solidamente affidata a norme positive e non a consuetudini più o meno ambivalenti. Persino la rivalità accanita delle relazioni di mercato, agli occhi dell’economista classico, svelava un meccanismo di assoluta razionalità, immancabilmente indirizzato all’equilibrio e alla crescita della ricchezza collettiva. L’incertezza congenita delle antiche convenzioni sembrava insomma aver lasciato definitivamente il campo alla certezza della scienza.

La «crisi organica» che diede inizio all’interregno ebbe l’effetto di una doccia fredda su questo genere di illusioni, sull’ottimismo liberale e sull’ideologia del progresso con cui si era aperto il Ventesimo secolo. La montagna di caduti della Grande guerra e il crollo finanziario di Wall Street annunciarono che il mondo era cambiato e che instabilità, incertezza e ambivalenza tornavano a regnare a tempo indefinito.


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Massimo De Carolis insegna Filosofia politica e Filosofia sociale all’Università di Salerno. È autore di numerosi saggi, tra cui La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri, 2004), Nuovi disagi nella civiltà (con Francesca Borrelli, Francesco Napolitano e Massimo Recalcati, Einaudi, 2013). Ha pubblicato per Quodlibet Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica (2008, 2018), Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà (2017, 2021) e Convenzioni e governo del mondo (2023).

Un suo saggio è presente in Sentimenti dell'aldiqua. Opportunismo paura e cinismo nell'età del disincanto (DeriveApprodi, 2023).


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